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La settimana nera della Polizia di Stato

L’effetto immediatamente visibile è il progressivo sgretolarsi di quella cortina di inviolabilità che circonda i crimini compiuti da elementi delle forze dell’ordine. Si sgretola sotto il peso della denuncia incessante, delle voci e delle parole di coloro che quel timore reverenziale nei confronti dei tutori dell’ordine non lo conoscono. 
Tutto è cominciato da quella torrida giornata di giugno, nei maestosi corridoi della Cassazione, IV sezione penale. In una camera di consiglio durata quattro ore, il giudice e i suoi consiglieri avevano la gravosa responsabilità di creare un precedente inedito; confermare una condanna che avrebbe fatto – almeno si spera – da apripista a esiti simili per processi altrettanto complessi, caratterizzati dagli stessi veleni del caso Aldrovandi, le stesse menzogne, lo stesso sistema di corruzione e autotutela oltranzista.
La Corte di Cassazione dubbi non ne ha avuti: sentenza confermata, e un messaggio chiaro a tutti coloro che a vario titolo dovranno fare i conti con gli altri casi: vittime e colpevoli, pubblici ministeri, avvocati, giornalisti e classe politica. L’aria è cambiata, poco importa se sull’onda di una sentenza blanda, poco più che simbolica.
C’era serenità nell’aria, e l’immagine che tutti avevano in mente era quella di una famiglia che ora poteva ritirarsi a vita privata, ad accarezzare in silenzio il ricordo di un figlio ucciso dallo stato. Ci ha pensato Paolo Forlani a rinfocolare le polemiche, con quelle parole infamanti diffuse su internet, e che hanno avuto l’unico risultato di svelare pubblicamente la propria vera natura. Che in fondo è la vera natura di ampie fasce delle forze dell’ordine di questo paese. Una cultura della violenza alimentata da retaggi fascisti, e da un abuso smodato dei poteri conferiti dalla divisa.
Di fronte a questo grossolano errore di comunicazione la reazione della Polizia di Stato semplicemente non c’è stata. Scomparso l’ufficio stampa, scomparsi gli spin doctor, non pervenuto Manganelli. Solo la Ministra Cancellieri, vagamente contrariata, ha agitato la bacchetta disciplinare, e minacciato non meglio precisati provvedimenti. Che attendiamo con fiducia, nella speranza che abbiano a che fare con un rapido e inderogabile licenziamento, per Forlani, e per gli altri tre complici.
La speranza accesa dall’esito del caso Aldrovandi deve portare tutti a tenere alta l’attenzione sugli altri processi ancora in corso. Presto toccherà alla giovane figlia di Michele Ferrulli, Domenica Ferrulli, entrare e uscire dalle aule giudiziarie, dove si spaccherà il capello in quattro sulla morte di suo padre. Dove ancora una volta l’omicidio preterintenzionale declina in omicidio colposo, come se un pestaggio violento e gratuito potesse essere assimilato a un incidente stradale non voluto. Come se si affermasse che quattro agenti immortalati in un video durante un vigoroso “massaggio cardiaco” a base di manganelli – così hanno provato a spacciarlo – non avevano intenzione di offendere fisicamente, ma di difendere, proteggere, curare. Ieri era il giorno della fiaccolata in memoria di questo uomo di cinquant’anni che ha trovato la morte per uno stereo ad alto volume e una birra di troppo. 
La settimana prosegue con un’altra notizia di sangue. Due poliziotti di 24 anni, Federico Spallino e Davide Sanseri, vengono arrestati per aver massacrato un uomo di 64 anni. Ancora una volta un video li inchioda e li denota per ciò che probabilmente sono: due giovani agenti di polizia che indossano la divisa per puro caso, per alternativa a un presente senza prospettive, non per passione né per vocazione. Quella divisa che ben sapevano di poter sfruttare mentre tentavano di uccidere il malcapitato sessantaquattrenne, al riparo da occhi indiscreti, in modo premeditato e animalesco. Due ragazzini, passati per le maglie larghe delle selezioni pubbliche, e che non fatichiamo a immaginare con trascorsi di bulletti da scuola, o come picchiatori da strada, già da molto prima di indossare la divisa. Anche in questo caso sindacati, ufficio stampa e ufficio pubbliche relazioni tacciono. Tacciono di fronte a domande che resteranno inevase ancora per molto: quali sono i criteri di selezione della Polizia di Stato? Chi si occupa della formazione? Esiste un sostegno psicologico? Esiste un sistema che individui e colga in tempo segnali di instabilità mentale, stress psicofisico, inclinazione alla violenza? Esiste un adeguato quadro disciplinare che funzioni da forte deterrente per chiunque pensi di abusare della propria divisa? Il sistema delle forze dell’ordine italiane va rivisto, ricalibrato, ripensato in senso democratico? Non è forse il momento per ricomporre i vertici e la dirigenza? Si attendono risposte.
La settimana nera della polizia italiana si conclude con le parole contenute nella sentenza del processo Uva, occasione per fare nuovamente una breve riflessione sui rapporti inquinati tra procure e forze dell’ordine.
Il giudice Muscato offre infiniti spunti critici e analitici sull’operato della pubblica accusa, e su come una simile condotta abbia irreparabilmente alterato un processo già di per sé delicatissimo. Spostare l’attenzione processuale sui medici e non su coloro che hanno arrestato e trattenuto in caserma Giuseppe Uva resta una mossa ancora tutta da spiegare, e che ha portato a risultati praticamente nulli. 
Resta da chiarire chi porterà avanti il nuovo processo auspicato dal giudice Muscato, a carico – eventualmente – di otto tra poliziotti e carabinieri. Chi e come dovrà ricostruire quelle tre ore che hanno precededuto la morte di Giuseppe Uva? Chi copre i veri responsabili, quali che siano? E perché?
La certezza acquisita in questa settimana tremenda per la forza pubblica, è che il teorema delle mele marce ormai appartiene alla preistoria, non regge. La frequenza di episodi violenti aumenta esponenzialmente di settimana in settimana, e l’unica risposta è il mutismo istituzionale.

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