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Il “sistema Europa” davanti alla guerra finanziaria globale

Ferrea perché inchioda i comportamenti dei partecipanti alla zona-euro ed espropria (a partire dal 1 gennaio dell’anno in corso) i governo della possibilità di governare i bilanci dei rispettivi stati (l’entità delle “manovre di aggiustamento” viene determinata a livello continentale, mentre a livello nazionale rest solo da decidere su quali voci di bilancio – ovvero su quali classi sociali – incidere e quali privilegiare).

Fragile perché questa costruzione feroce si riduce a un solo strumento di controllo: la moneta e il bilancio pubblico. Mentre è assente qualsiasi ipotesi di politica economica, industriale, fiscale comuni. Un sistema dunque strutturalmente impotente, che può soltanto “comprimere” ciò che si muove al suo interno, ma esposto a qualsiasi attacco dall’esterno. Immobile come il totem ideologico che lo ha disegnato: l’intangibilità della “libertà dei mercati”. Che – come dimostrano diversi articoli riportati in questo giornale (raccomandiamo la lettura attenta dei “decisori occulti” di Claudio Mezzanzanica) – sono in reltà ben poco “liberi” e molto eterodiretti a fini privatissimi di pochissimi soggetti.

Il quadro che si va disegnando somiglia a uno scenario di guerra. Al posto delle divisioni corazzate o delle squadriglie di bombardieri ci sono poche ma potenti società di investimento che hanno creato negli anni strumenti finanziari di dimensioni colossali, gonfi di ricchezza “virtuale” ma di misura superiore a quella manovrabile anche dagli stati più potenti. Il fatto che queste corazzate siano per lo più anglosassoni (Usa e Gb), con tre sole agenzie di rating (altrettanto “nazionali con effetti globali”) nel ruolo egemonico di “centro di orientamento operativo”, segnala che una guerra è probabilmente già iniziata. E non sembra un paradosso che proprio dai paesi più in crisi quanto a deindustrializazione, indebitamento sia pubblico che privato, livelli occupazionali, credibilità internazionale, parta la guerra finanziaria globale.

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Di fronte al possibile dissesto della costruzione europea è stato convocato in tutta fretta un vertice dei ministri economici del continente. Seguiremo il suo evolversi, ma la fragilità delle “istituzioni” costruite sull’obbligo di “non disturbare il libero gioco dell’attività finanziaria” sembra arivata a un punto di non ritorno. Le due riflessioni che qui riportiamo, pubblicate sul quotidiano di Confindustria (IlSole24Ore), segnalano una preoccupazione oltre i livelli di guardia. Ma priva di adeguati strumenti – intellettuali, prima che operativi, suggerisce solo oggi Moses Naim – per trovare soluzioni all’altezza dei problemi.

Corsivi e grassetti sono nostri, per evidenziare i passaggi più critici.

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Nuove regole sui rating e stop agli «stress» inutili

Donato Masciandaro

Depotenziare i rating delle agenzie, limitare e/o tassare le attività speculative, eliminare gli stress test. Sono queste le tre strade urgenti che Bruxelles e Roma – ciascuna per la sua parte – devono annunziare e poi subito mettere in atto per ridurre la destabilizzazione sui mercati finanziari, che danneggia in modo iniquo Paesi, imprese e banche, a partire dall’Italia. Altrimenti, che governanti ed autorità la smettano di versare lacrime di coccodrillo, in quanto la volatilità nasce in primo luogo dalla loro ignavia.
La crisi finanziaria, esplosa nel 2008 e terminata – almeno per ora – nel 2009, avrebbe dovuto insegnare ai politici ed alle autorità di controllo che esiste un bene pubblico – la stabilità finanziaria – che può essere danneggiata dagli effetti – esternalità – di attività private. Per cui tali attività vanno regolamentate. Almeno due di queste attività hanno ripreso a mostrare la loro potenziale tossicità in questi giorni.

Il primo mercato che va urgentemente riformato è quello del rating delle agenzie. Il rating è la produzione privata di un servizio che nasce da una genuina domanda privata di informazioni. L’attività delle agenzie è potenzialmente virtuosa per due ragioni. La prima funzione è quella di dare informazioni, attraverso l’emissione dei rating (giudizi) agli investitori sulle probabilità di fallimento dei soggetti emittenti che chiedono capitali: imprese, banche e stati. La seconda funzione è quella di incentivare comportamenti virtuosi negli stessi emittenti, attraverso l’emissione di outlook (ipotesi di revisione dei giudizi).
Ora però queste due potenziali effetti positivi rischiano di essere superati dall’esternalità che il merito ed il metodo di rating e outlook provocano oramai nei mercati, in termini di eccesso di volatilità, causa a sua volta di inefficienze ed iniquità. L’esternalità nasce soprattutto – ma non solo – dall’uso irresponsabile che politici, autorità e gli stessi investitori hanno fatto dei rating, che di fatto hanno delegato alle agenzie la formulazione di giudizi e valutazioni, che hanno finito per divenire improprie. I principali responsabili sono i politici che hanno inserito i rating nelle regolamentazioni, e le autorità che li hanno assecondati. La deresponsabilizzazione faceva comodo ad entrambi. Ora occorre voltare pagina in fretta. I rating devono essere riportati a quello che sono: giudizi parziali e limitati di soggetti privati che li vendono a richiesta, e li fanno anche non a richiesta, spinti dalla necessità di trovare clienti. Niente di più. Per cui occorre eliminare il ruolo dei rating da ogni forma di regolamentazione. La strada scelta dall’Europa, fatta di registrazioni e di ipotetici controlli, è sbagliata: non bisogna aumentare il grado di pubblicizzazione, occorre eliminarlo del tutto. In attesa di tale riforma, fin da subito le autorità nazionali – come la Consob – hanno il dovere ed i mezzi per limitare gli effetti destabilizzanti di rating ed outlook.

