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La borsa è zona di guerra

da “il manifesto”

 

Francesco Piccioni
Mercati. Il temuto «double dip» – la seconda recessione, che trasformò il 1929 in un incubo planetario – sembra davvero essere alle porte
La borsa è zona di guerra
Crollano nello stesso momento e nella stessa misura tutte le piazze mondiali. Voci confermate di «difficoltà» crescenti nei prestiti tra le banche e dati pessimi sull’economia reale usa affossano ogni tentativo (vedi Merkel e Sarkozy) di alzare una diga contro il panico

 

Una giornata tremenda sui mercati. Sembra una notizia già sentita, ed è vero. Ma qui la ripetizione non annoia, perché i crolli in serie si sommano e modificano lo scenario globale.

Era cominciata maluccio, con le piazze europee in difficoltà sui titoli bancari (penalizzati – molto – dai timori sui debiti sovrani dell’area e – poco – dalla volontà di tassare le transazioni finanziarie espressa da Sarkozy e Merkel), ma pesanti soprattutto sui due pilastri dell’economia reale: auto e costruzioni. Più che ai listini si guardava alle notizie, cercando conferma o smentita a voci incontrollabili che parlano di un nuovo «blocco creditizio» in gestazione. L’esperienza del 2008-2009 è troppo vicina per non far tremare chi «sui mercati» ci opera tutti i giorni. Allora era successo l’impensabile, sull’onda del crollo di Lehmann Brothers: le banche avevano smesso di prestarsi i soldi vicendevolmente e, a maggior ragione, alla clientela «normale», aziende comprese. Innescando quindi una gelata nell’attività produttiva «reale».
La conferma si faceva strada presto: una banca europea, il giorno prima, ha chiesto un prestito di 500 milioni di dollari alla Bce, da restituire in una settimana. Operazione normale tranne che per un fatto: il tasso di interesse che la Bce applica è dell’1,1%, molto più alto del tasso interbancario (la base dell’Euribor). Se quella banca si è rivolta alla Bce, quindi, significa che non ha trovato un’altra banca disposta a prestarglieli. Il nome resta sconosciuto, ma è il segnale di «difficoltà» nella fiducia tra istituti di credito. Un’altra banca, la settimana prima, aveva fatto ricorso al cosiddetto «Bancomat caro» della Bce – il marginal lending facility – per chiedere 4 miliardi di euro. E due punti fanno una linea; il problema c’è. Non era finita. La Federal Reserve americana sta monitorando le filiali Usa delle banche europee per verificarne la capacità di finanziamento (in dollari, non a caso) per effettuare regolarmente la propria attività sul territorio statunitense.
Bastava questo per fare crollare le borse europee nell’ordine del 3%, in media; con Milano come sempre più «volatile» di tutte. Ma era poi lo stillicidio di pessimi dati macro Usa a dare un tocco di tragedia a una giornata difficile. Le vendite di case esistenti è sceso ancora, a luglio, del 3,5%. Le richieste di sussidio di disoccupazione sono aumentate di nuovo oltre le 400.000 solo la scorsa settimana, portando la cifra totale dei «sussidiati» a 3,7 milioni. L’inflazione a luglio è salita dello 0,5%, più delle previsioni. E infine l’indice di Filadelfia, che misura lo stato dell’industria manifatturiera è stramazzato dal +3,2 di luglio al -30,7 di agosto. Una «gelata» fuori stagione che diventa l’identikit dell’America.
