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Eternit: il capitalista assassino sapeva di uccidere gli operai

Il magnate svizzero dell’Eternit, Stephan Shmidheiny, conosceva molto bene e fin dagli anni ’70 il pericolo connesso all’esposizione dei ‘suoi’ operai all’amianto che lavoravano ma “accoglieva implicitamente, e predicava una teoria della doppia verità: riservava cioè solo agli scienziati e a una classe ristretta di privilegiati (in cui ovviamente rientravano gli imprenditori che, come lui, producevano manufatti di cemento-amianto) il peso e la responsabilità del costante aggiornamento e della conoscenza della verità in ordine agli “arcana naturae”; al volgo serbava, invece, delle credenze meno inquietanti, ma fallaci. 

Lo scrivono nero su bianco i giudici di appello nelle motivazioni della sentenza di condanna a 18 anni di carcere per disastro doloso negli stabilimenti Eternit italiani inflitti al magnate. 

L’imputato “presumeva quindi – si legge nelle motivazioni – che non tutte le verità scientifiche andassero proclamate ai più, perché erano suscettibili di intralciare la sfera della prassi e degli interessi delle imprese; che, perciò, convenisse tacerne il contenuto e le implicazioni, finché possibile ignorandole, oppure, quando veniva necessario, occorresse contrastarle con vigore, dal momento che temeva che causassero pregiudizio alla sfera dell’azione e degli affari”. Non solo omissione quindi, ma attiva disinformazione in nome del mantenimento del massimo livello del profitto a costo di sacrificare centinaia, migliaia di operai e loro parenti in decenni di lavorazione delle micidiali fibre.

La Corte d’Appello si dilunga molto sull’attività “di disinformazione” di cui Shmidheiny si fece consapevolmente promotore sui pericoli correlati all’esposizione dell’amianto. “Shmidheiny – si legge nelle circa 800 pagine delle motivazioni – aveva raggiunto una chiara coscienza che il dilemma per le imprese specializzate nel cemento-amianto si poneva tra il rassegnarsi al definitivo abbandono della lavorazione dell’asbesto (con la conseguente necessità di sostituire all’eternit dei prodotti alternativi) e la possibilità di trovare un modo economicamente non svantaggioso per rimanere sul mercato producendo gli stessi manufatti. Ma questo modo, secondo il punto di vista che ha mostrato di accogliere, doveva passare, per logica necessità di cui già allora l’imputato non poteva non rendersi conto, attraverso un’opera di disinformazione rivolta a influenzare l’opinione pubblica, adatta a sviluppare la fiducia che sarebbe stato sufficiente maneggiare il cemento-amianto in maniera corretta per riuscire a evitare ogni serio pericolo in danno dei soggetti che avevano motivo di temere di essere contaminati dalle polveri”. L’imputato – spiegano ancora i giudici – “aveva in animo di avallare un’interpretazione (…) volta a rafforzare nei cittadini comuni l’inclinazione a pensare che le notizie circolanti sul veloce aumento numerico delle patologie causate dall’amianto (…) fossero soprattutto il frutto di uno scaltro disegno allarmistico concepito da una concorrenza malevola”. 

 

Come accennavamo, sono servite ottocento pagine ai giudici della Corte d’Appello di Torino per spiegare le motivazioni che hanno portato alla condanna a 18 anni di reclusione – due in più rispetto alla sentenza di primo grado – del capitalista svizzero Stephan Schmidheiny, per decenni amministratore delegato della Eternit. Nei quattro stabilimenti italiani della multinazionale dell’amianto si stima siano morte migliaia di persone, ed altrettante si sono ammalate di forme molto gravi di tumore e infermità respiratorie. Casi riuniti nel maxi-processo conclusosi, almeno per quanto riguarda l’Appello, lo scorso 3 giugno con la sentenza dei giudici torinesi guidati da Alberto Oggè. I magistrati, scrivono, avrebbero condannato alla stessa pena anche l’altro imputato, il barone belga Louis de Cartier, morto pochi giorni prima della sentenza, basata sull’accusa di disastro ambientale doloso continuato, l’unica che ha retto fino al secondo grado. L’altra accusa, quella di “omissione dolosa di cautele antinfortunistiche nei confronti dei dipendenti”, é invece stata giudicata prescritta. Eppure, la condanna rispetto al primo grado é stata aumentata. A determinare la differenza sono i due stabilimenti di Napoli-Bagnoli e Rubiera (Reggio Emilia), per cui il disastro era stato valutato come prescritto dal giudice di primo grado. Secondo i magistrati della Corte d’Appello, invece, ”non si é ancora concluso”. Anzi, ”il particolare evento di disastro – scrivono – verificatosi anche in quei siti ha preso la forma di un fenomeno epidemico che, esattamente come in quelli di Casale Monferrato (Alessandra) e Cavagnolo (Torino), si é esteso lungo l’asse cronologico con durata pluridecennale”. Ecco quindi il conteggio che ha portato alla rideterminazione della pena: 12 anni per le vittime di Casale, dove aveva sede la fabbrica più importante e dove vi é stato il numero più consistente di morti e malati, e due anni ciascuno per quelle degli altri tre stabilimenti. Per ribaltare quella che è stata definita ”una sentenza storica” dal pm Raffaele Guariniello, che ha coordinato il pool che in questi anni ha sostenuto l’accusa nei confronti degli imprenditori e dei manager assassini, ora agli avvocati della difesa non resta che la strada della Cassazione, che tuttavia non potrà entrare nel merito dei fatti, limitandosi a questioni di forma e competenza territoriale. 

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