In contemporanea, sarebbe opportuno che il depotenziamento dei rating coinvolgesse anche gli investitori istituzionali, i quali in quanto a deresponsabilizzazione non sono certo secondi a politici ed autorità di controllo. Gli investitori istituzionali sono tipicamente soggetti che allocano soldi di altri: la loro remunerazione è legata alle capacità ed all’impegno profuso nell’allocare al meglio le risorse altrui. Ma se tali soggetti svolgono la loro attività riempiendo i propri statuti e regolamenti di automatismi legati appunto ai rating, forse i loro clienti farebbero meglio a pagare le agenzie, non loro.
Il secondo mercato che deve essere senza indugio regolamentato è quello di tutte le attività finanziarie puramente speculative: a partire dalle vendite allo scoperto e finendo ai derivati con finalità non assicurative. Anche in questo caso, abbiamo delle legittime attività private che però, più di altre, presentano rischi sistemici elevati. Per fronteggiare le attività ad alto rischio sistemico ci sono due strade: vietare o tassare. Non far nulla – come è stato finora – è una pericolosa non scelta.

Infine, il rischio sistemico può nascere da attività pubbliche sbagliate. E’ questo il caso dei cosiddetti stress test. Gli stress test sono una ulteriore forma di deresponsabilizzazione delle autorità di controllo. Gli stress test producono informazioni che nasce da una selezione arbitraria di intermediari – mentre invece dovrebbe riguardarli tutti – sottoposti ad esperimenti comuni – mentre invece dovrebbero essere differenziati – che producono risultati pubblici – che invece dovrebbero essere per definizione riservati. Il risultato finale sono informazioni che se va bene sono inutili – come ampiamente dimostrato finora – e se va male solo addirittura controproducenti, sia prima che dopo. Vogliamo allora risparmiare nelle prossime settimane nuove occasioni di turbolenza, almeno sospendendo la pratica degli stress test? Oppure politici e vigilanti, applicando il borbonico detto «facite ammuina», devono comunque far finta di muoversi, anche se rischia di produrre danni?

10 luglio 2011

 

È la crisi che genera cattive idee

di Moisés Naím

 

La Grecia cadrà? Porterà con sé l’euro? Che cosa succede se in Pakistan scoppia un caos politico o se le rivolte arabe provocano incontenibili ondate di rifugiati verso l’Europa? Che cos’è più deleterio per la stabilità dell’economia mondiale: un eventuale ristagno della Cina o l’esplosione del debito pubblico negli Stati Uniti? Il mondo è pieno di fragilità e le notizie ce lo ricordano quotidianamente. Tuttavia vi è un altro tipo di fragilità che, seppur meno visibile, può essere altrettanto pericolosa: la fragilità intellettuale.
Mi riferisco alla crescente frequenza con cui le cattive idee si trasformano in decisioni che ci riguardano tutti.

I governanti si sono sempre dimostrati particolarmente vulnerabili alla seduzione delle cattive idee – sovente sostenute da intellettuali, giornalisti e altri attori influenti. Ma ora le nuove tecnologie, la globalizzazione e la crescente pressione per rispondere con rapidità e audacia ai problemi – molti dei quali senza precedenti – hanno accentuato tale fragilità. Le cattive idee si diffondono e si spargono velocemente per il mondo prima che affiorino i loro difetti. Ma il peggio è che, dinanzi alle crisi (politiche, economiche, militari), i leader sono sempre più tentati a scommettere in grande – vite, denaro, capitale politico – basandosi su idee spurie. L’invasione dell’Iraq ne è un buon esempio, così come la reazione iniziale alla crisi economica mondiale o, più di recente, quella della Grecia.

