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La lunga via per lo stato regolatore

Le richieste della Commissione europea hanno appena imposto all’Italia, come priorità, oltre al taglio del debito pubblico, il ritorno alla crescita economica. Ma tagli al debito e stimoli per la crescita, insieme, appaiono in verità un ossimoro, nella cui tenaglia si dibatte non solo l’Italia, ma molti Paesi dell’Ocse, compresi gli Stati Uniti, dove la rielezione di Obama sembra dipendere dall’attuale battaglia congressuale sul bilancio pubblico.

Un ossimoro certamente lo è, secondo le tesi di J.M. Keynes, poiché le grandi crisi finanziarie provocano una dilagante mancanza di fiducia nei mercati, scoraggiano gli investimenti, fanno crollare la domanda aggregata, ristagnano il risparmio e aumentano la disoccupazione. Solo lo Stato sembra allora poter rilanciare l’economia, sia direttamente, con piani di investimenti pubblici, sia riducendo le imposte.

Ma investimenti e riduzione delle tasse portano ad un aumento del debito pubblico e così l’ossimoro riappare. Non v’è dubbio poi che all’inizio dell’attuale crisi globale gli stimoli governativi di tipo keynesiano furono largamente adottati anche con pesanti salvataggi. Tuttavia, superata la crisi iniziale, la tesi keynesiana è stata abbandonata, in base al principio che l’aumento del deficit pubblico estromette dal mercato gli investimenti privati e deprime i consumi a causa dell’indispensabile aumento sia delle imposte, sia dei tassi di interesse sui titoli di Stato, necessari per coprire il deficit.

Questa nuova ortodossia, anche per un indubbio afflato moralistico che accompagna le politiche di austerità, è ormai globalmente accettata e la Commissione europea se ne è fatta fedele interprete. E così ha imposto ai Paesi dell’Unione un rientro dal debito pubblico entro termini precisi; antidoto questo al “rischio Paese”, che induce i mercati ad abbandonare l’acquisto dei titoli emessi a copertura del debito.

Lascio agli economisti la scelta teorica di una tesi piuttosto che dell’altra, ancorché sia evidente che le situazioni di molti Paesi sembrano, come testimoniano le cronache odierne, dare ragione alle politiche economiche di austerità e di riduzione del debito, ancorché rimangano ignoti e incerti gli stimoli per far ripartire l’economia, ridurre la disoccupazione ed evitare esasperati conflitti sociali, in un sempre più intricato e ambiguo rapporto fra pubblico e privato.

Negli Stati Uniti, ad esempio, si sta pensando a una National Investment Bank (Nib), che potrebbe sostituirsi allo Stato, finanziando le infrastrutture deteriorate da decenni, i trasporti, le energie alternative, l’acqua e le esportazioni. Ciò eviterebbe il fallimento dei mercati privati del capitale per la mancanza di fondi su progetti a lungo termine, ma di valore, sia per la politica nazionale sia per ridare fiducia ai mercati finanziari, in modo che il settore privato riprenda a sua volta gli investimenti.

Da Felix Rohatyn a John Kerry ritengono che la NIB sia il migliore strumento per risolvere il problema. Il capitale iniziale dovrebbe comunque essere conferito dal Congresso, ma in misura tale da non incidere sul deficit, mentre la Banca raccoglierebbe multipli del capitale pubblico con l’emissione sui mercati di bonds a lungo periodo dotati di un modesto premio sull’interesse dei titoli di Stato e con garanzia legata agli stessi progetti di investimento.

Esiste peraltro un esempio operativo comparabile, cioè quello della Banca Europea per gli Investimenti (Bei), la quale con il capitale conferito dai 27 Stati membri della Ue assume prestiti sui mercati finanziari e ne concede a lungo termine a tassi agevolati, per finanziare soprattutto importanti infrastrutture. Ma in ambedue i casi non viene incrementato il debito pubblico, mentre si provvede a stimolare l’economia, salvaguardando le priorità a lungo termine della politica economica dei Governi. È tuttavia indispensabile, perché questo stimolo pubblico-privato abbia efficacia, che esista, di supporto, un adeguato ampio mercato finanziario.

