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Le urla di Giuseppe Uva

Si è svolta ieri presso il Tribunale di Varese una nuova udienza del processo sulla morte di Giuseppe Uva, che vede imputati sei poliziotti e due carabinieri con accuse che vanno dall’omicidio preterintenzionale all’arresto illegale, fino all’abbandono di incapace e abuso di metodi di contenimento. Otto membri delle forze dell’ordine che la sera del 14 giugno 2008 arrestarono il 42enne varesino e dei quali non è chiara – dopo sei anni e mezzo di inutili processi – né la posizione né la condotta, né l’eventuale responsabilità nella morte seguita a poche ore dall’arresto.
Sul banco dei testimoni, dopo le picaresche udienze nelle quali aveva deposto il testimone chiave Alberto Biggiogero, oggi sono stati ascoltati il medico Alberto Obert e alcuni pubblici ufficiali in servizio quella sera, tra i quali il piantone. Entrambi sembrano concordare su un aspetto: le urla. Giuseppe Uva urlava, e le urla che provenivano dall’interno della caserma si sentivano fino al gabbiotto del piantone.
E lo stesso dottor Andrea Obert, racconta Fabio Ambrosetti, il legale della famiglia Uva, ha dichiarato in aula che al momento dell’intervento presso la caserma aveva trovato di fronte a se un uomo non certo tranquillo o pacificato, ma estremamente agitato. “Danza coreica” l’ha definito, il dottor Obert, quello stato di agitazione e tremore. Una “danza” dovuta a chissà cosa. Chissà cosa urlava Giuseppe Uva quella sera. Nessuno sembra in grado di dire con certezza se fossero insulti, richieste di aiuto, urla di dolore. Non è dato saperlo, perché le versioni cambiano in base alle testimonianze da troppo tempo, da anni ormai.
Passate testimonianze riferivano che Giuseppe Uva era arrivato in ospedale tranquillo e sulle proprie gambe. Una dottoressa di turno riferì invece, durante uno dei processi gestiti dal pm Abate, di aver sentito Uva dichiarare di essere stato picchiato. Un’altra testimone raccontò pochi mesi fa di aver visto dei poliziotti portare Giuseppe in uno stanzino dell’ospedale Circolo di Varese e di averlo visto uscire con una tumefazione. I verbali degli agenti intervenuti, carte scolpite nel granito, descrivono invece la classica situazione di autolesionismo, con il fermato che dava letteralmente di matto sbattendo volontariamente la testa e altre parti del corpo contro mobili e pareti.
La cortina fumogena di contraddizioni, versioni differenti e contrastanti, di testimonianze che affermano tutto e il contrario di tutto sembrava doversi diradare col nuovo e definitivo processo. Speranza vana. Il procedimento si fa complesso e va ora incontro a un’accelerazione importante: è infatti prevista una fitta calendarizzazione, con un’udienza fissata ogni venerdì. Fino alla fine, in una corsa contro la prescrizione, alla ricerca di una verità che si allontana sempre di più.

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