Wall Street apriva con un tonfo tra il -4 (il Dow Jones) e il -5% (il Nasdaq) e non riusciva a risalire – se non di frazioni – per tutto il pomeriggio. L’Europa cedeva di schianto, raddoppiando le perdite (Francoforte -5,9, Parigi – 5,5, Milano -6,15) e «bruciando» quasi 300 miliardi di capitalizzazione. I titoli della Cnn farebbero impallidire un catastrofista convinto: «È zona di guerra», «Il bagno di sangue dei titoli tech», «Pericolosamente vicini alla recessione».
E – al di là delle oscillazioni quotidiane dei listini – la questione è esattamente questa: il temuto double dip (la seconda recessione, che trasformò il 1929 in un incubo planetario) sembra davvero alle porte. Senza che nulla sia cambiato rispetto al «credit crunch» del 2008. Di fatto, gli Stati sono stati mobilitati per «salvare il sistema finanziario»; per farlo hanno distrutto i propri bilanci, gonfiando oltre misura il debito pubblico mentre tagliavano disperatamente la spesa sociale per «reperire risorse». Al termine di questa prima ondata di tagli, il sistema finanziario ha ringraziato e ricominciato a praticare il «solito vecchio gioco» e la pura speculazione; di regolamentazione globale della finanza si è smesso persino di parlare (Draghi ci scuserà, ma la sua presidenza del Financial Stability Forum non ha lasciato alcun risultato tangibile). Ora tutto tende a bloccarsi di nuovo. Gli Stati non sono però più una risorsa di denaro fresco, ma una parte del problema. Per questo le misure avanzate da Merkel e Sarkozy non avrebbero potuto «rassicurare i mercati» neanche se fossero state cento volte più intelligenti.
Il sistema finanziario globale sta affrontando la fase del deleveraging, in cui si sgonfia progressivamente l’effetto «leva» della presenza di un sistema bancario «ombra», fatto di prodotti derivati, cds, abs, cdo e quant’altro. Questa massa di denaro virtuale è tale (600.000 miliardi di dollari, 10 o 12 volte il Pil mondiale) da non poter essere contrastata da nessuna misura atta a «salvare le banche». Forse nemmeno se si reintroducesse – in tutto il pianeta – il principio guida del Glass-Steagall Act, imposto nel dopoguerra: gli Stati possono garantire le banche commerciali (l’attività di raccolta e prestito su garanzia), non quelle «d’affari», lasciando affondare queste ultime prima che trascinino all’inferno l’umanità.
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Tommaso De Berlanga
CHI TOCCA IL RATING MUORE
Negli Stati uniti si aprono tre indagini per «spezzare le reni» a Standard&Poor’s
Comunque vada, sembra ormai rotto il «termometro» che fin qui ha testato la solidità del debito pubblico e privato

