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Altro che Bin Laden, ora Obama pensa al debito

 Nella notte tra domenica e lunedì, non appena si è diffusa la notizia dell’uccisione di Osama bin Laden, i prezzi dei titoli di Stato Usa a 10 anni sono crollati, spingendo molto in alto i rendimenti (cioè gli interessi che il governo degli Stati Uniti paga a chi compra i suoi titoli di Stato). Un motivo consiste certamente nel fatto che, venuta meno la minaccia terroristica (ma sarà vero?), anche la domanda di prodotti finanziari “sicuri” diminuisce. Ma quello che è avvenuto è in realtà la spia di problemi strutturali.

Il recente giudizio negativo emesso da Standard & Poor’s sulle prospettive del debito Usa ha reso evidente l’insostenibilità delle politiche di bilancio statunitensi. Con un deficit al 10% del prodotto interno lordo non si va da nessuna parte. Soprattutto in presenza di un debito pubblico che è molto superiore al 62% della cifra ufficiale del debito federale. In quella cifra, infatti, non si tiene conto né delle potenziali perdite sulle società immobiliari garantite dallo Stato, Fannie Mae e Freddie Mac (che secondo la Casa Bianca saranno pari a 160 miliardi di dollari, ma nelle ipotesi più pessimistiche potrebbero superare i 600 miliardi), né dei diritti acquisiti su prestazioni sociali future: se nel conto si mettessero questi fattori il debito già oggi sarebbe al 94% del pil. Se poi si aggiungesse il debito dei governi locali (come si fa in Europa), la percentuale aumenterebbe di un altro 21%. In termini percentuali siamo poco al di sotto del debito italiano (120%), e in cifre assolute ovviamente molto al di sopra.

Ma quali sono i principali capitoli di spesa del bilancio Usa? Nell’anno fiscale 2010, dei 3.500 miliardi di dollari di uscite, il 20% è andato alle spese militari, per un totale di 694 miliardi di dollari: un record mondiale. In termini assoluti si tratta della spesa più elevata dalla fine della seconda guerra mondiale: superiore anche ai tempi delle guerre di Corea e del Vietnam. In termini percentuali, si attesta al 5% del pil, in crescita anche rispetto alla presidenza Bush.

L’altra voce di spesa di maggior rilievo riguarda il welfare. Si tratta di quelli che negli Usa sono definiti entitlement programs, ossia programmi legati a diritti acquisiti: le spese per l’assistenza medica (22% del budget), per la sicurezza sociale (20%) e le indennità di disoccupazione (16%). Le voci di spesa più controverse sono quelle per l’assistenza sanitaria, estremamente elevate (8.000 dollari per abitante, il triplo della media Ocse) a fronte di risultati decisamente deludenti: durata media della vita e quasi tutti gli indicatori di salute al di sotto della media dei paesi Ocse. Il motivo è abbastanza ovvio, e consiste nel fatto che la sanità negli Usa è privata, anche se per pagare le prestazioni interviene (in parte) lo Stato. Meno grave, la situazione della sicurezza sociale (pensioni e assistenza sociale), che però dal 2015 sarà in passivo; mentre è già molto cresciuto il volume delle indennità di disoccupazione.

È difficile capire come queste spese possano essere compresse, soprattutto in presenza di un calo dei redditi medi e di una disoccupazione intorno al 10% come l’attuale. Ma un fronte d’attacco è già chiaro: i dipendenti pubblici, il 70% dei quali gode di piani pensione a prestazione definita (mentre i dipendenti privati che tuttora ne beneficiano sono appena il 32%). In ogni caso, è evidente che nei prossimi anni sarà esercitata una fortissima pressione sulle spese per il welfare: è il concetto stesso di “diritti acquisiti”, qui come in Europa, che ormai è messo apertamente in discussione. Al contrario, anche a giudicare dalla composizione dei tagli alle spese proposti da Obama, le spese militari non sono destinate a ridursi.

Negli Stati Uniti la battaglia contro il welfare è portata avanti dalla destra repubblicana, camuffata da lotta contro l’invadenza dello Stato. Si tratta di un concetto piuttosto curioso in un Paese in cui lo Stato negli ultimi anni è intervenuto nell’economia quasi soltanto come donatore di sangue nei confronti di imprese private in difficoltà. Si pensi ai 464 miliardi di dollari per il solo programma TARP (lanciato dopo il fallimento di Lehman Brothers), 214 dei quali devono ancora rientrare (le banche in genere hanno restituito i soldi ricevuti, non così la compagnia assicuratrice AIG e i produttori automobilistici GM e Chrysler). Poi c’è il programma di stimoli varato da Obama nel febbraio 2009: altri 177 miliardi di dollari tra incentivi e agevolazioni fiscali. Nè vanno dimenticati gli acquisti di titoli tossici da parte della Fed per oltre 1.000 miliardi. Di fatto, per queste vie una quota ingente di debito privato è stata accollata al bilancio pubblico.

Il cavallo di battaglia della destra è la lotta contro le tasse. Ma proprio le tasse basse per le imprese e per i cittadini più ricchi sono una componente non trascurabile degli attuali problemi di bilancio degli Stati Uniti. Le tasse sulle imprese, ad esempio, sono scese dal 22% del totale nel 1965 al 13% del 2005, e sono oggi pari a circa un quarto delle tasse pagate dai cittadini (durante la Grande Depressione il rapporto era di 1 a 1, e durante la seconda guerra mondiale le imprese pagavano il 50% di più). Il caso della General Electric, che nel 2010 grazie a sgravi e ad attività all’estero non ha pagato un dollaro di tasse negli Stati Uniti, è tutt’altro che un’eccezione. Quanto agli sgravi di tasse ai ricchi voluti da Bush, Obama per ora ha soltanto dichiarato che non li rinnoverà dopo la fine del 2012. Siamo quindi lontani da un’inversione di tendenza.

