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Crisi greca, confusione europea

In Europa ci sono molti malati, e la Grecia è quello che preoccupa di più. Ma anche tra i medici – vedi il Fondo monetario internazionale improvvisamente decapitato di Dominique Strauss-Kahn – non è che si scoppi di salute.
Sarà anche per questo, ma la confusione è tanta: sia sulle «cure» che sugli effetti a breve. Da un lato abbiamo i rigoristi della Banca centrale europea – il perno della «trojka», insieme a Fmi e Ue, che sta eterodirigendo il «risanamento» ellenico – secondo cui «si è perso tempo in questi mesi nella ricerca di scappatoie, di soluzioni facili, come quella di ristrutturare il debito». L’italiano Bini Smaghi, in attesa di «farsi da parte» al momento dell’ingresso di Mario Draghi come governatore, è drastico: «ora si parla di soft restructuring, come se in, una società avanzata, il fatto che gli stati non rimborsino i debiti non sia un fattore devastante per la stabilità finanziaria».
Sembra questo l’elemento di strategia fondamentale. La Grecia, palesemente, non ce la fa a seguire la tempistica di rimborso dei prestiti decisa dalla «trojka», anche perché i sanguinosi tagli alla spesa pubblica hanno depresso l’economia (che arretrerà quest’anno di un punto percentuale in più rispetto alle già tragiche previsioni). Quindi si è affacciata l’ipotesi di «ristrutturare il debito» allungando la scadenza delle obbligazioni; ovvero riducendo il «rendimento» annuo, ma garantendo il saldo finale di rimborso. Del resto, le obbligazioni a due anni della Grecia «rendono» il 25%. Una cifra folle, implausibile.
Ovvio che un «rallentamento» nella restituzione possa far pensare – ai mitici «mercati» – che una parte almeno del debito potrebbe non venir rimborsato; aprendo così una catena di «sofferenze» di dimensioni «simili a quelle del crack di Lehmann Brothers» (paragone offerto dal presidente della Consob ed ex vice di Tremonti, Giuseppe Vegas). Non troppo sobriamente Juergen Stark, membro tedesco della Bce, l’ha definita «una catastrofe» (per le banche tedesche soprattutto, ma questo non l’ha detto).
Ed è proprio la Germania la più dura nel pretendere «riforme draconiane», entrando nel merito senza mezzi termini. «I cittadini dei paesi in difficoltà dovrebbero lavorare più a lungo – ha scandito Angela Merkel – In paesi come Spagna, Grecia e Portogallo non si può andare in pensione prima che in Germania» (67 anni). Motivo: «c’è la moneta unica». Ma chi è che ha voluto costruire l’Unione europea con la sola politica monetaria, senza quella fiscale, industriale, economica e di welfare? La Germania, come tutti sanno.
Visto che la Grecia non cresce, anzi…, l’unica soluzione è chiederle di «privatizzare la compagnia statale di elettricità (Deh), la telefonia (Ote) e qualcos’altro (le isole, in pegno) in modo da trovare 50 miliardi destinati a ridurre il debito. Cosa che renderebbe possibile un nuovo prestito europeo (ovvero un incremento del debito!) di 12 miliardi. Il meccanismo è abbastanza trasparente: si spoglia la Grecia dei suoi gioielli industriali e la si lascia con l’unica alternativa di spremere al massimo la popolazione. Ancora ieri la «trojka», ad Atene per seguire l’evoluzione del «piano di salvataggio», è tornata a pretendere altre riduzioni di stipendio per i dipendenti pubblici, il licenziamento dei lavoratori nelle aziende da chiudere e quello dei giovani con contratti a termine. Altri problemi semi-irrisolvibili per il governo del socialista Papandreou, stretto tra dieci scioperi generali in un anno e la necessità di ottenere un accordo dai sindacati più vicini al suo partito. Almeno per poter varare una manovra aggiuntiva da 6 miliardi nelle prossime settimane.
Tra i «medici» dicevamo, ce n’è uno con grossi problemi. La caduta rovinosa di Strauss-Kahn ha aperto la partita della successione. Secondo usanze diplomatiche consolidate, il posto di direttore deve andare a un europeo (mentre alla banca mondiale va uno statunitense). Ma il mondo sta cambiando rapidamente, e i paesi «emergenti» hanno ora il peso economico sufficiente a pretendere di avere maggior potere dentro queste istituzioni. E magari anche il posto di direttore, facendo trapelare una velata accusa di «eurocentrismo» nella recente gestione di DSK.
Questo diverso equilibrio globale è statoo riconosciuto proprio ieri dall’altro pilasto che «governa» la finanza globale, ovvero la Banca mondiale. «Entro il 2025 le sei maggiori economie emergenti – Brasile, Cina, India, Indonesia, Sud Corea e Russia – contribuiranno per più di metà della crescita globale e il sistema monetario non sarà più dominato da una singola valuta». Ovvero dal dollaro, che dal 1971 è il vero pilastro della incredibile, e suicida, capacità di consumo di quel paese. Allacciate le cinture di sicurezza, c’è un testa coda in vista.
da “il manifest” del 19 maggio 2011

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