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Fiat, fuga in corso

  Andava a cento all’ora

 

Sergio Marchionne è su di giri, come il suo motore americano tirato al massimo. Acceleratore a tavoletta, il manager italo-elvetico-canadese sta risalendo la Chrysler e punta a raggiungere entro l’anno quota 51%. Ieri ha toccato la soglia del 46% ed è stata festa grande. Un passo importante, ha detto, per unificare Fiat e Chrysler e farne un gigante globale. Un passo importante, aggiungiamo noi, nella fuga da Torino e dall’Italia. Che il cuore resti qui da noi fa ridere, le cose che contano in queste operazioni sono il cervello, la ricerca, gli investimenti, la sede del comando. Dire che si lascia il cuore a Torino serve per salvare la faccia degli eredi degli Agnelli, la famiglia che dall’Italia e da Torino ha avuto tutto in 110 anni di vita. E la faccia degli amministratori locali, sempre pronti ai salamelecchi a Marchionne. Se il manager può permettersi di spernacchiare le timide proposte di mediazione del suo compagno di scopone Chiamparino, John Elkann deve conservare le buone maniere. E per dirla tutta, anche il cuore è uno zingaro e va, come cantava Nada.
L’andamento della Fiat in Italia è inversamente proporzionale a quello a stelle e strisce della Chrysler. Non che qui Marchionne non faccia utili, li fa e come, parte se li intasca e parte li distribuisce al parco buoi. Ma le automobili non le vende, in Italia e in Europa, perché gli investimenti in ricerca, nuovi modelli, lavoro sono dislocati tutti negli Usa dove di conseguenza le vendite vanno bene. Ci vuole una bella faccia tosta a dire che la colpa è della Fiom che non accetta la cancellazione del diritto di sciopero e di malattia e delle libertà sindacali per le organizzazioni non prone. Se non fai automobili da vendere è ovvio che non ne venderai, con o senza diritto di sciopero. Il fatto è che Marchionne pretende che le auto si costruiscano in tutti i suoi stabilimenti alle stesse condizioni, sottoponendo gli operai agli stessi ricatti. Pensa che se e quando si deciderà a tirare fuori nuovi modelli per l’Europa potrà scegliere dove realizzarli, a Torino o a Melfi, a Kragujevac o a Thychy, in Messico o in Turchia. Il cervello sarà però sempre segli Usa, lasciamo stare il cuore. Cosa sarà l’Italia per la Fiat? Solo una delle tante fabbriche cacciavite. Al governo non glie ne frega niente, il Pd ha altro per la testa, il probabile nuovo sindaco di Torino Piero Fassino sembra un disco incantato: se fossi un operaio della Bertone voterei per Fassino al comune e per Marchionne in fabbrica.
C’è chi dice che lo spin-off – la separazione in due della Fiat – potrebbe servire a reperire i soldi sul mercato da restituire al governo Obama. Come? Vendendo dei pezzi, magari la Fiat Industrial. C’è anche chi pensa che la decisione di non mettere la Ferrari nella cassaforte di Fiat Industrial sia coerente a questa intenzione. Marchionne smentisce, naturalmente. Del resto smentisce continuamente anche se stesso: sul costo del lavoro nella costruzione di automobili, sul presunto assenteismo degli operai di Pomigliano, sull’intenzione di far assorbire la Fiat dalla Chrysler.
L’ultimo ricatto in realtà è un imbroglio: se la Fiom non rinuncia a far valere i suoi diritti davanti al giudice abbandonerò l’Italia. Lo vogliamo capire o no che lo sta già facendo, a prescindere dalla Fiom?
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Francesco Paternò
 
