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Ventiquattrr’ore di un anno da cani

La crisi globale è qui. Non è mai passata. Chi asseriva il contrario – non so perché ma mi vengono in mente i nomi di Giavazzi e Alesina – mentiva per l gola, ingannava l’opinione pubblica spingendola ad accettare misure “impopolari” ma soprattutto utili solo per gli speculatori stessi.

C’era stata una tregua, dopo il 2008-2009, quando l’intervento degli stati ha iniettato migliaia di miliardi di dollari, sterline, euro, yen nel sistema finanziario – banche, assicurazioni, società ombra e fetenti vari – per “salvare il mondo” dal tracollo. Peccato che questo intervento – definito allora da Joseph Stiglitz, ex capo della Banca mondiale (non poprio un comunista, insomma!), “socialismo per i ricchi” – in assenza di “nuove regole” (di cui s’è parlato a lungo senza vararne una sola di una qualche efficacia), s’è rivelato semplicemente un “trasferimento del rischio fallimento” dal sistema finanziario privato ai bilanci dei vari stati nazionali. Che addirittura gli Stati Uniti siano oggi alle prese con un rischio default dovrebbe pure significare qualcosa.

Solo un ideologo malmesso come Lorenzo Bini Smaghi, membro del comitato esecutivo della Bce, in uscita in seguito all’arrivo di Mario Draghi, può dire pubblicamente che «sui mercati la crisi dei debiti sovrani si è allargata ai titoli bancari. C’è un contagio diretto». Il debito globale è ormai una palla che rimbalza, ma in definitiva solo tra banche e stati. E solo uno che ambisce a esser nominato governatore della Banca dìItalia dal governo Berlusconi può aggiungere che «l’Italia non fallirà mai perchè è un Paese ricco». Sempre Bini Smaghi. Giudicatelo voi.

 

Di fatto oggi, al vertice dei ministri delle finanze europei, l’Italia è diventato l’oggetto principale della discussione. Anche se nessuno dei partecipanti l’ammetterebbe mai pubblicamente. Il problema è che la Grecia sta molto peggio, sul piano economico e finanziario. Ma conta solo per il 2% del prodotto interno lordo della zona euro. L’Italia pesa molto di più. Ogni sua destabilizzazione, anche minima, ha un effetto assai più pesanti. Forse defnitivi sulla tenuta della moneta unica. Ma “l’attacco” in corso non è davvero classificabile come un problema “minimo”.

Tanto per dirne una. Il fondo salva-stati europeo non sarebbe sufficiente a salvare l’Italia nel caso avesse bisogno di assistenza finanziaria. Lo ha sottolineato, parlando con il quotidiano tedesco «Die Welt», una fonte della Bce, per la quale sarebbe allora necessario raddoppiare i fondi in dotazione all’Efsf, arrivando fino a 1.500 miliardi di euro. «Il fondo di salvataggio esistente non è sufficiente per garantire un credibile muro difensivo per l’Italia», ha sottolineato la fonte, osservando come l’Efsf «non sia stato concepito per questo».

Sembra degno di interesse il fatto che a questo scopo non sia stato neppure nominato il nuovissimo “strumento” varato nel corso della stessa riunione. È diventato infatti da oggi realtà il nuovo “fondo salva stati permanente” dell’Eurozona, l’European Stability Mechanism (Esm). I ministri delle finanze dell’Eurogruppo hanno firmato il relativo trattato istitutivo poco prima dell’avvio della riunione del Consiglio. L’Esm sarà però operativo soltanto a partire dal primo luglio 2013, quando giungeranno a scadenza gli attuali fondi temporanei, l’European Financial Stability Facility (Efsf) e l’European Financial Stabilisation Mechanism (Esfm), attivati per il salvataggio di Irlanda e Portogallo. L’Esm sarà dotato di una capacità finanziaria effettiva pari a 500 miliardi di euro. Un terzo del minimo considerato necessario nel caso che il nostro paese venisse sottoposto a tensioni di grandissima intensità. Come l’attuale.

