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L’illuminante stranezza di Wall Street

In apertura di giornata sono stati resi pubblici alcuni dati macro.

Le vendite al dettaglio negli Usa in luglio sono aumentate a 390,4 miliardi di dollari, +0,5% rispetto al mese precedente. Rispetto a luglio 2010 l’aumento è dell’8,5%. Un dato “buono”, ma riferito all’anno che si è concluso. Roba passata, insomma.

L’indice di fiducia dei consumatori, misurato dall’Università del Michigan, è al contrario crollato a 54,9 ad agosto da 63,7 di luglio. È il livello più basso dal 1980. È la prima lettura e gli analisti avevano previsto un calo a quota 62. Un dato pessimo, e molto più “pesante” del primo perché misura le “aspettative” per i prossimi mesi.

Che ha fatto Wall Street? Prima è partita bene, poi si è corretta “interrogandosi sul significato del dato sulla “fiducia”, poi è ripartita verso l’alto. Per ragioni evidentemente “aliene” all’andamento dell’economia reale.

Nemmeno il sondaggio condotto dal Wall Street Journal ha cambiato questa “irrazionale euforia” (l’espressione fu pronunciata, oltre 10 anni fa, da Alan Greenspan, predecessore di Bernanke al vertice della Fed, quando vide che i listini salivano mentre tutto diceva che avrebbero dovuto scendere).

Sempre più forte negli Stati Uniti il rischio di una doppia recessione. Il Wall Street Journal ha ascoltato una cinquantina di autorevoli economisti sulle prospettive economiche del Paese dopo la travagliata vicenda del debito e il downgrade da parte di Standard&Poor’s che per la prima volta ha tolto la tripla A agli Usa. Dal sondaggio viene fuori come le probabilità di una seconda ondata recessiva entro i prossimi dodici mesi – dopo quella seguita alla crisi dei mutui subprime nel 2008 – sono salite al 29%, rispetto al 17% previsto solo un mese fa. Per molti degli economisti intervistati, poi, di fatto la recessione è già iniziata, colpa di una ripresa molto lenta (il Pil è cresciuto meno dell’1% nella prima metà dell’anno) e delle persistenti turbolenze sui mercati finanziari. Gli intervistati hanno rivisto al ribasso la crescita 2011 (1,6%) e nel 2012 (2,5%). Ma – secondo quanto emerge dal sondaggio – l’economia ha subito talmente tanti shock negli ultimi mesi che basterebbe un solo nuovo piccolo scossone per piombare nuovamente in recessione. Tutto ciò non può che riflettersi sulla già precaria situazione dell’occupazione. Le previsioni degli economisti sono tutt’altro che rosee: il tasso dei senza lavoro è infatti previsto salire al 9%, rispetto all’8,8% stimato in luglio.

Sullo stato delle società Usa vale la pena d leggere questo articolo dal giornale di Confindustria, che accenna solo di sfuggita al vero motivo per cui tutte le multinazionali stelle-e-strisce sono al momento gonfie di soldi liquidi: non investono più una lira, si tengono stretto il cash perché “prevedono” un terremoto e vogliono avere qualche ciambella di salvataggio cui aggrapparsi.

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Corporate Usa con mille miliardi di cash

Marco Valsania

 

