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“Sono stremata, ma non mi fermerò”. Intervista a Lucia Uva

Nel processo sulla morte di Giuseppe Uva il fattore “tempo” ha da sempre giocato un ruolo fondamentale. Il tempo – 6 anni – che ci è voluto per arrivare alla clamorosa imputazione coatta per omicidio preterintenzionale (e altri reati), decisa dal Gip Giuseppe Battarino nei confronti dei due carabinieri e sei poliziotti che trattennero Giuseppe nella caserma di Via Saffi; il tempo trascorso da Giuseppe in caserma, che il pm Agostino Abate – fiero promotore di un processo per malasanità invece che di malapolizia – voleva ridurre a pochi minuti, ma che altre ricostruzioni sia difensive che di osservatori indipendenti riportano ad almeno un’ora; e ora la corsa contro il tempo per evitare la prescrizione per i reati minori di cui sono accusati gli 8 pubblici ufficiali: abbandono di incapace, arresto illegale, abuso di autorità.

E il tempo entra ancora in gioco in questa ultima delicata fase del processo: l’udienza preliminare presieduta dal GUP Sala, rinviata ancora una volta al 14 luglio. Sarà la terza udienza, e si ascolterà ancora una volta Alberto Biggiogero, amico di Giuseppe Uva e unico testimone oculare di quella tragica notte varesina. È stata messa agli atti l’audioregistrazione della nuova testimone, che parlava di un pestaggio avvenuto anche in ospedale. La registrazione sarà sottoposta al vaglio di un perito.

Il processo Uva è diventato negli anni il paradigma di come la pubblica accusa non dovrebbe gestire un processo di malapolizia. Non siamo noi a dirlo ma le numerose sentenze che nel tempo, appunto, hanno sconfessato atto dopo atto le tesi accusatorie del pubblico ministero Agostino Abate, a partire dall’assoluzione dei medici che ricoverarono Giuseppe Uva, finendo a marzo con la rimozione del pm dal processo. Non sappiamo come si concluderà l’udienza preliminare, ma il tempo sta per scadere e nel nostro dialogo con Lucia Uva, cogliamo rabbia, amarezza ma ancora un’incrollabile speranza.

Ne parliamo con Lucia Uva. 

Lucia: ancora rinvii, ancora attese, ancora indecisioni, zone d’ombra. Ora il tribunale ha deciso di risentire il testimone Alberto Biggiogero. Come vivi queste lunghe attese?

Penso sia una telenovela senza fine. Se ci troviamo in una situazione del genere è perché negli anni dalla procura di Milano ci hanno negato tutte le avocazioni. Se questo ennesimo rinvio serve per le indagini e per la verità accetto tutto. Per il 14 attendo con ansia la decisione del giudice, anche se ormai l’esperienza ci insegna che può accadere tutto e il contrario di tutto. Intanto il rischio prescrizione corre veloce: manca un anno circa. 

Cosa pensi del fatto che ci siano voluti sei anni per ottenere un’imputazione coatta? Per ottenere cioè ciò che gli otto agenti venissero accusati di ciò che da anni si denuncia?

Penso che siamo in Italia e che sia una vergogna quello che è successo. Permettere a un pubblico ministero che chiaramente non aveva alcuna intenzione di indagare sulla morte di mio fratello, di avere quel processo in mano per 6 anni è stato scandaloso. Spero che da oggi le cose cambino.

Quali sono stati secondo te i passaggi processuali più importanti?

Non ce ne sono stati. Anche se, devo ammettere, l’assoluzione del medico imputato all’inizio per avere somministrato dei farmaci mi ha reso felice. Quando i giudici lo hanno assolto, dicendo allo stesso tempo che Giuseppe non era morto per i farmaci, ho sperato che forse, prima o poi, avrei avuto giustizia. 

I più dolorosi?

Durante il processo hanno provato a calpestare la sua dignità in tutti i modi. Umiliando lui, me, tutta la mia famiglia. Quelle parole contro di lui pronunciate dentro un’aula di tribunale, da chi neanche lo conosceva, mi hanno fatto più male di tutto.

I più esaltanti?