L’attacco ha però fatto reagire – per ora solo a parole – le istituzioni continentali contro le agenzie di rating statunitensi. Il loro oligopolio, secondo il commissario europeo alla Giustizia, Viviane Reding, non può continuare: o si «frammenta» il «cartello» dei tre giganti del settore, o si fanno emergere concorrenti «europei o asiatici». «L’Europa non può farsi mettere al tappeto da un cartello di tre imprese private americane», ha scadito la Reding, che poi ha aggiunto: «Io vedo due possibili soluzioni: o gli Stati del G20 decidono insieme di frammentare il cartello formato dalle tre agenzie. Per esempio, gli Stati Uniti potrebbero essere invitati a trasformare le tre agenzie in sei. Oppure si creano agenzie di rating indipendenti europee e asiatiche». Se non lo si fa subio, prima del diluvio ormai visibile, è solo chiacchiera.

 

La situazione è però talmente preoccupante che anche John Lipsky, vice-direttore generale del Fondo monetario internazionale, è stato presente al consiglio dei ministri finanziari dell’area euro. Dopo l’arresto di Dominique Strauss-Kahn lo scorso maggio, Lipsky ha svolto la funzione di direttore generale del Fmi fino all’arrivo di Christine Lagarde la scorsa settimana.

Tutte queste riunioni non hanno “tranquillizzato” nessuno: lo spread tra il Btp e il corrispettivo bund tedesco è volato al nuovo record storico di 300 punti.

Molto meno gentili, infatti, come da interessi specifici, i media statunitensi. «L’Italia ha bisogno di riforme strutturali. Negli ultimi 10 anni l’Italia ha beneficiato di rendimenti sui bond stile Germania che le hanno consentito di nascondere le deficienze economiche. Questi non torneranno. Un cambio è necessario e velocemente». Lo riporta il Wall Street Journal. «L’economia italiana è stata stagnante negli ultimi dieci anni. La produttività è negativa e l’economia italiana è un terzo meno competitiva di quella tedesca. Fino a quando l’Italia sarà nell’area euro e la Germania insisterà su un basso livello di inflazione interna, l’unica strada per l’Italia per tornare a essere competitiva è quella del resto della periferia dell’Europa, la deflazione. La deflazione e la conseguente austerity sono possibili in economie in cui i governi sono in grado di fare le regole e la gente le rispetta. Sfortunatamente non è l’Italia». Un quadro che non prevede vie d’uscita, dunque, e che serve ad alimentare ulteriori attacchi speculativi. Degno d’interesse, anche qui, il fatto che la deflazione (salari tagliati, welfare scomparso, potere d’acquisto sottozero, “ripresa” che te la sogni di notte ma non la vedi mai) sia esattamente la ricetta prevista – anche dalla Ue – per “rimettere in ordine i conti pubblici” fin qui sacrificati per “socializzare le perdite” della finana privata, quando è entrata in crisi.

 

Non sembra quindi insensato, anzi, per molti versi è una raffinata vendetta della realtà, il fatto che la crisi degli stati si trasferisca – con buona pace di Bini Smaghi e della classe politica italiana (l’opposizione del Pd è peggio che ridicola; tragica) – al sistema finanziario privato.

 

Vediamo quindi un’altra relazione pubblicata oggi da Comitato sul Sistema Finanziario Globale (Committee on the Global Financial System) della Bri, preparato da un gruppo di studio presieduto da Fabio Panetta della Banca d’Italia. L’aumento del rischio di credito sovrano, secondo questo studio, spinge in alto i costi e indebolisce la composizione della provvista delle banche tramite vari canali, riflettendo in tal modo il consistente ruolo dei titoli di Stato nel sistema finanziario.