 

Scherza con i fanti, ma lascia stare i fanti. Gli Stati Uniti – dopo il declassamento del giudizio sul proprio debito pubblico – hanno dichiarato guerra a Standard&Poor’s, finora l’unica agenzia (oltre all’intoccabile Dagong, cinese) ad aver tolto la «tripla A» ai treasury Usa.
In nemmeno 15 giorni ben tre inchieste sono state aperte da vari organismi statunitensi. Aveva iniziato il Congresso, ma l’iniziativa era stata considerata più propagandistica che reale. Ora però ha aperto un fascicolo il Dipartimento di giustizia – rivela il New York Times – per verificare se ci sia stato «conflitto di interesse» nel caso dell’assegnazione di giudizi molto positivi, ancora nel 2008, a una massa consistente di titoli rivelatisi «tossici» di lì a pochi giorni, contribuendo a ingigantire la crisi del 2008 (l’azienda più famosa è Lehmann brothers, banca d’affari giudicata «sicura» mentre già gli impiegati riempivano gli scatoloni per andarse a casa definitivamente).
La voce da verificare è se diversi analisti dell’agenzia siano stati o no convinti a modificare i propri giudizi da «pressioni» del management di S&P. La questione non è di poco conto, perché il ruolo di «termometro» della febbre finanziaria assunto nei fatti dalle tre agenzie di rating (tutte Usa) a livello planetario regge se viene confermata l’assoluta autonomia degli analisti. Se invece – come da sempre si sospetta senza mai trovare però la smoking gun – si dimostra che le analisi sono orientate dagli interessi della proprietà (per esempio, Warren Buffett ha avuto per anni quasi il 20% di Moody’s), la credibilità ne uscirebbe annientata. E molte misure restrittive prese dai governi di mezzo mondo si rivelerebbero una scelta da gonzi (o complici), che portano i redditi dei propri cittadini in dote ai vampiri.Soprattutto, se fossero trovate prove, potrebbero a quel punto scattare cause legali di ogni tipo; che seppellirebbero S&P sotto le richieste di risarcimento.
Non basta. Una terza inchiesta – riporta invece il Financial Times – è stata aperta dalla Sec (il cugino potente della nostra Consob), autorità che vigila su Wall Stree e le agenzie di ranting. In questo fascicolo sono indagate anche Moody’s e Fitch (che proprio ieri ha cercato di limitare i danni confermando agli Usa la «tripla A» con «outlook stabile»). L’ipotesi di reato è l’insider tranding, ovvero l’utilizzo di informazioni riservate per speculare in borsa). Non si sa se tra gli episodi sotto esame ci siia anche il downgrade del secolo, ma intanto la Sec ha chiesto la lista dei dipendenti al corrente della decisione prima che venisse resa nota. Difficile pensare che qualcuno di loro abbia comprato o venduto titoli su cui stavano «lavorando», perché sarebbe troppo facile incastrarli. Ma in fondo basta «soffiare» la notizia a qualcuno che ti possa esser molto riconoscente.
Comunque vada, è innegabile che questa raffica di indagini sia una conseguenza diretta del downdrade del debito, e che l’amministrazione usa abbia in qualche modo «incentivato» la loto apertura. D’altro canto, le agenzie di rating hanno dimostrato troppo spesso una grande inaffidabilità di giudizio; o addirittura una vera e propria cecità di fronte ai problemi (noti) di imprese statunitensi importanti, per non dire del debito pubblico. Difficile, dopo, affidare loro il ruolo di «termometro» obiettivo. Ma un problema c’è anche per il «grande malato» dell’economia globale, gli Usa: rompere il termometro – per quanto difettoso – non è mai il modo migliore di inziare una terapia.
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Michelangelo Cocco PECHINO
Il crackDopo lo storico declassamento del rating del loro debito, gli Usa devono discutere con il loro principale creditore USA-CINA Il vicepresidente Biden a Pechino in visita ufficiale. La crisi al centro
Prove di raffreddamento

 