Tale mercato dei capitali manca al nostro Paese, scarso di investitori istituzionali e con una stagnante economia bancocentrica, sicché qualsiasi incentivo di quel tipo, deve necessariamente avvalersi del sistema bancario italiano. Così è stato per il Fondo Italiano di Investimento (Fii), un fondo di private equity, dedicato a patrimonializzare le piccole e medie imprese, costituito nel 2010 per iniziativa del ministro Tremonti, con la partecipazione per un quarto della Cassa Depositi e Prestiti e per tre quarti dalle principali banche italiane. E così è anche per la Banca del Mezzogiorno disciplinata dalla legge finanziaria del 2010 per far funzionare il mercato del credito a medio-lungo termine nel Mezzogiorno.

Queste ed altre strutture giuridiche, certamente innovative per il settore pubblico e per quello privato sono ben descritte da A. Montanino nel recentissimo volume a cura di S. Caselli e F. Suttin, “Private equity e intervento pubblico”, Egea 2011, p. 27 e ss..
Serviranno questi strumenti di nuova politica economica a cambiare la natura dello Stato imprenditore a Stato regolatore e a risolvere l’ossimoro, aiutando veramente le piccole e medie imprese e il Mezzogiorno?
Ciò sarà possibile solo con una direzione autonoma e indipendente di quelle istituzioni, nonché con una rigorosa vigilanza sui possibili nuovi conflitti di interesse che le banche avranno di fronte a questa loro nuova vocazione pubblica.

I tradizionali conflitti di interesse del sistema banconcentrico non hanno finora, in mancanza di un mercato di capitali evoluto, aiutato né lo sviluppo delle imprese né la tutela di scoraggiati e indifesi risparmiatori sul collocamento dei prodotti finanziari. Il cammino può essere lungo e difficile, poiché alcune riforme sono indispensabili, ma le linee guida paiono innovative e ben tracciate.

 

da IlSole24Ore del 12 giugno

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Deficit e tasse dove e come si può tagliare

Deficit e tasse: tagliarli assieme si può. Ecco come

 

di Baldassarri Mario

Fin troppo palese e “sine pudore” è la strumentalizzazione con la quale vengono interpretate in Italia le indicazioni provenienti dall’Unione Europea, soprattutto da parte di chi non intende attuare quelle riforme strutturali promesse da più di dieci anni e mai realizzate, riforma fiscale in testa. In realtà, la Commissione Europea ha semplicemente ricordato l’impegno che l’Italia ha già assunto per azzerare il deficit nel 2014, ma ha anche detto che tale impegno va perseguito con tagli di spesa corrente.

Qui sta il vero nodo politico: quanto, come e dove tagliare la spesa corrente.

Per ottenere il deficit zero è banale dire che lo si può fare aumentando le tasse o tagliando le spese. Non è banale, invece, l’indicazione della Commissione Europea che indica la strada del taglio delle spese e non dell’aumento delle tasse. I tagli della spesa, a loro volta, possono essere “lineari, orizzontali, percentuali” su tutte le voci di spesa, oppure “verticali, mirati e specifici” su precise voci più sospette di contenere sprechi, malversazioni, aree grigie tra economia e politica, tra economia e politica. Risanare il bilancio a scapito della competitività è un suicidio. Nel primo caso non si tratta di politica economica perché tagliare “tutto in proporzione” significa non scegliere “nulla”. La politica, invece, è “scegliere” o, come diceva Luigi Einaudi, “prima conoscere, poi decidere”. E’ evidente che chi “non conosce” o fa finta di non conoscere, “non può decidere” o non vuol decidere. Ma qui finisce l’indicazione dell’UE, che evidentemente mira a salvaguardare gli obiettivi dell’Unione stessa e non entra nel merito degli interessi nazionali italiani. Azzerare il deficit pubblico, però, non è solo interesse dell’Unione ma è, anche e soprattutto, interesse nazionale italiano. Con una differenza: per l’Europa, l’obiettivo del deficit esaurisce l’interesse della stessa Unione Europea, indipendentemente dal “come” viene realizzato; per l’Italia invece il “come” viene realizzato rappresenta il perno vero della decisione “politica”.

