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Terremoto: noi accusiamo


Noi accusiamo – Giorgio Cremaschi

Gli operai morti per il terremoto in Emilia sono stati uccisi e la legge deve individuare e punire i colpevoli. Gli omicidi sul lavoro in Emilia non possono essere inseriti nella normale incuria del territorio e nell’’edilizia facile. La cosa è molto più grave.
La normale incuria del territorio, l’’edilizia allegra, c’’erano già domenica notte, con la prima scossa di terremoto. Allora eravamo ancora  in una delle frequenti condizioni del degrado del territorio. Ma poi è successo qualcosa in più. Tanti hanno detto che molti fabbricati industriali erano stati costruiti senza sapere che quella era una zona sismica. Ammettiamolo pure. Ma la notte tra domenica e lunedì 21 maggio, la zona sismica c’’era, chiara, brutale.
Sono andato la scorsa settimana nei territori colpiti. Ho visto che i capannoni crollati, con solo alcune vittime perché le fabbriche erano chiuse, erano sostanzialmente tutti dello stesso tipo, costruiti con le stesse modalità. Domanda: allora perché si è concesso di tornare al lavoro, in una zona sismica, dopo che si era saputo che molte strutture non erano adeguate, anzi, erano a rischio? Vogliamo i colpevoli, quelle autorità che per negligenza, omissione, superficialità, non hanno impedito il massacro di operai.
In secondo luogo, bisogna sapere se chi è andato a lavorare ci è andato, come si dice, di sua spontanea volontà o, invece, perché costretto dai contratti precari o dai ricatti, se migrante, della Bossi-Fini. O vieni a lavorare o stai a casa per sempre. Bisogna sapere questo. Ci vuole un’’inchiesta a tappeto della Magistratura che, nella ThyssenKrupp emiliana determinata dal terremoto, colpisca senza indulgenze chi ha provocato o lasciato accadere una strage di operai, che poteva assolutamente essere evitata. Il Presidente della Confindustria, l’’aperto e moderato Squinzi, ha subito assunto posizioni di negazione vergognosa della responsabilità. Noi accusiamo, noi vogliamo giustizia. Tutto il resto sono chiacchiere.

Terremoto, il ricatto degli imprenditori agli operai: o lavori con le scosse o vai in ferie

I racconti dei lavoratori: “nelle aziende sono comparsi anche cartelli di avvertimento”. E le vittime finite sotto le lamiere erano tutte precarie

di Emiliano Liuzzi | Medolla | Il Fatto Quotidiano 31 maggio 2012

Vincenzina vuol bene alla fabbrica, canta in uno dei suoi pezzi formidabili Enzo Jannacci, quando smette i panni dello stralunato e folle. E di Vincenzine ce ne sono tante tra Mirandola, Medolla, Cavezzo e San Felice sul Panaro, borghi produttivi della Bassa modenese, il motore di una Emilia che fu rossa, ma è rimasta operaia. Ventiquattro ore dopo la scossa che ha sepolto i lavoratori, distrutto capannoni, viene da chiedersi perché fossero lì dentro a lavorare e non, come tante altre persone all’aperto, a preoccuparsi della loro pellaccia più che dei bilanci da fare, del premio produttivo da raggiungere, dello stipendio. Volontari in barba alle leggi della natura?

Manco per idea. In molte aziende, quelle piccole, da dieci, quindici dipendenti, le richieste le ha fatte il direttore generale, il padrone direttamente, il ragioniere dell’amministrazione. “Noi siamo qui”, ha detto il piccolo imprenditore di turno via telefono ai suoi dipendenti. Un “noi siamo qui” che in molti casi ha suonato come “meglio che rientriate, perché se non lavoriamo oggi è un problema mio, domani un problema vostro”. Lo raccontano al Fatto Quotidiano non una, ma diverse persone.

Tanti immigrati tunisini, ripresi anche in video. “Evitatemi di finire licenziato, proprio io che sono tornato a lavorare”, dice uno degli ospiti del campo allestito a Cavezzo. “Mi hanno costretto e sono rientrato”. Lo dice anche il marito di una donna che la mattina di lunedì 21 maggio è stata “gentilmente” invitata a rientrare. “E mia moglie è andata. Lavora in un’azienda del settore della meccanica da 20 anni. È tornata in ufficio. Si è salvata per miracolo, è stata l’ultima a uscire dalla porta d’emergenza. Il caso di mio zio – prosegue l’uomo – la dice ancor più lunga. Lo hanno chiamato i colleghi e spiegato che sul cancello della ditta c’era un cartello, che era meglio che passasse a leggerlo. Che cosa c’era scritto? Invito molto armonioso e gentile: c’è stato il terremoto, ma la vita continua. Chi vuole lavora, gli altri possono prendersi le ferie. Liberissimi di farlo”.

Ecco perché non c’era nessuno nelle case, ma c’erano molte persone a lavorare. Non è successo niente di diverso. Alla Haemotronic gli operai nella maggior parte dei casi sono assunti con contratto a tempo. In questo caso non c’è stata nessuna pressione per tornare, ma sotto le macerie sono morti i precari. L’azienda è un colosso della biomedica, i problemi non c’erano, ma avevano la certificazione per tornare al lavoro. Nessun rischio, nessun pericolo. Le pareti portanti hanno resistito, è il resto che è crollato.

D’altronde avere l’agibilità, anche in casi di massima emergenza, è un gioco da ragazzi . Basta un ingegnere pagato dall’azienda che dice se è possibile rientrare. “Non potevamo prevedere un’altra scossa, non era prevista, eravamo convinti di poter lavorare”, dice uno dei soci della Haemotronic tra le lacrime, Mattia Ravizza. E nessuno mette in dubbio la sua parola. C’era anche lui lì, dentro, ha rischiato come gli altri. E non è un eroe.

Ma quei lavoratori erano dove non dovevano essere. Lo ha detto il procuratore della Repubblica di Modena, Vito Zincani. E ha fatto capire dove andrà a parare la sua inchiesta. Strutture, progetti, direzione dei lavori. Ma soprattutto dovrà farsi spiegare perché a Medolla gli operai erano in fabbrica mentre il paese era quasi completamente evacuato. Chi ha dato l’agibilità, chi l’ha firmata? E perché tante di quelle carrozzerie che coprono così potenti motori del secondo comparto mondiale per la biomedica, dietro solo a Memphis per produzione, si sono sciolte come panetti di burro.

 

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