NEW YORK. Dal nostro inviato
Quasi duemila miliardi di asset liquidi nei suoi bilanci, spesso in cash. Abbastanza, cioè, perché la Corporate America potesse da sola, volendo, farsi carico delle necessità dell’intero governo federale degli Stati Uniti per evitare un default senza bisogno di un innalzamento del tetto del debito federale. Fantapolitica, certo. Ma per dare le dimensioni di questo tesoro da record e degno di epopee hollywoodiane aggiungiamo anche la fantafinanza: con mille miliardi l’avanguardia delle aziende a stelle e strisce sarebbe in grado di lanciare offerte d’acquisto sui gruppi di mezzo mondo. Anche, all’ingrosso, sui nuovi colossi cinesi.
Senza bisogno di ricorrere all’immaginazione, le società americane, tolte le regine della finanza, hanno davvero accumulato straordinarie quantità di asset liquidi, tra cash e una varietà di strumenti a breve. Le stime, sulla base dei conti delle 500 principali imprese, vengono elaborate da società di analisi quali Standard & Poor’s come da banche quali Jp Morgan. E concordano: quest’ultima calcola i contanti nei forzieri aziendali in 1.058 miliardi, più che raddoppiati dai 410 miliardi del 2001. S&P dà stime di poco inferiori, oltre 960 miliardi. Una proporzione di cash quasi raddoppiata in dieci anni rispetto agli asset complessivi, sfiorando l’11 per cento.
Non finisce qui. Gli asset liquidi totali della Corporate America, questa volta calcolati dalla Federal Reserve nel suo ultimo rapporto sul flow of funds pubblicato in giugno, alla fine del primo trimestre 2011 hanno ormai raggiunto i 1.907 miliardi. Un anno fa erano “soltanto” 1.665 miliardi.
La traiettoria, oltretutto, potrebbe essere quella di una continua crescita del cash: i risultati trimestrali, grazie in particolare ai tagli dei costi, hanno continuato a mostrare impennate dei profitti che possono andare a gonfiare ulteriormente i suddetti forzieri. Ben il 73% delle società dello S&P 500 ha battuto le attese del mercato nel riportare la performance del secondo trimestre 2011. I profitti aziendali, a prova della loro marcia, rappresentano ormai il 13% del Pil, la percentuale più alta dal 1950, e hanno contato per l’88% della crescita economica nei 18 mesi dal giugno 2009.
Con simili performance alle spalle anche singoli protagonisti, al di là delle cifre aggregate, vantano forzieri ricolmi di liquidità: General Electric vanta 91 miliardi, Apple 76 miliardi, vale a dire più dei 74 miliardi di riserve in contanti del Tesoro statunitense a luglio. ExxonMobil ha 12,8 miliardi e Disney 3,1 miliardi.
L’accumulo di cash e affini ha però ormai raggiunto proporzioni tali da non suscitare solo più stupore per la solidità finanziaria delle corporation americane. Ha aperto anche un dibattito tra analisti e investitori quale sintomo di malessere. Troppo cash senza chiare destinazioni, temono i critici, potrebbe prima o poi incoraggiare nuovi rischi.
I forzieri pieni, inoltre, sono un’arma tradizionalmente dai molteplici usi: l’acquisto di rivali, l’investimento in innovazione e progetti di espansione e la creazione di scudi anti-crisi in attesa di tempi migliori. Non più adesso: la cautela è parsa la ragione di gran lunga dominante per aumentare il cash negli anni dopo la recessione e la bufera sul credito del 2008. Il problema è che la prudenza resta anche oggi al centro delle preoccupazioni aziendali, oltre due anni dopo. L’accordo politico sul debito statunitense, anche finalizzato, lascerà comunque aperti interrogativi e incertezze sui suoi dettagli e la sua messa in pratica. Mentre l’economia ha ripreso a soffrire nella prima metà dell’anno, crescendo soltanto dello 0,8% in sei mesi e minacciando di lasciare le imprese scettiche e sempre più attaccate al cash.