Marchionne siede al volante di Chrysler
 

La Fiat prende il volante della Chrysler, salendo al 46% con un’operazione da formalizzare entro giugno. Il restante 5%, che porterà il gruppo italiano a essere il terzo proprietario in 13 anni del marchio di Auburn Hills dopo Daimler e il fondo Cerberus, sarà fatto entro l’anno, appena il gruppo produrrà negli Stati Uniti un modello virtuoso in grado di percorrere almeno 40 miglia per gallone di benzina.
«L’integrazione operativa è molto più importante dell’integrazione legale», ha detto l’amministratore delegato Sergio Marchionne rispondendo così alla Cgil di Susanna Camusso e alla Fiom, che hanno confermato il loro giudizio: la Fiat va in America, nel silenzio del governo. Marchionne si prende la Chrysler praticamente a costo zero, avendo usufruito dei prestiti dell’amministrazione Obama e del governo canadese pari a 7,4 miliardi di dollari, che dovrebbe riuscire a ripagare entro l’anno e così far tornare l’icona di Auburn Hills in borsa.
Il prezzo complessivo per l’esercizio della call option di quest’ultimo 16% sarà di 1,26 miliardi di dollari. La scaletta di Marchionne prevede la richiesta di un nuovo rifinanziamento per Chrysler e una stretta con il Dipartimento per l’energia dell’Amministrazione Obama per ottenere altri 3,5 miliardi di dollari, per sviluppare motorizzazioni a basso impatto ambientale. La richiesta (di 3 miliardi) era stata fatta subito dopo l’arrivo in Chrysler nel 2009, ma è rimasta nel cassetto perché l’azienda doveva uscire prima dalla bancarotta pilotata. Marchionne spera di sbloccarla entro giugno al più tardi e di ottenere almeno altro mezzo milione di dollari. Dovrebbe riuscirci, perché ha le carte sempre più in regola nei confronti dell’impegno preso con la Casa Bianca, mentre la General Motors ha rinunciato alla sua analoga richiesta (ferma anch’essa dal 2009), decidendo che farà da sola e lasciando dunque più soldi nelle casse del Dipartimento dell’Energia. Il vento, almeno al di là dell’oceano, tira dalla parte del manager italiano: Obama è tornato in campagna elettorale, il salvataggio di Detroit con soldi pubblici sta funzionando, una Chrysler rinata grazie all’accordo con il manager italiano potrebbe aggiungere voti in una corsa elettorale destinata a essere in salita.
Nel primo trimestre, il gruppo Chrysler è cresciuto del 23% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, con il marchio Jeep (il vero gioiello globale di Auburn Hills) salito da solo a +34%. Le tensioni sui mercati restano forti – il prezzo della benzina negli Stati Uniti vede il massimo storico dei 5 dollari al gallone a causa dell’instabilità politica di Mediterraneo e Medioriente, mentre l’emergenza giapponese sta rallentando la produzione mondiale per l’assenza di pezzi di ricambio non più prodotti – ma sono tensioni lontane rispetto alla crisi di vendite che invece continua ad attanagliare il gruppo Fiat in Italia e in Europa. Marchionne fa l’americano perché lì stanno i soldi e qui i guai. Rinviando produzione e lancio di molti prodotti al 2012, l’ad ha risparmiato sugli investimenti da giocarsi sul tavolo della Chrysler. L’ampio ricorso alla cassa integrazione negli stabilimenti italiani ancora nel 2011 ha fatto il resto: niente macchine, niente lavoro e dito puntato contro chi non accetta le nuove condizioni di vita in fabbrica. La Fiom ha portato in tribunale le nuove società create ad hoc dalla Fiat a Pomigliano e a Mirafiori, un atto politico e formale che Marchionne impugna ogni giorno per minacciare il piano B. Cioè lasciare l’Italia, per atterrare più leggero negli Usa. Con la Bertone già sull’orlo dell’abbandono.
Nel giorno della presa di possesso della Chrysler, Marchionne ha fatto i conti con la borsa (a Milano, ancora) per la prima trimestrale di Fiat Industrial, la società che incorpora le attività non automobilistiche del gruppo dopo la scissione. Fiat Industrial ha chiuso il primo trimestre con ricavi pari a 5,3 miliardi di euro, in crescita del 19,3% rispetto allo stesso periodo del 2010, con un utile della gestione ordinaria più che raddoppiato, 277 milioni di euro (contro 122) e un margine sui ricavi del 5,2% (era il 2,7%). Hanno contribuito i maggiori volumi di tutti i settori e «la performance particolarmente forte» di Cnh. Cioè ancora gli americani. La borsa è però rimasta delusa, avrebbe voluto nuovi più ambiziosi obiettivi e alla fine ha penalizzato il titolo, in discesa del 3,4%. Quello Fiat Spa, condito dalle notizie Chrysler, è invece volato a +4,5%.

da “il manifesto” del 22 aprile 2011

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