Ma non è una novità. La storia è costellata da teorie che diventano di moda e ispirano politiche, per poi essere confutate o sostituite da altre. Alcune, come il comunismo o il fascismo, sono costruzioni ambiziose che propongono una visione totale del mondo. Altre hanno una portata più modesta. La Teoria della Dipendenza, la Curva di Laffer diffusa da Ronald Reagan, la presunta superiorità della culturale dirigenziale giapponese o l’idea secondo cui è intelligente investire grandi somme nelle aziende di internet senza entrate sono stati concetti popolari, poi demoliti dalla realtà. Allo stesso modo esistono buone idee che, dopo aver acquisito una certa popolarità, vengono ignorate perché risultano politicamente onerose. La crisi economica ha messo sul tavolo la necessità di dotare il mondo di una “nuova architettura finanziaria”. Oggi la necessità è ancora valida, ma la proposta è passata di moda e non conta più sul sostegno che aveva durante l’apice del panico finanziario. Sebbene il ciclo “nascita-apogeo-scarto” (a volte anche resurrezione) sia stato una costante storica delle idee che influivano sulle grandi decisioni, la sua durata si è ridotta. Tale accelerazione si traduce nella volatilità delle politiche, a discapito dell’adozione di alternative più solide e durature. La crescente necessità di risposte a problemi tanto nuovi quanto preoccupanti aumenta la probabilità che le cattive idee si trasformino in decisioni. Agli imprenditori vengono richiesti più risultati e più rapidamente; i dirigenti politici si ritrovano elettorati sempre più impazienti, i funzionari sono obbligati a improvvisare risposte a emergenze senza precedenti… Quindi le “soluzioni miracolose” e immediate prevalgono sulle buone proposte che impiegano troppo tempo a dare i loro frutti. Prima o poi le cattive idee cadono nel ridicolo e vengono scartate, alcune di esse durano abbastanza per provocare grandi danni. E si corre il rischio che vengano sostituite da una nuova “buona” idea altrettanto ingannevole ed effimera. Un circolo vizioso che acuisce i problemi.

Tale volatilità intellettuale è amplificata dalle nuove tecnologie dell’informazione. Nonostante la rapidità e la comodità con cui comunichiamo facilitino l’analisi e la critica di idee e proposte, il volume e la velocità delle informazioni che circolano su tali canali superano la nostra capacità di discernimento, apprendimento, ponderazione e reazione. In mezzo a un flusso continuo e infinito di dati è impossibile discernere il rumore da tutto il resto. O capire quale idea è valida, quale critica è legittima, tendenziosa o errata. In tale caso, molto spesso, il più è il meno: il maggior dibattito corrisponde alla minore chiarezza. Tanta informazione aumenta i costi per scoprire a cosa e a chi credere. Com’è il caso di molti altri problemi, la fragilità intellettuale di questi tempi non ha rimedi semplici. È inevitabile che i nostri dirigenti continuino a essere sedotti da imposture intellettuali, con i risaputi effetti indesiderati. Tuttavia, come dimostrato dai numerosi attacchi terroristici o dalla crisi finanziaria, il primo passo per essere meno vulnerabili dinanzi al fascino delle cattive idee è riconoscere la nostra preoccupante propensione ad adottarle. Prestare attenzione alla crescente influenza delle cattive idee è altrettanto prioritario quanto stare all’erta in merito ai kamikaze o alle letali innovazioni finanziarie.

(Traduzione di Cinzia Montina)

 

Atmosfera tesa a poche ore dalla riunione per ridurre il deficit

 

Mancano poche ore all’incontro che si terrà alla Casa Bianca tra il presidente Obama e i leader del Congresso. Democratici e repubblicani dovranno decidere come ridurre in maniera drastica il debito Usa. Il segretario al Tesoro Usa Timothy Geithner ha assicurato i leader del Congresso che lui e il presidente Barack Obama sono impegnati per raggiungere «il più ampio accordo possibile» sulla questione del debito. In un’intervista alla Nbc ha sollecitato i repubblicani all’intesa sull’innalzamento del tetto del debito per scongiurare in via definitiva il rischio di default. Pericolo che, ha chiarito Geithner, per gli Stati Uniti non c’è. Secondo Geithner non c’è motivo di dare al Congresso altro tempo per decidere. Deve rimanere il termine ultimo del 2 agosto. Ha poi ricordato che un downgrade del debito operato dalle agenzie di rating provocherebbe «un danno catastrofico» all’economia. Geithner ha smentito le voci relative alle sue dimissioni dopo l’accordo e ha spiegato che resterà nell’amministrazione Obama per «il prossimo futuro».

Intanto il clima si fa sempre più incandescente. Mentre i negoziati tra democratici e repubblicani sull’aumento del tetto del debito sono giunti in fase stan-by, il direttore generale del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde ha lanciato l’allarme: intervenuto nel corso di un’intervista alla trasmissione “This Week” della televisione statunitense ABC, ha ricordato che un default nei pagamenti degli Stati Uniti sulle obbligazioni legate al loro debito avrebbe “conseguenze gravissime” per lo stesso Paese e per il resto del mondo.
La sensazione è che un accordo ampio sul debito sia impossibile senza un aumento delle tasse. Per adesso i repubblicani tornano sui propri passi e mirano a un accordo ridimensionato sui 2.000 miliardi di dollari di tagli in dieci anni invece dei 4.000 miliardi di dollari previsti. Lo speaker della Camera, John Boehner, ha annunciato un intesa limitata: i repubblicani cercheranno un accordo di portata inferiore alle stime. «Nonostante gli sforzi per raggiungere un terreno comune – ha affermato – la Casa Bianca non cercherà un accordo ampio sulla riduzione del deficit e del debito senza un aumento delle tasse. Ritengo per questo che sia meglio concentrarsi su misure più limitate».

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