PECHINO
La terza volta di Joe Biden a Pechino è quella più difficile. Il vice presidente degli Stati Uniti ci era già stato nel 1979, quando l’allora giovane senatore democratico aveva potuto osservare da vicino le riforme di Deng Xiaoping, e nel 2001, l’anno di un duro braccio di ferro su Taiwan con l’amministrazione Bush. Ma la visita ufficiale cominciata ieri con l’incontro con il suo omologo cinese Xi Jinping arriva all’indomani della perdita della tripla A per i bond a stelle e strisce decretata da Standard & Poor’s e deve riuscire a rinsaldare i rapporti tra due governi in un momento in cui quello cinese ha qualche ragione per non fidarsi della controparte.
Con Hillary Clinton che molto probabilmente non cercherà un secondo mandato da Segretario di Stato, in caso di rielezione di Obama potrebbe essere proprio Biden, eletto al Senato per la prima volta nel 1972, a gestire i rapporti con la Cina che si avvia, l’anno prossimo, a incoronare Xi come capo del Partito comunista (Pcc) e poi, nel 2013, presidente della Repubblica.
Al centro di un viaggio insolitamente lungo (Biden è arrivato l’altro ieri sera e ripartirà lunedì prossimo) ci saranno i temi legati alla crisi dell’economia americana. Il dipartimento del tesoro Usa aveva pianificato di emettere, tra marzo scorso e giugno 2012, buoni del tesoro per un valore di 10 miliardi di dollari ogni mese. Dopo lo storico declassamento del rating del loro debito, gli Stati Uniti devono discutere con la Cina, che con 1,16 trilioni di dollari in treasury bond è il loro principale creditore. La stampa ufficiale nei giorni scorsi aveva accolto con rabbia la decisione del Congresso di alzare il tetto del debito Usa. I leader di Pechino erano rimasti in silenzio. Ora tocca a loro, a porte chiuse, parlarne con Biden. Il rafforzamento delle relazioni tra Cina e Stati Uniti «si adatta non solo agli interessi dei due paesi, ma anche a quelli del mondo intero» ha dichiarato il vicepresidente cinese. «Viste le nuove circostanze – ha affermato Xi – Cina e Stati Uniti condividono ancora di più ampi interessi e responsabilità comuni». E Biden: «Sono sicuro che la stabilità economica del mondo dipenda in buona parte dalla cooperazione tra Stati Uniti e Cina». Nel momento in cui si parla con sempre maggiore insistenza di una nuova recessione, il paese più indebitato del mondo e quello che vi ha investito il 70% delle proprie riserve estere navigano entrambi in acque agitate.
Come a voler raffreddare il sentimento anti-cinese di alcuni settori del Congresso Usa, a Washington è stato appena pubblicato un rapporto della consiglio d’affari Usa-Cina che evidenzia l’aumento delle esportazioni statunitensi nel paese che (dopo Canada e Messico) è il terzo mercato per l’export degli States. «Nel 2010, le esportazioni verso la Cina sono aumentate del 32%, più rapidamente di quanto siano cresciute quelle verso qualunque delle cinque principali destinazioni dei prodotti americani» sottolinea il documento. Da quando nel 2001 la Cina è entrata nell’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto), l’export Usa verso la Cina è cresciuto del 468% ma resta il fatto che l’anno scorso gli Usa hanno importato dalla Repubblica popolare prodotti per 364 miliardi di dollari e hanno accumulato un deficit commerciale record pari a 273 miliardi. E, in percentuale, gli Usa perdono quota, essendo le importazioni della Cina dagli Usa passate dal 10% del totale nel 2001, al 7% attuale.
Nei giorni scorsi ha assunto l’incarico il nuovo ambasciatore statunitense a Pechino: si tratta di Gary Locke, primo sino-americano a ricoprire questo ruolo, nonché ex ministro del commercio di Obama. La tutela e la promozione delle aziende statunitensi nel mercato cinese saranno tra le sue priorità.
C’è poi la questione di Taiwan, o meglio delle armi che ogni anno gli Stati Uniti vendono all’isola dove nel 1949 si rifugiarono i nazionalisti del Kuomintang sconfitti nella guerra civile e che per la Repubblica popolare è parte integrante del suo territorio. Il prossimo 1 ottobre – in coincidenza con l’anniversario della fondazione della Repubblica popolare – Washington annuncerà davvero la vendita a Taipei di caccia F-16 rischiando di far infuriare Pechino? Intanto – secondo l’agenzia ufficiale Xinhua – ieri Biden avrebbe riconosciuto che Tibet e Taiwan sono argomenti di interesse totale ed esclusivo della Cina. «Gli Stati Uniti appoggiano fermamente la politica di una sola Cina e non sosterranno l’indipendenza di Taiwan – avrebbe detto il vice di Obama – e riconoscono totalmente che il Tibet è una inalienabile parte della Cina». Jacques Delors «L’Europa e l’euro sono sull’orlo di un precipizio». Lo ha detto l’ex presidente della Commissione europea, Jacques Delors, in un’intervista al quotidiano elvetico Le Temps, sottolineando che per gli stati membri è fondamentale avere una cooperazione economica più stretta. Delors considera un eventuale ministero europeo delle finanze «un dispositivo folle», e ha spiegato che una semplice collaborazione tra i Paesi negli affari economici non porterà a nulla se non si ha la volontà di cedere un pò di sovranità nazionale.
PAUL KRUGMAN L’Italia e la Spagna possono superare la crisi dei debiti sovrani se non si faranno prendere dal panico, secondo il Nobel all’economia. «Ci sono Paesi che probabilmente riusciranno a sopravvivere se il panico non avrà il sopravvento e quei paesi sono l’Italia e la Spagna». «Ce ne sono altri che sono fondamentalmente insolventi e avranno bisogno di una ristrutturazione del debito e questi Paesi sono Grecia, Irlanda e Portogallo», ha aggiunto il Premio Nobel, sottolineando poi che «sono molto basse le probabilità di una uscita dall’euro dell’Italia».
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da Il Sole 24 Ore

L’eterno ritorno dell’identico copione europeo non rassicura i mercati (e gli europei)

