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“All’alt ci si ferma”. Ferguson a Napoli

Una sola notazione. Il Rione Traiano non è esattamente il quartiere Parioli a Roma. Molti legittimamente si chiedono: dov’è quella gente quando a uccidere è la camorra? Dipende. Molti sono conniventi, molti sono omertosi, la maggior parte ha PAURA. Siamo a Napoli, non a Cortina e il Rione Traiano è un ghetto che fa impallidire Scampia. Quando il popolo del Rione Traiano afferma che lo stato è assente, lo è davvero, perché è stato sostituito dalla camorra, sia socialmente che economicamente. Il senso di abbandono è totale, la penetrazione della mentalità delinquenziale è ormai completata per generazioni. Lo “Stato” sopperisce alla propria assenza con surrogati di presenza: carabinieri e poliziotti spesso allo sbaraglio, impreparati, di primo pelo, in assetto da guerra. Non esistono scuole, spazi verdi, luoghi di ritrovo che non siano bische, sale giochi, piazze di spaccio o negozi abusivi. Non esistono alternative, non c’è legge perché il senso di legalità è stato spazzato via da secoli di ghettizzazione. 
Quale legge poi? Quali regole? Di quale stato degno di essere chiamato tale?
Quei napoletani, i napoletani dei ghetti, sono vittime? Devono essere in grado di trasformarsi in artefici del proprio destino? Può essere vero tutto e il contrario di tutto. 
Ricordate il mito della caverna di Platone? Uomini rinchiusi da sempre in una caverna dove si proiettavano ombre a lume di candela: ebbene, quegli uomini erano convinti che il mondo fosse quella caverna, e che gli esseri umani fossero quelle ombre. Il Rione Traiano, Scampia, Forcella, La Sanità, i Quartieri, sono tutte caverne di Platone. Se hai visto solo miseria, degrado, squallore e delinquenza vivrai credendo che quello è il tuo mondo, e sarà la strada a educarti, non la famiglia. E lo sbirro è nemico, perché lo sbirro considera te un nemico. E’ una guerra. A chi afferma che il Rione Traiano non è accostabile alla questione razziale in stile Ferguson o Los Angeles del 1991, dico che si sbaglia. A chi di fronte alle gravi fratture di classe e di razza che vanno creandosi preferisce volgere lo sguardo altrove, dico di avere il coraggio di guardare e di capire a fondo quali disastrosi risultati la nostra società abbia prodotto, a suon di “se l’è cercata, Cucchi era un tossico, che ci faceva Aldrovandi in giro alle 2 di notte, immigrati di merda tubercolotici”. Stiamo creando le nostre favelas, e anche noi avremo le nostre centinaia di Ferguson sparse per l’Italia, i nostri Rodney King. Anzi, tutto ciò è realtà. E non serve essere neri o nordafricani. Basta essere napoletani di certi quartieri, romani di borgata, milanesi di periferia. Luoghi dove l’idea di coesione sociale è vagamente differente dall’aperitivo in centro.
Le “nostre” forze dell’ordine si stanno attrezzando di conseguenza, a mano armata, non certo “con i fiori in mano”, come recita l’ultimo agghiacciante comunicato dell’Arma dei Carabinieri sul caso Bifolco.
La deriva è iniziata da un pezzo e sta diventando inarrestabile. 
Pensiamoci bene prima di affermare con disinvoltura “all’alt ci si ferma, non si gira in tre su un motorino”. Riflettiamo a fondo su chi era Davide, e sulle colpe collettive che si riversano sui singoli e sulle classi di reietti che noi stiamo rendendo tali, sull’onda di razzismo e pregiudizi. Riflettiamo su quel proiettile sparato da un carabiniere senza cervello, senza esperienza, che non avrebbe mai dovuto correre con un’arma in mano e che ora va blaterando di colpi accidentali. Con l’aggravante che tutti gli credano a occhi chiusi.
Il significato è tutto in quel proiettile. Un significato che va oltre le responsabilità dei singoli. Quel proiettile era pronto a essere sparato, perché il Rione Traiano era un teatro di guerra, Davide Bifolco un nemico da abbattere, il carabiniere un nemico dal quale fuggire. Detto ciò, mettiamoci qualche slogan “non si può e non si deve morire così” oppure “perché non accada mai più”. Slogan idioti, buoni per i cortei colorati. Di malapolizia si muore, accadrà ancora e sarà sempre peggio.

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