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Sull'”autofagia” dei prodotti finanziari derivati in questa fase…

La Borsa non segue più i BTp

di Morya Longo

Crollano le Borse, aumenta il costo per assicurarsi contro il default degli Stati, sprofondano le banche. Ma i titoli di Stato, specialmente quelli italiani, reggono: ieri lo spread sui Bund è rimasto sostanzialmente stabile sui 290 punti base, ben lontano dai 400 di settimana scorsa. Il motivo è banale: il mercato dei titoli di Stato è ‘drogato’ dai primi acquisti da parte della Banca centrale europea, mentre tutti gli altri mercati restano a briglie sciolte. L’effetto è altrettanto banale: non potendo vendere BTp italiani o bond di altri Paesi in crisi (almeno per ora è meglio non andare contro la Bce), gli investitori vendono tutto il resto. Scaricano le tensioni su altri settori: banche, credit default swap, bond bancari e aziendali. La conseguenza finale, però, è potenzialmente pesante: il rischio è che la manovra della Bce sui titoli di Stato in crisi dia un mini-sollievo ai Paesi come l’Italia, ma non cambi nulla nell’umore dei mercati. Insomma: il rischio è che alla fine si riveli inefficace. Niente più di un fuoco di paglia.

Lo spread balla da solo
L’anomalia è ben evidente se si confronta l’andamento degli spread (cioè dei differenziali tra i rendimenti dei titoli di Stato di vari Paesi e i Bund tedeschi) e il movimento dei credit default swap (le polizze assicurative contro il rischio-Stati). In teoria dovrebbero muoversi insieme, dato che entrambi gli indicatori salgono più uno Stato soffre. Ma questa settimana non è stato così. Prendiamo il caso italiano. Rispetto a venerdì scorso, prima dell’annuncio da parte della Bce di acquisti sui BTp, lo spread Italia‐Germania si è ristretto a passi da gigante: era sopra i 400 punti base ed è sceso a 290. A guardarlo, si direbbe che la situazione sia molto migliorata.

Peccato, però, che i credit default swap siano oggi più o meno sugli stessi livelli (364 punti base i decennali) di venerdì scorso: qui il miglioramento non si vede affatto. E non si vede neppure in Borsa, dove l’indice di Piazza Affari da venerdì ha bruciato l’8,36%. Né nel settore bancario, con istituti come Intesa Sanpaolo o UniCredit in caduta di circa il 10%. E anche in alcuni altri Paesi si può trovare un fenomeno simile. La Francia ha per esempio i credit default swap quinquennali a 172 punti base, in crescita rispetto ai 143 punti base di venerdì scorso. Ma gli spread tra i suoi titoli di Stato e i Bund sono ben più bassi: 88 punti base, solo in lieve aumento rispetto a venerdì. E anche qui la Borsa è crollata in pochi giorni dell’8,4%.

L’effetto a catena
Come leggere questi dati non è semplice, dato che spesso il mercato dei credit default swap si è rivelato volatile e basato su bassi volumi. Ma, comunque, il messaggio sembra evidente: sul mercato dei titoli di Stato (soprattutto quello italiano) c’è una calma irreale, dovuta esclusivamente agli acquisti effettuati e annunciati dalla Bce. Insomma: il mercato è drogato. Dunque, poco significativo per capire cosa pensino gli investitori. Questi ultimi stanno infatti andando a scaricare titoli altrove: a partire dalla Borsa.

Quello che si è innescato è un vero e proprio effetto a catena. Gli investitori (piccoli e grandi) non si fidano più, hanno paura: dunque vendono ciò che, a loro avviso, scotta. Se evitano di scaricare titoli di Stato italiani e spagnoli, si riversano sulle Borse (che sono tradizionalmente il mercato più liquido) e in tutti gli altri settori. Poi comprano ciò che ritengono sicuro: Bund tedeschi, T-Bond Usa e oro.

11 agosto 2011

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I paradossi della fuga verso i porti sicuri

Morya Longo

Li chiamano beni rifugio: sono oro, titoli di Stato americani e tedeschi, franchi svizzeri. Sono gli ‘ombrelli’ sotto cui tutti cercano di ripararsi quando sui mercati finanziari infuria la bufera. Ma cosa succede se troppi investitori si riparano sotto pochi ‘ombrelli’? Ovvio: si bagnano comunque.