L’eterno ritorno dell’identico copione europeo non rassicura i mercati (e gli europei)
Come ha spiegato Lucrezia Reichlin sul Corriere della sera di oggi, “ancora una volta i tempi della politica e quelli dell’economia sembrano non coincidere”. Soprattutto in Europa. Ogni volta che sui mercati o su qualche debito sovrano soffia vento da tempesta perfetta che si fa? Si convoca un vertice, meglio ancora se “straordinario” e “d’urgenza”. Si creano cosi’ aspettative salvifiche e da annuncio di arma fine di mondo contro la crisi, ma poi si partorisce un documento generico, che dovra’ essere approfondito nei dettagli nei mesi a venire, con corredo di conferenza stampa in cui dire, come hanno fatto buoni ultimi il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy, che serve un governo dell’euro, che insomma bisogna creare davvero l’unione politica per sostenere quella monetaria. Tutto giusto, giustissimo, sacrosanto, talmente giusto che lo si ripete tutte le volte che serve senza poi davvero realizzare il progetto, frustrando cosi le speranze e i mercati.
L’unione politica non si proclama, si fa, con gesti concreti, vertice dopo vertice, possibilmente non straordinari.
Qual e’ infatti la soluzione trovata da Parigi e Berlino per dare un governo all’euro? L’istituzione dell’ennesima riunione dell’ennesimo consiglio guidato dal “carismatico” e gia’ molto efficace – chiedo scusa per l’ironia al limite del sarcasmo – presidente Van Rompuy. Non sono le riunioni a rassicurare i mercati ma le decisioni chiare, nette e rapide. Invece l’Europa di oggi e’ un continuo divenire, e in parte e’ naturale sia cosi’, che non da’ certezze e regole e punti di riferimento chiari.
Dei piani di salvataggio della Grecia si e’ perso il conto (e il calcolo delle risorse stanziate) e comunque si sta ancora lavorando ai dettagli dell’ultima versione annunciata a inizio luglio e pronta forse a fine settembre.
Per non parlare del fondo salva stati che ha un numero di versioni possibili e di interpretazioni tali da superare la quantita’ di paesi dell’Ue. Eurobond si’, no, forse. Adesso si minaccia perfino il taglio dei fondi ai paesi che non rispettano le regole europee. L’idea non sarebbe male in termini di rispetto della regola dell’azzardo morale e di responsabilizzazione dei governi, se solo non rischiasse di spaccare definitivamente l’unione in ricchi contro poveri, buoni contro cattivi, simpatici contro antipatici. E se solo non sembrasse paradossale tagliare i fondi a chi ne ha più bisogno. E se solo tutti, anche paesi forti come Germania e Francia, non avessero mandato in soffitta i parametri del patto giustamente definito stupido da Romano Prodi quando faceva comodo (anche a loro).
Il moltiplicarsi di consigli e organi e riunioni serve solo a moltiplicare i luoghi dove discutere senza riuscire a decidere perche’ gli stati e i governi nazionali, proclamando a parole che serve un governo dell’euro, poi alimentano nei fatti i contrasti tra interessi nazionali, in una riedizione velleitaria e almeno in parte ridicola di antiche grandeur e controproducenti nazionalismi, come denunciano da anni leader veramente federalisti europei come Marco Pannella.
Servirebbero meno riunioni, meno piani fumosi, più regole chiare, decisioni nette, un vero piano per gli eurobond, un governo dell’euro o almeno un mister euro carismatico abbastanza da poter rispondere senza problemi al telefono quando chiama Kissinger o chi per lui. E’ pretendere troppo?
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da Repubblca, un pregevole perzo di Federico Rampini

Obama e la Ue non frenano l’emorragia. Inizia il lungo inverno dell’economia

I pessimi dati sulla crescita di Brasile e Germania e i bassi rendimenti dei titoli di Stato, tutti indicatori di una possibile recessione, spingono aziende e consumatori a proteggersi. L’economia è di nuovo a rischio, nonostante le assicurazioni del presidente Usa e di Van Rumpuy

di FEDERICO RAMPINI

 

“L’AMERICA non ricadrà nella recessione”, promette Barack Obama. “Non ci sarà recessione in Europa”, gli fa eco un certo Herman Van Rompuy che porta il titolo ambizioso di presidente dell’Unione. Due smentite fanno una conferma? Sulle Borse in caduta pesano i bollettini catastrofici che arrivano dall’economia reale.