Quando finalmente, dopo 6 anni di lotte e richieste, hanno tolto il fascicolo dalle mani di quel magistrato.

Dove hai trovato la forza che ti ha spinto in questi anni di lotta per la verità sulla morte di tuo fratello?

L’amore che avevo e ho per mio fratello. È stato quel sentimento a permettermi di andare avanti. 

Quanto ti è costato moralmente, fisicamente, economicamente tutto ciò?

Economicamente ne esco distrutta, moralmente uccisa e fisicamente stremata. Ma di energie ne ho ancora e non mi fermerò fino a quando non saprò la verità.

Come e quanto ti hanno trasformato questi anni di “passione”? Chi era la Lucia di qualche anno fa e la Lucia di oggi?

La Lucia di qualche anno fa era una donna in carriera, andavo spesso all’estero per lavoro, avevo una ditta che ho chiuso e di certo mai avrei pensato di trovarmi in una situazione del genere. Chi è la Lucia di adesso? Vado a fare la badante, le pulizia in casa degli altri e la colf, curo i cani e faccio qualunque cosa mi capiti per sbarcare il lunario. Di sicuro mai avrei pensato, anche solo 7 anni fa, di ritrovarmi in una situazione del genere. 

A chi devi questo importante traguardo (l’imputazione coatta), e perché?

Ai miei avvocati Fabio Anselmo, Fabio Ambrosetti e Alessandra Pisa, che in questi anni mi sono sempre stati vicini. Poi, alla vicinanza delle mie compagne di sventura e le famiglie delle vittime dello Stato. 

Credi che da quando si parla pubblicamente di questi episodi, da quando ci sono i riflettori puntati, qualcosa sia cambiato?

No, quello che è successo a Giuseppe continua a succedere tutti i giorni. Forse se ne parla di più oggi e la gente ha più coraggio di denunciare, ma tante sono ancora le cose da fare prima di poter dire che questo è un problema risolto. 

In quasi tutti i casi di malapolizia spunta la parola “autolesionismo”. Quante volte hai sentito questa parola: “autolesionismo”…

In tutti i casi che sto seguendo, Aldrovandi, Ferrulli, Gugliotta, Budroni, Magherini, Scaroni, Diaz, Cucchi, mio fratello. Sono talmente tanti che è impossibile ricordarli tutti, ma sempre la scusa che viene detta per giustificare una morte o un pestaggio è la stessa: si faceva male da solo. Ed è praticamente impossibile dimostrare il contrario. 

Secondo te a cosa sono dovuti tutti questi episodi?

Come ha detto uno dei giudici della sentenza Aldrovandi, che riferendosi ai quattro poliziotti responsabili della morte di Federico li ha chiamati “schegge impazzite”. Ecco, io la penso così.

Nella tua idea di equità sociale, che ruolo dovrebbero ricoprire le forze dell’ordine?

Dovrebbero garantire i cittadini e tutelare la loro incolumità. E se qualcuno dei loro colleghi sbaglia, dovrebbero essere i primi a parlare. 

Cosa può è deve fare la politica? Cosa possono e devono fare le istituzioni?

In questi lunghi anni, ho avuto modo di incontrare molti politici e anche degli esponenti del governo. A tutti loro ho sempre chiesto di lavorare per rendere le istituzioni meno opache e più trasparenti. Non è possibile che nel nostro paese ci siano ancora resistenze all’introduzione, per esempio, del reato di tortura e del codice identificativo sulle divise nelle manifestazioni di piazza. Basterebbero pochi segnali, ma sembra che nessuno voglia dare nemmeno questi. 

Vuoi spendere un pensiero per il Pm Agostino Abate o per uno degli otto pubblici ufficiali?

Spero che con il caso Uva il pubblico ministero Abate si sia messo una mano sulla coscienza e che se mai gli dovesse capitare un altro caso del genere, faccia le indagini e non nasconda la verità. 

Cosa vedi per il tuo futuro quando tutto ciò sarà finito?

Appena finisce il processo farò i bagagli e me ne andrò dall’Italia, sono troppo delusa da tutto quello che ho dovuto vedere e subire in questi anni.

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