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La verità su Stefano Cucchi, vittima di un processo culturale

Nulla ormai ci sorprende e anche la sentenza della Corte d’Appello di Roma sulla morte di Stefano Cucchi arriva a dar ragione di questo.
Stefano non è stato ucciso da nessuno e il suo viso e il suo corpo inciso e tumefatto, come testimoniano le innumerevoli immagine che anche in questi giorni abbiamo la possibilità di vedere in rete, sono evidentemente da attribuire a strani processi fisiologici che anche la scienza medica più evoluta non saprebbe spiegare.

Già la sentenza di primo grado aveva attribuito la morte di Stefano Cucchi non a pestaggi, ma esclusivamente alla malnutrizione e alla trascuratezza e sciatteria dei medici. Ecco perché i giudici di allora decisero che gli unici colpevoli fossero i medici e mandarono assolti gli agenti penitenziari. La sentenza d’appello ora assolve tutti.
E’ evidente, come sia noi che altri abbiamo già avuto modo di sottolineare, che stia avvenendo qualcosa in questo Paese che si ascrive a un nuovo corso dettato dall’attuale Esecutivo. Ad avvalorarlo sono anche gli operai e gli studenti picchiati nelle piazze, la repressione feroce contro attivisti politici e sociali, il soffocamento con ogni mezzo delle lotte e dei conflitti, la cancellazione di ogni responsabilità delle istituzioni pubbliche e delle forze di polizia sulla morte di un detenuto.
Non crediamo di commettere forzature inquadrando tutto in un unico disegno.
Ma il “progetto” non si esaurisce solo in questo. Come ogni progetto che si rispetti ha bisogno di essere realizzato in ogni suo aspetto, curandone anche i particolari, di essere raffinato e completo.
Ed è così che, dopo le dichiarazioni di Alfano che ha negato di aver dato ordini in questo senso e le sue scuse ai poliziotti che hanno manganellato gli operai di Terni, associate a quelle rivolte agli operai stessi, in un raro virtuosismo politico, il giorno dopo i fatti di Piazza Indipendenza e pochi giorni prima della sentenza sulla morte di Stefano, va in onda in prima serata su Rai3, la rete che più di ogni altra è diretta e controllata dal PD, la retorica più reazionaria, razzista e fascistoide con il film, di Stefano Sollima, ACAB – All Cops Are Bastards, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Bonini. La trama del film è nota e la sua morale evidente: l’Italia è ormai un luogo invaso da zingari ed extracomunitari che minacciano le nostre donne e che occupano le nostre case, dal teppismo da stadio che impedisce alle “normali famiglie” di andare a vedere lo spettacolo calcistico, da estremisti di destra e di sinistra che minano la tranquillità quotidiana, la convivenza civile, la democrazia. Le forze dell’ordine alcune rare volte, forse, commetteranno pure degli eccessi e qualche “mela marcia”, come dappertutto, ci sarà pure, ma cosa pretendiamo da chi ogni giorno è in prima fila per garantire la nostra sicurezza? Oltretutto con pochi mezzi, malpagati, ognuno con i suoi problemi quotidiani come tutti noi? Come disse Jack Nicholson nella parte del Colonnello Nathan Jessep, nel filmCodice d’onore, rivolgendosi al Tenente Daniel Kaffee interpretato da Tom Cruise: “Figliolo, viviamo in un mondo pieno di muri e quei muri devono essere sorvegliati da uomini col fucile… chi lo fa questo lavoro? Tu? Io ho responsabilità più grandi di quello che voi possiate mai intuire. […] Voi non volete la verità perché nei vostri desideri più profondi, che in verità non si nominano, voi mi volete su quel muro! Io vi servo in cima a quel muro! […] Io non ho né il tempo né la voglia di venire qui a spiegare me stesso a un uomo che passa la sua vita a dormire sotto la coperta di quella libertà che io gli fornisco. E poi contesta il modo in cui gliela fornisco! Preferirei che mi dicesse: la ringrazio… e se ne andasse per la sua strada.”
La necessità di autoassolversi e quella di determinare nuove condizioni politiche, economiche e dei rapporti sociali, al servizio della lotta di classe dall’alto (quella dei padroni verso i lavoratori) e delle necessità della competizione globale del Capitale, deve essere accompagnata da quella di rendere tutto, ancor prima che necessario, inquadrabile nella norma.
E allora si deve andare di concerto, gli aspetti politici, economici, sociali non possono non essere accompagnati da quelli culturali. Così come deve diventare culturalmente accettabile la precarietà della vita e del lavoro, il lavorare senza diritti, l’individualismo, l’assenza di rappresentanza sindacale dei lavoratori, così anche gli abusi in divisa e la repressione devono essere ascrivibili ad una necessità sociale che si trasforma culturalmente in normalità.
E allora ecco che la verità sulla morte di Stefano Cucchi è una delle vittime sacrificali sull’altare del processo culturale normalizzatore, del quale fa parte, accompagnato, oltretutto, dall’uso di locuzioni accattivanti e mistificatorie, l’accettazione culturale del job act, del contatto a tempo indeterminato a tutele progressive, del pareggio di bilancio, del limite allo sviluppo dell’art 18 dello Statuto dei Lavoratori e il suo necessario superamento, il Decreto Sblocca Italia.
Il conto che stiamo ancora pagando dei disastri che la cosiddetta “sinistra radicale” ha prodotto in questi ultimi venti anni, la difficoltà della sinistra rivoluzionaria e dei comunisti di ricomporre la classe, quella nel riuscire a dargli una rappresentanza politica, a costruire un nuovo blocco storico, l’incapacità nel connettere i conflitti e dargli una prospettiva sul piano politico generale, tutto questo non ci aiuta. Sappia però Renzi che la metafora dello smartphone e del gettone non ci incanta, e alla “creatività” renziana sappiamo opporre, magari meno elegantemente, metafore altrettanto efficaci, anche utilizzando, all’occorrenza, l’immagine figurativa del manganello non propriamente nell’uso per cui è stato concepito… metaforicamente parlando, si intende.

* Rete dei Comunisti

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