Il Brasile segnala per la prima volta da anni una decrescita (meno 0,2% il Pil del trimestre), la Germania si sta arenando: è la fine di due “miracoli” gemelli, un gigante emergente e la più solida delle vecchie economie industrializzate.

Due macchine da guerra dell’esportazione, che non possono crescere se i loro mercati di sbocco sono fermi. Primo fra tutti quello americano, dove in un sol giorno arrivano dati pessimi sulla disoccupazione Usa che risale, le vendite di case sempre più giù, la produzione industriale in sofferenza su tutta la East Coast.

Che la recessione sia alle porte lo dice un altro indicatore attendibile: i rendimenti dei titoli pubblici precipitano, per effetto di una corsa verso investimenti tornati improvvisamente “sicuri” (in mancanza di meglio). Ecco il Bund tedesco decennale al 2,17%. Il Treasury bond americano a dieci anni scende addirittura sotto il 2%. Più basso di così c’è solo il titolo del Tesoro giapponese, all’1%, e non a caso si tratta di un paese dove la crescita è sparita ormai dagli anni Novanta.

Quei tassi lanciano un messaggio all’unisono: per accettare dei rendimenti così bassi gli investitori non vedono né inflazione né crescita all’orizzonte. Prestare i propri soldi allo Stato – almeno a questi tre: Germania Stati Uniti Giappone – è metterli in cassaforte preparandosi a un lungo inverno. Questa corsa ai buoni del Tesoro decennali americani è una nuova smentita della Standard & Poor’s, del suo “downgrading” che metteva in cima ai problemi del momento la salute del debito pubblico degli Stati Uniti.

Per una beffarda coincidenza, il vero schiaffo che S&P riceve dai mercati giunge nello stesso giorno in cui il Dipartimento di Giustizia di Washington apre un’indagine su quest’agenzia di rating. L’inchiesta è sacrosanta, riguarda le gravi responsabilità di tutte le agenzie di rating che per incompetenza, collusione e conflitti d’interessi regalarono la “tripla A” ai titoli tossici che contenevano crediti inesigibili sui mutui subprime. Una vicenda criminale ma vecchia ormai di quattro anni; ricordarsi solo ora dei danni enormi creati da quei rating truccati ha il sapore di una rappresaglia dell’Amministrazione Obama dopo l’onta del declassamento.

Acqua passata, anche se il problema del debito costringe Obama a mandare a Pechino il suo vicepresidente Joe Biden, in una delicata missione presso il “creditore sovrano” degli Stati Uniti. Biden incontra Xi Jinping, anche lui vicepresidente, ma soprattutto erede al trono di Hu Jintao, destinato al comando supremo della Repubblica Popolare. Questa visita a Pechino in un momento di massimo allarme sui mercati globali “fotografa” un’impasse senza risolverla. Biden registra dal suo interlocutore Xi la preoccupazione più grave che assilla il governo cinese: lo spettacolo di totale assenza di leadership in Occidente. Perfino nel 2008, all’apice della grande crisi sistemica, sul versante politico la reazione fu migliore di quella attuale. Nel 2008 e 2009, tra il piano Paulson salva-banche e i vari summit G8 e G20 promossi da Gordon Brown e poi Obama, si ebbe il tentativo di costruire una regìa, un abbozzo di global governance per trainare l’Occidente fuori dalla tempesta perfetta.

Oggi, neanche quello. Perfino una mossa a lungo auspicata e sollecitata come la rivalutazione del renminbi, diventa un’arma a doppio taglio. Per anni l’Occidente chiese alla Cina di fare la sua parte per sanare i macro-squilibri globali, rivalutando la moneta per importare di più. Il gesto di allargare la banda di fluttuazione del renminbi, annunciato a Pechino, oggi ha un sapore ambiguo. Può accelerare il deprezzamento congiunto di dollaro ed euro, la corsa verso beni rifugio come l’oro, in ultima istanza il disordine monetario può aggiungersi al pericolo di recessione e aggravarlo.