E poi c’è la situazione economica. La crescita statunitense negli ultimi due anni è dovuta in gran parte proprio agli stimoli all’economia pagati con l’aumento del debito pubblico, e probabilmente verrà meno con il loro interrompersi. Le imprese sono sedute su 2.000 miliardi di dollari di cassa, ma non investono. La bilancia commerciale è sempre in deficit. Il mercato immobiliare non si riprende. Poveri e classe media assistono ad un calo dei salari reali. Messo in questi termini, il problema del debito pubblico Usa è irrisolvibile: sia dal lato delle uscite che da quello delle entrate.

Sono quindi probabili minori acquisti del debito Usa da parte di investitori e governi stranieri, che ne detengono attualmente il 46%. Già nelle ultime aste la Federal Reserve ha dovuto comprare fino al 70% dei titoli emessi, ma la cosa – ci ha detto Bernanke una settimana fa – finirà a giugno. Sarà inevitabile, prima o poi, un aumento degli interessi sui titoli di Stato a lungo termine, con la conseguenza di un aggravamento della situazione debitoria. A quel punto, una crisi del debito statunitense non sarà più fantascienza.

Pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 4 maggio 2011

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dello stesso autore, tratto da “Lettera 43”

 

“Forse senza Osama bin Laden e i suoi  attentati del 2001 non ci sarebbe stata la crisi finanziaria del 2007-2008. Probabilmente, sarebbe arrivata più tardi, e sarebbe stata meno virulenta”. Iniziava così l’editoriale di Mario Margiocco pubblicato 2 giorni fa su questo quotidiano e intitolato Così lo sceicco generò la crisi Usa.

LA RECESSIONE E LA NEW ECONOMY. Margiocco è una delle migliori firme di Lettera43.it, e anche in questo caso non si smentisce, offrendo dati di grande interesse sull’impennata delle spese militari post-11 settembre. Ma per una volta mi trovo a dissentire dalla sua tesi di partenza. No, senza Osama la crisi non sarebbe arrivata più tardi: sarebbe arrivata prima. Anzi, la crisi c’era già. Gli Stati Uniti erano infatti in recessione già dal marzo 2001, anche a motivo dello scoppio della bolla speculativa della new economy.

La “scusa bin Laden”

La crisi non era un fatto soltanto americano. Proprio il giorno prima dell’attentato la Banca dei regolamenti internazionali aveva pubblicato il rapporto relativo al secondo trimestre del 2001. Da esso emergeva un «colpo di freno dell’economia mondiale», segnalato dal chiaro «rallentamento della domanda di prestiti per nuovi investimenti».
I RECORD NEGATIVI DELLA PRODUZIONE. Negli Usa, però, la situazione era particolarmente seria. I dati relativi alla produzione americana nel mese di agosto avevano battuto due record negativi: l’andamento peggiore della produzione industriale americana dal 1960 (undicesimo calo consecutivo), e il tasso di utilizzo degli impianti, tornato ai minimi del 1983 (tra le industrie manifatturiere la capacità produttiva inutilizzata era ormai superiore al 25% del totale).
I PROFITTI DELLE IMPRESE. Ancora: i profitti delle 500 imprese dell’indice Standard & Poor’s nel secondo trimestre 2001 avevano segnato un calo medio del 60%, e si trovavano secondo l’Economist «al livello più basso da mezzo secolo a questa parte». Insomma: una crisi seria. Con l’aggravante di essere sincronizzata tra le principali economie mondiali, che evidenziavano tutte un eccesso di capacità produttiva «al suo livello massimo dagli anni Trenta» (the Economist, «How far down?», 20 ottobre 2001).
CRISI E IL RIFUGIO NELL’ATTENTATO. Con l’11 settembre entra in gioco la ‘scusa bin Laden’. La definizione irriguardosa è dell’Economist del 13 ottobre 2001, che la spiega così: «Le imprese stanno già citando gli attacchi terroristici come motivo per far saltare fusioni, tagliare posti di lavoro e abbandonare nuovi progetti di investimento». 
In altri termini, una crisi già in atto viene addebitata all’attentato. Lester Thurow lo ammise francamente: «Il 99.8% dell’attuale crisi economica era già in corso, anche se ora tutti danno la colpa al terrorismo» (Il Sole 24 ore, 24 ottobre 2001).
LE TRIVELLAZIONI IN ALASKA. Secondo un copione non nuovo, vengono subito sollecitati iniziative e contributi pubblici alle imprese, spesso anche per settori che con l’attentato hanno ben poco a che fare. Dall’accelerazione sui negoziati per un’area interamericana di libero scambio alla ripresa delle trivellazioni petrolifere in Alaska, dal taglio delle tasse alle imprese al progetto di ‘scudo stellare’ (di cui proprio l’attentato aveva dimostrato l’inutilità): tutto viene proposto come «il modo migliore per rispondere all’11 settembre».

 

*Vladimiro Giacché è presidente del consiglio di amministrazione di News 3.0

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