All’Europa, infatti, interessa “soltanto” l’equilibrio finanziario italiano che assicura che l’Italia ripagherà propri debiti. Si potrebbe inoltre esplicitare anche un “retro pensiero” dell’Europa ed in particolare della Germania, quello cioè di un’Italia che azzera il deficit, assicura la solvibilità del proprio debito pubblico e nel fare questo frena la sua crescita, annaspa in condizioni insufficienti di produttività e perde competitività. In questo caso infatti i “creditori europei” dell’Italia sanno che verranno ripagati ed i “competitori europei” dell’Italia sanno che potranno guadagnare quote di mercato a scapito delle nostre produzioni. Un ministro del economia italiano che si comportasse in questo modo sarebbe certamente il miglior ministro dell’economia possibile…. per la Germania!

Non si tratta quindi di chiedere al Ministro dell’Economia di “allentare i cordoni della borsa” per poter fare la riforma fiscale. Significherebbe aumentare il deficit e questo è pura follia. Dall’altra parte però è altrettanto falso dire che la riforma fiscale non si può fare perché “non c’è più un Euro”. Ma allora dovremmo aspettare la manna dal cielo di un in enorme “avanzo” di bilancio per poter fare la riforma fiscale? Pensare di fare la riforma fiscale a deficit è demenziale. Ma fare il rigore finanziario aumentando le tasse, tagliando drasticamente gli investimenti e rincorrendo gli aumenti di spesa corrente (come fatto in tutte le manovre fin qui realizzate) non significa fare rigore finanziario ma “rigor mortis”.

Si tratta allora di chiedere al Ministro dell’Economia di entrare nel merito degli oltre 800 miliardi di spesa pubblica, individuare le voci di spesa che debbono essere “politicamente” tagliate, ma non con il trucco del taglio sui valori “tendenziali” degli anni futuri scritti solo sulla carta e che di fatto nei decenni passati ed anche negli ultimi anni nascondono in realtà aumenti di spesa rispetto all’anno precedente. Occorre invece prendere a base i dati effettivi storici del 2009 o 2010 indicando voce per voce quali debbono e possono essere aumentate e quali debbono e possono essere ridotte.

Questo è il cuore della politica economica e del confronto politico. L’entità dei tagli deve essere in primo luogo utilizzata per azzerare il deficit e l’ altra parte può essere utilizzata per spostare le risorse. Ecco allora che si può ottenere il deficit zero e contemporaneamente ridurre le tasse alle famiglie e alle imprese e aumentare gli investimenti infrastrutturali, per la ricerca, l’innovazione, la formazione, la scuola. Così facendo si ottiene il rigore finanziario, il sostegno alla crescita e all’occupazione e una maggiore giustizia sociale.

Una parola netta e chiara va inoltre detta sulla lotta all’evasione che deve essere parte fondante di una seria politica economica. Il recupero dell’evasione è sacrosanto, ma lo si può fare soltanto con un’azione a tenaglia: introduzione diffusa di conflitti d’interesse e amministrazione finanziaria capace di fare accertamenti seri. Fatta invece con le vessazioni, le ganasce fiscali, l’esecutività immediata degli accertamenti, significa nel 99% dei casi vessare coloro che sono già tartassati. E comunque, ogni Euro in più di recupero dell’evasione deve essere un Euro in meno di tasse per coloro che già le pagano correttamente.

Se, al contrario, il gettito della lotta dell’evasione finisce nel calderone del bilancio pubblico, magari anche a riduzione del deficit, significa semplicemente e aritmeticamente un aumento della pressione fiscale. Di conseguenza significa meno sviluppo e meno occupazione soprattutto per i giovani e per le donne.

Gli effetti di una manovra strutturale di “rigore e di sviluppo”, secondo le linee sopra riportate e autorevolmente indicate anche dal Governatore della Banca d’Italia, saranno presentati giovedì 16 giugno a Roma, Teatro Adriano di Piazza di Pietra, nel corso del Workshop sul “VI Rapporto di Previsione sull’Economia Italiana” del Centro Studi Economia Reale, nell’intento di contribuire a costruire una seria risposta ai gravissimi problemi del paese, aprendo un dibattito serrato, costruttivo e documentato tra tutte le parti sociali e politiche che hanno a cuore il futuro dell’Italia.

 

* Presidente della Commissione Finanze e Tesoro del Senato

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