Ad accentuare il nervosismo arriva la decisione della Federal Reserve di avviare un esame della vulnerabilità delle banche americane ai default possibili nell’eurozona. Nessuno ha più fiducia in nessuno. Una situazione simile si verificò nell’autunno 2008 con il crac della banca Lehman, quando il sospetto dilagò fra tutti gli attori del sistema finanziario, che il proprio partner fosse “il prossimo della lista”. Un sospetto mortale, la cui conseguenza fu il congelamento del credito all’economia.

Il tracollo dei mercati ieri è una sentenza spietata sul vertice di martedì fra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Non si è fatto un millimetro di progresso su temi ambiziosi come la creazione di eurobond, quei “titoli pubblici dell’eurozona” che forse sarebbero un argine al contagio della sfiducia, darebbero finalmente al mercato unico europeo una solidità finanziaria e il rispetto degli investitori. Ancora più grave è il fatto che da quel vertice non è uscito un frammento d’idea per rilanciare la crescita, nessuna strategia anti-recessione, l’unico “scudo” davvero essenziale in questa fase.

Ci sta provando da parte sua Obama: il presidente americano ieri è partito per una finta vacanza sull’isola Martha’s Vineyard, che passerà consultando i suoi consiglieri economici per preparare “l’annuncio del Labor Day”. Subito dopo la festa del lavoro (5 settembre) Obama lancerà un piano per la crescita e per l’occupazione. E’ un rovesciamento di priorità rispetto alle ultime due settimane che lo hanno visto completamente appiattito sul tema del debito (anche grazie a S&P).

Il presidente americano ha in mente una “strategia dei due tempi”: prima bisogna rimettere in moto l’economia, rilanciare le assunzioni, ridare fiducia e potere d’acquisto; contestualmente bisogna mettere a punto dei tagli al deficit pubblico più severi di quelli annunciati finora, ma la cui entrata in vigore deve essere rinviata, a quando sarà sventato il rischio di ricaduta nella recessione. E’ l’unico percorso per evitare di “rifare il 1937”: l’anno terribile in cui Franklin Roosevelt interruppe prematuramente le politiche di spesa pubblica del New Deal, e l’America ricadde nella Grande Depressione.

L’intuizione di Obama si snoda su un sentiero strettissimo, per ragioni non finanziarie bensì politiche: i dibattiti tra i candidati repubblicani alle presidenziali hanno visto il trionfo della demagogia anti-Stato. Tutti i leader repubblicani hanno annunciato che rifiuterebbero ogni compromesso che contenga nuove tasse, perfino quelle tasse sui miliardari auspicate a gran voce dal più ricco (e meno tassato) di tutti, Warren Buffett. In questo vuoto di leadership è inefficace la supplenza delle banche centrali. Fed e Bce continuano a pompare liquidità nei mercati, con il tasso zero Usa o con gli acquisti di titoli pubblici.

Ma nella paura che paralizza l’economia, quella liquidità non rifluisce dove servirebbe. Le imprese accumulano montagne di cash, o investono solo in maxifusioni alla Google – Motorola, o esportano capitali nei pochi paesi emergenti ancora sicuri. I consumatori che possono farlo tesaurizzano, riducono i debiti, accantonano risparmi, per prepararsi al peggio.

 

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da La Stampa, riflessione altrettanto importante di Rusconi

 

Governare senza crescita

GIAN ENRICO RUSCONI

Come si governa una società senza più crescita? Una società che verosimilmente non avrà più crescita nel senso e nella misura in cui gli economisti e i politici l’hanno intesa sino a ieri? La classe politica dirigente europea non sembra essere in grado di rispondere a questa domanda cruciale.