Il rapporto esamina anche il rapporto tra il rischio di credito sovrano e le condizioni di finanziamento delle banche, il modo nel quale queste ultime reagiscono a una situazione in cui il rischio sovrano continua ad essere elevato e le implicazioni per le autorità politiche. Il rischio di credito sovrano, rileva il rapporto, costituisce già un problema significativo per le banche europee; negli anni a venire esso potrebbe avere implicazioni ancora maggiori per la stabilità finanziaria a livello globale.

Secondo lo studio le banche possono mitigare gli effetti di un aumento del rischio di credito sovrano modificando le proprie operazioni, anche tramite una maggiore diversificazione della composizione per paese del proprio “portafoglio sovrano” e il rafforzamento della composizione della raccolta.

Tuttavia, così facendo, le banche incorrono in soluzioni di compromesso (trade-offs) e non possono proteggersi completamente. I governi, dal canto loro, hanno bisogno di mantenere solide finanze pubbliche. Una contraddizione, anche questa senza via d’uscita indolore, ma che tutti i soggetti “decisori” cercano acora di risolvere a favore delle società private (in questo caso le banche).

Le autorità di vigilanza sul sistema bancario dovrebbero anche controllare attentamente l’interazione del rischio sovrano con la normativa regolamentare che incoraggiano le banche a detenere ampie quantità di debito pubblico. Le banche centrali potrebbero anche riflettere sull’opportunità di avere sistemi elastici per le garanzie che, durante crisi di severa entità, permettano il finanziamento a fronte di una vasta gamma di garanzie. Tuttavia, conclude il rapporto, ciò comporta dei costi e dovrebbe essere utilizzato con parsimonia e in presenza di adeguati meccanismi di sicurezza.

 

Sarà un caso, ma non sembra probabile, che oggi la Francia abbia deciso di imitare la Germania nella più assurda delle regole. Il ministro del bilancio francese, Valerie Pecresse, ha presentato infatti in Senato il progetto di legge sulla cosiddetta ‘regola d’orò, ovvero l’inserimento di vincoli di bilancio nella costituzione francese. La legge si dà come obiettivo di obbligare i governi, tramite una disposizione costituzionale, ad elaborare una traiettoria di bilancio per il ritorno al pareggio, che in Francia, ha ricordato la Pecresse, non si verifica da 35 anni. Ci sarà un motivo strutturale in questa “mancato appuntamento”. Ma basta ignorarlo e seguire i manuali ideologici di macroeconomia liberista (o, più concretamente, i “consigli” del settore finanziario privato francese). E quindi: «attraverso leggi quadro – ha spiegato il ministro davanti ai senatori – che copriranno almeno 3 anni, starà a ciascun governo di precisare il ritmo di ritorno all’equilibrio, impegnandosi su una data, e sulla natura e l’ampiezza degli sforzi che intende chiedere alla collettività nazionale per arrivarci». «Le maggioranze future, quali che siano – ha aggiunto – potranno costruire la propria strategia di bilancio. Ma all’orizzonte di questa, ci sarà un obiettivo intangibile, il ritorno all’equilibrio, il cui valore costituzionale sarà pienamente garantito e s’imporrà al potere esecutivo come al legislativo».

La Pecresse ha poi ricordato che sono numerosi i Paesi che hanno deciso di includere nelle proprie costituzioni una regola «dello zero deficit», a partire dalla Germania, che «ha deciso di completare la sua legge fondamentale, che già conteneva una regola di equilibro, inserendovi il divieto di votare un bilancio con un deficit strutturale superiore allo 0,35% del Pil, a partire dal 2016». Un’idiozia intellettuale – le condizioni dei mercati e dei bilanci pubblici cambano di contnuo, qualsiasi limite stabilito in modo arbitrario – come il rapporto deficit-Pil al 3% prescritto dagli accordi di Maastricht – è una line ascritta sulla sabbia, Ma che, costringendo gli stati a rispettarla fino a prova contraria, li espone come tordi legati per le ali alla fucileria della speculazione globale.

L’esatto contrario di quel che i ministri europei vorrebbero far credere con le loro “riunioni”.

 

 

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