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Spremuta inutilmente, Lisbona a precipizio

 
Il paese è al primo posto in Europa nella classifica del divario tra ricchi e poveri Gli autobus la sera sono pieni di persone stremate dai turni di lavoro. Otto ore non bastano più Il 5 giugno il voto per rinnovare il parlamento. Il premier Sócrates cercherà di vendersi un piano «meno duro di quanto si temeva»

 

LISBONA
Dopo Grecia e Irlanda, alla fine i diktat di Fondo monetario internazionale (Fmi), Banca centrale europea (Bce) e Unione europea (Ue) hanno raggiunto anche il Portogallo. Manca solo la S di Spagna e tutti gli Stati bollati con l’acronimo «Pigs» avranno avuto il loro piano di salvataggio.
Dei contenuti dell’accordo con Lisbona non è dato sapere i dettagli, bisognerà attendere i prossimi giorni. Quello che già si sa è l’ammontare totale del prestito, 78 miliardi di euro (il Pil portoghese è di circa 200) e che di questi 14 saranno destinati a rifinanziare le banche, sempre più in sofferenza per i troppi crediti concessi.
Il conto presentato a Lisbona dalla «troika» formata da Fmi, Bce e Ue (chissà poi perché, quando si deve far paura, si usano sostantivi dal vago sapore sovietico) sarà meno salato di quello servito ad Atene e Dublino. Insomma le notizie sono drammatiche ma meno del previsto, magra consolazione.
La scaletta è sempre la stessa. Come da copione si attacca il welfarestate: non ne dubitava nessuno. Ma il problema reale, dice il direttore del Fmi Dominique Strauss-Kahn, è il debito privato, non quello pubblico (il rapporto Pil/debito è del 90% circa e il deficit previsto per quest’anno è circa al 5%). Peccato che poi non ne tragga le dovute conseguenze e non si faccia nulla per ridurre l’accesso al credito.
L’accordo è tanto inutile da sembrare surreale, quasi metafisico, sì perché nell’antica terra lusitana (così la chiamavano i romani) non sono i conti pubblici a fare acqua da tutte le parti, ma è l’economia reale a non funzionare. Sono le industrie che chiudono dopo che per anni hanno scommesso sulla manodopera a basso costo in un mondo dove ciò che conta (proprio la Germania lo insegna), è l’innovazione tecnologica. E, infatti, se da un lato il costo del lavoro per unità prodotta è elevatissimo, dall’altro lato gli operai guadagnano poco, salari da fame (questa volta non in senso figurato). E ancora meno guadagneranno a partire da ora. Si colpiscono i diritti dei lavoratori, ma non si spiega in che modo la «liberalizzazione» del mercato del lavoro possa avere una qualche influenza sulla riduzione del debito (pubblico e privato).
Un piano ancor più surreale, perché si sa già ancor prima di attuarlo che avrà effetti recessivi: si prevede una contrazione del Pil del 2% sia per questo sia per il prossimo anno. Anche su questo, sarebbe inutile fare della facile retorica, ci sentiremmo rispondere che, per rilanciare l’economia, prima bisogna «mettere a posto i conti» (una volta la si sarebbe chiamata «politica dei due tempi», oggi si preferisce la retorica della «massaia»).
In somma, 4 punti di Pil in meno corrispondono a 8 miliardi di euro e, essendo il deficit un prodotto della frazione del Pil, questo significa che le casse pubbliche dovranno pagare due volte. Seconda considerazione: è vero che i salari non diminuiranno e, per il momento, non ci saranno licenziamenti di massa, ma è anche vero che, riducendosi le prestazioni dello Stato, i salari reali diminuiranno eccome. Aumenteranno il costo dei trasporti, le tasse scolastiche, diminuiranno i sussidi per le famiglie. Terza considerazione: è vero che non ci saranno licenziamenti di massa, ma è anche vero che con i tagli alla spesa pubblica non si creerà occupazione.
