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Italia: no industria, no Pil

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L’industria manifatturiera è davvero così importante? Perché preoccuparsi se chiude qualche fabbrica (molte, negli ultimi tempi)? I servizi, in fondo, danno molto di più al Paese, in termini di posti di lavoro e reddito prodotto, ed è scritto nei libri che l’avanzata del terziario è l’inesorabile segno del progresso di un sistema economico, l’ultimo stadio del suo sviluppo.

Un processo naturale e fondato su precise dinamiche: la specializzazione delle catene del valore che porta (portava?) le imprese manifatturiere ad affidare all’esterno attività terziarie; l’aumento della domanda di servizi da parte delle famiglie al salire del reddito; la richiesta di servizi avanzati da parte della stessa industria, che incentra la competitività sull’immateriale e la conoscenza; il ridisegno della divisione internazionale del lavoro. L’Italia o alcune sue macroregioni non potrebbero dedicarsi proprio al terziario, lasciando al suo destino un settore, il manifatturiero, da archiviare come un bel capitolo di storia?

Queste domande che carsicamente riaffiorano nel dibattito pubblico. Specie nei momenti di recessione e quindi di ritirata della produzione industriale, più sensibile alle oscillazioni cicliche. Che trovano facile eco in una cultura che non è mai stata troppo simpatetica con le sorti delle imprese manifatturiere (ingombranti, inquinanti, olezzanti).

Ha fatto bene, perciò Il Sole 24 Ore a lanciare un’inchiesta su ciò che impedisce all’industria di crescere. E alla centralità del manifatturiero è dedicata una parte di Scenari Industriali, il rapporto annuale del Centro Studi Confindustria sulle tendenze globali del manifatturiero, che sarà discusso domani (in Viale dell’Astronomia a Roma).

Nell’ultimo quarto di secolo il peso del manifatturiero si è quasi dimezzato in Italia. Sia in rapporto al valore aggiunto: dal 29,6% del 1976 al 16,6% del 2010. Sia in termini di occupazione: dal 28,1% del 1977 al 17,5% dell’anno scorso. Tendenze analoghe, e perfino più accentuate, si sono osservate nelle altre maggiori nazioni avanzate. Tuttavia, proprio queste ultime hanno rivalutato il ruolo del manifatturiero, anche per la nuova luce gettata dalla crisi sulle fonti durature del benessere. Stati Uniti, Regno Unito e Francia hanno avviato riflessioni e varato misure per puntare con decisione sul rilancio dell’industria manifatturiera. La Germania l’ha fatto da tempo. L’Italia appare in ritardo.

Il manifatturiero, infatti, continua a essere la ‘sala macchine’ della crescita perché dalla sua attività originano i guadagni di produttività dell’intero sistema economico attraverso cioè le innovazioni incorporate nei beni utilizzati nel resto dell’economia. Il manifatturiero crea posti di lavoro mediamente qualificati e ben remunerati, sempre più nelle produzioni basate sulla conoscenza. Nel manifatturiero viene effettuata la gran parte della ricerca di base e applicata del settore privato. Dal manifatturiero, in particolare per un Paese povero di risorse naturali, provengono i beni esportabili che servono a pagare le bollette energetiche e alimentari e a finanziare gli acquisti di beni e servizi all’estero.

Perciò la sua importanza va molto al di là di quanto non rivelino le statistiche sul suo apporto diretto al valore aggiunto e ai posti di lavoro nell’intera economia. Per documentare questa importanza, Pasquale Capretta e Massimo Rodà, del CsC, hanno condotto due simulazioni. La prima misura l’incidenza effettiva del manifatturiero nel sistema economico italiano, considerando l’interazione tra i settori e la spesa generata con i redditi prodotti al suo interno. La seconda evidenzia gli effetti, dovuti all’operare del vincolo dei conti con l’estero, di una massiccia riduzione delle esportazioni manifatturiere.

Il peso complessivo effettivo del manifatturiero sull’economia italiana è il doppio di quello indicato dalla sua quota diretta sul valore aggiunto totale. La misura si ricava guardando alle conseguenze di un calo del 10% dell’attività manifatturiera: si avrebbe una riduzione del Pil pari al 3,4%, anziché l’1,7% ipotizzabile in base all’incidenza delle produzioni manifatturiere; anche la diminuzione dell’occupazione sarebbe doppia.
La propagazione degli effetti sull’intero sistema economico è amplificata direttamente dal venir meno della domanda attivata negli altri settori dalle imprese manifatturiere e indirettamente dalla diminuzione di occupazione e redditi all’interno del manifatturiero che determinerebbe una contrazione degli acquisti di beni e servizi prodotti nel resto dell’economia.

Se, ragionando per assurdo, il settore manifatturiero sparisse improvvisamente, se ne andrebbe più di un terzo dell’intero sistema economico: -34% il valore aggiunto, -8,2 milioni di unità di lavoro e -36% il monte salari. Poiché le esportazioni sono costituite per oltre il 78,0% da prodotti manufatti, se non avesse beni industriali da vendere all’estero l’Italia dovrebbe rinunciare alla quasi totalità delle importazioni e non sarebbe in grado di procurarsi le materie prime, a cominciare dall’energia, il cui acquisto è finanziato proprio dal surplus negli scambi di manufatti con l’estero.

Proprio per illustrare il ruolo preponderante dell’industria manifatturiera nelle esportazioni italiane, il CsC ha effettuato una seconda simulazione: sono stati misurati gli effetti sul sistema economico italiano della riduzione permanente del 20% delle esportazioni e dei conseguenti aggiustamenti necessari a riportare in pareggio i conti con l’estero.
Le ripercussioni sarebbero drammatiche: il Pil cadrebbe progressivamente fino a ridursi del 15% dopo otto anni (-8,4% già nel primo); gli investimenti verrebbero tagliati del 17,2% (-10,4% nel primo anno). La minore domanda interna alla fine porterebbe alla diminuzione delle importazioni (-22,6%) necessaria a riequilibrare la bilancia commerciale. Questi contraccolpi sono tre volte maggiori di quelli derivanti dalla meccanica applicazione del peso dell’export sul Pil (26,8%). Il vincolo del mantenimento dei conti con l’estero in pareggio ha effetti moltiplicatori terribili ma ineluttabili.

Ciò evidenzia come in Italia, più che in altri Paesi che hanno giocato altre carte ma che comunque stanno cercando di recuperare la centralità dell’industria, senza export manifatturiero si avrebbe l’implosione dell’intero sistema economico. Il ragionamento funziona anche all’incontrario: solo l’espansione delle esportazioni consente di generare risorse in modo compatibile con l’aumento delle importazioni che la spesa di quelle risorse causerebbe. E solo da un manifatturiero vitale e competitivo può originare la crescita dell’export.

l.paolazzi@gmail.com

8 giugno 2011

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