Questo è il rischio oggi: le quotazioni di oro, titoli di Stato americani, Bund tedeschi e franchi svizzeri hanno infatti raggiunto livelli tali – per effetto della super domanda di orde di investitori presi dal panico – che ormai è diventato quasi paradossale acquistarli. Eppure tutti li comprano ugualmente: perché gli investitori non sanno cos’altro fare per ripararsi dalla bufera e perché altri mercati (per esempio quelli dei titoli in dollari australiani o canadesi) sono troppo piccoli per soddisfare tutti. Morale: tutti vanno sotto gli stessi ‘ombrelli’. Senza rendersi conto che ha sempre meno senso.

Il paradosso più eclatante è quello dei titoli di Stato americani. Gli Stati Uniti hanno perso il rating di ‘Tripla A’, hanno un debito pubblico in versione extra-large (vicino al 100% del Pil), hanno sfiorato addirittura il default tecnico poche settimane fa. A ben guardare, una situazione del genere suggerirebbe di vendere i loro titoli di Stato. Perché non sono certo affidabili come un tempo. Eppure tutti li comprano come mai avevano fatto: i rendimenti dei Treasury a due anni sono infatti al minimo storico da tempo. Ieri stavano allo 0,18%. I tassi d’interesse dei titoli brevissimi, a tre mesi, ultimamente hanno addirittura toccato punte sotto zero: questo significa che chi li compra non solo non ottiene un rendimento, ma anzi paga. Come si paga una cassetta di sicurezza dove mettere i soldi: questo sono ormai i titoli di Stato Usa a breve termine. Cassette di sicurezza. Garantite dalla Fed che terrà i tassi a zero per due anni. Ma in barba al super-debito e al mal di rating.

Sui titoli di Stato tedeschi si possono trovare paradossi simili. La Germania è certamente il Paese più forte d’Europa ma, essendo europeo, la grande crisi non può lasciarla indifferente: non a caso i credit default swap di Berlino, quelle polizze assicurative che misurano il rischio di ogni Paese, sono arrivati a 87 punti base. Segnale che qualche rischio crescente c’è anche qui. Eppure i titoli di Stato tedeschi, indubbiamente tutt’ora campioni di affidabilità, offrono rendimenti così bassi che rasentano ormai il ridicolo: quelli con scadenza biennale rendono lo 0,65%, cioè meno di quanto la Banca centrale europea remunera i depositi bancari (0,75%). Insomma: c’è chi per parcheggiare i soldi per due anni sui titoli tedeschi accetta tassi d’interesse più bassi di quelli che qualunque banca ottiene depositando contanti per una notte presso la Bce.
E che dire dell’oro? La domanda è così forte che di paradossi ne ispira a decine. Il metallo giallo ha per esempio superato le quotazioni del platino: evento rarissimo nella storia (se non altro perché il platino è più scarso e usato nell’industria) che, solitamente, viene interpretato come un segnale di ‘bolla’ speculativa. L’oro costa così caro che la Zecca americana è stata per la prima volta costretta a sospendere le aste online di monete d’oro commemorative, perché il loro pezzo ‐ che viene aggiustato solo ogni tanto ‐ si era addirittura trovato sotto quello dell’oro grezzo: invece, avendo anche un valore numismatico, dovrebbero valere di più del materiale con cui sono fatte.
Parlare di nuove ‘bolle speculative’, in un momento di panico come questo, è sicuramente eccessivo. Parlare di irrazionalità sarebbe un eufemismo. Certo è che queste quotazioni sono paradossali: effetto del disperato bisogno di rifugio. Di quello che gli inglesi chiamano «flight to quality», «volo verso la qualità». Ma anche qui i rischi non mancano: il vento potrebbe cambiare da un momento all’altro e spiazzare gli investitori. I beni rifugio sono come il Dottor Jekyll e Mr Hide: li compri un giorno perché ti sembrano rassicuranti, ma il giorno dopo possono cambiare faccia…

12 agosto 2011

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