Come se non bastasse – ultimo ma non in ordine d’importanza -, il piano prevede un ampio ricorso alle privatizzazioni: gas, elettricità e compagnia aerea sembrerebbero per ora i settori coinvolti. Non si conosce ancora il destino della Caixa Geral de Depositos, la maggior banca pubblica del paese.
Tutto secondo il solito inutile copione. E allora perché prendere decisioni che ben si sa non essere risolutive? La metafisica qui non c’entra niente, non c’entra niente neanche l’economia. La sostanza di tutto questo discorso è che le motivazioni alla base del piano studiato dalla troika rispondono unicamente a ragioni politiche, devono cioè soddisfare la sete di sangue di quel populismo che né Sarkozy né Merkel vogliono più contrastare (ve le ricordate le isole greche che Die Bild consigliava di vendere?). Paradossalmente, nel cinico gioco del poliziotto buono e del poliziotto cattivo, il Fmi, meno vincolato a questioni elettoralistiche, si mostra più duttile degli emissari della Bce e della Commissione europea.
Il paese avrebbe bisogno di ben altro. Avrebbe un bisogno urgente di politiche redistributive del reddito. I dati Eurostat pongono il Portogallo al primo posto in Europa per la più alta sperequazione tra ricchi e poveri. Ne avrebbe bisogno non solo per un ovvio senso di giustizia sociale, ma perché con i soldi tutti concentrati in poche mani l’economia non può girare. Avrebbe bisogno di investimenti ingenti in scuole e educazione, avrebbe bisogno di salari più alti, perché con 500 euro al mese non si vive (questo è il ben magro salario di chi lavora come commesso, alla cassa del supermercato, come cameriere in un bar o in un ristorante), con pensioni di 200 euro poi si fa la fame (e non veniteci a raccontare che il costo della vita in Portogallo è più basso). Gli autobus la sera sono pieni di persone distrutte da massacranti turni di lavoro, perché con sole otto ore al giorno alla fine del mese non si arriva e allora si fanno gli straordinari. Tutte le misure adottate vanno in una direzione diametralmente opposta a ciò che sarebbe davvero necessario, ma probabilmente né chi governa né la troika queste persone le ha mai viste. Chissà se chi è responsabile di questo stato di cose ha mai dei rimorsi.
Questo è il clima in cui, tra un mese (il 5 giungo), si terranno le elezioni per il rinnovo dell’Assembleia da República. Tutto il mondo dei media si è apertamente schierato contro il leader socialista José Sócrates, poco amato peraltro anche a sinistra. Il centro-destra, all’opposizione, non riesce a capitalizzare il default a cui è stato costretto il partito socialista. Non passa giorno in cui il suo leader, Pedro Passos Coelho, non faccia una gaffe e infatti i sondaggi lo danno in picchiata: quello che appena pochi mesi fa appariva essere un trionfo di facile portata, con dieci punti di distacco, è oggi un sostanziale pareggio. Guerre puniche a parte, direbbe Andreotti, Sócrates è stato accusato di tutto, ma nonostante questo, può riscuotere il successo di un accordo decisamente meno penalizzante di non quanto si era temuto inizialmente (in termini relativi chiaro).
Le sinistre, Partito comunista e Bloco de esquerda, si ergono sulle barricate, ma in realtà non riescono a trovare la chiave giusta per incidere sulle decisioni politiche. Si rifiutano di incontrare gli economisti della troika non riconoscendo loro nessuna legittimità, ed è comprensibile, ma poi non propongono nulla di veramente alternativo, non riescono neppure a trovare un accordo tra di loro. Si limitano ad aspettare che «o vento mude», che il vento cambi, e che «o vento esteja mesmo a mudar» se ne dice convinto il segretario generale del Pcp Jerónimo de Sousa. A noi il vento sembra che soffi forte e vigoroso proprio nella direzione opposta a quella preconizzata dalle sinistre portoghesi e questo non ci mette di buon umore.
da “il manifesto” del 6 maggio 2011

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