Non lo è neppure la classe politica tedesca verso la quale in questi giorni si rivolgono tante aspettative. La cancelliera Angela Merkel è oggi il politico più in vista e più citato in Europa e in Occidente. Ma temo che sia sopravvalutata. Innanzitutto ha un ristretto spazio di manovra politica interna, dovendo fare i conti con un elettorato inquieto, ripiegato su se stesso, e con un partito che la guarda con crescente preoccupazione. Ma la Merkel rischia di essere sopravvalutata anche a motivo della limitatezza del suo orizzonte e della sua visione politica che rimane schiettamente conservatrice, sia pure nel senso nobile della tradizionale democrazia cristiana tedesca.

Come può innovare il suo orizzonte davanti al radicale mutamento del contesto economico in cui è nata, si è pensata e si è sviluppata la democrazia tedesca?

Neppure il progetto originario dell’Europa tiene più, ma né la Merkel né la classe politica tedesca osano pensarne esplicitamente uno nuovo, nel quale potrebbero di fatto avere un ruolo (informale) di responsabilità maggiore che nel passato. La cancelliera procede a piccoli passi, senza avere un grande progetto innovativo. Ragiona e agisce in modo incrementale: va avanti e poi si ritira se trova resistenza, si ostina e poi di colpo allenta la presa. Non sembra avere sposato alcuna ideologia, anche se indulge a qualche tono populista. Raccoglie sicuro consenso soltanto quando fa la voce grossa contro i partner europei troppo indebitati e inaffidabili. E’ tutta qui la sua filosofia politica?

La Germania è il pilastro portante dell’Europa, senza voler sminuire il ruolo cruciale della Francia senza la quale Berlino non oserebbe muovere un dito. (Trascuriamo qui la natura singolare del rapporto storico franco-tedesco che meriterebbe una riflessione a parte, soprattutto dopo il progressivo inesorabile declassamento dell’Italia). Ma non è chiaro se le «proposte» restrittive, fatte l’altro ieri dalla Merkel insieme con il presidente francese Sarkozy (no agli eurobond e sospensione dei fondi Ue per i Paesi che non si mettono in regola), siano da considerare misure per superare la difficile congiuntura attuale, o non siano la premessa per una innovazione politica più incisiva. L’idea di un «governo dell’economia», affidato ad un ennesimo organismo europeo che va a complicare il già complicato labirinto istituzionale europeo, è tutt’altro che innocua. E’ un tipico gesto di decisionismo incrementale da parte degli Stati (dei due Stati più autorevoli) che spiazza di colpo l’intera costruzione istituzionale comunitaria esistente.

E’ stupefacente come l’opinione pubblica europea – dopo tanta retorica sull’Europa comune dei cittadini in occasione del Trattato dell’Unione europea di qualche anno fa – accetti con rassegnazione la nuova situazione. La dice lunga sulla disillusione europea. L’attenzione verso l’asse Parigi-Berlino (sino a ieri volentieri ironizzato come «cosiddetto asse») è carica di volta in volta di apprensione, di speranza, di diffidenza, di rassegnazione. Ma è il segno che la guida effettiva dell’Europa passa di lì, non altrove.

Ma c’è anche un rovescio della medaglia che potrebbe/dovrebbe rimettere in gioco di nuovo l’intera classe politica europea. L’affanno con cui la politica dei governi cerca di tenere testa alla peggiore crisi che investe l’Occidente dal lontano ’29 riconferma la deprimente verità che chi è arrivato al governo oggi ragiona con la testa di vent’anni fa. Può darsi (ce lo auguriamo tutti) che la politica dei governi arresti il processo regressivo in corso. Ma non avrà la capacità di rimettere in moto una dinamica che ricrei quella «crescita», che come una parola magica ritorna in tutte le dichiarazioni e in tutti i commenti. Ma non è sorprendente che oggi si chieda a gran voce alla politica di «produrre crescita» quando sino a ieri era invitata a non interferire nei meccanismi economici? Evidentemente l’atteso circuito virtuoso tra economia liberata e politica benevolmente assistente e socialmente compensativa è saltato. Secondo la vulgata la colpa è di un terzo intruso (mercati speculativi, finanza selvaggia). Ma non c’è bisogno di essere esperti per diffidare di questa spiegazione troppo semplice: in ogni caso dove erano negli scorsi anni la politica e i grandi istituti finanziari e bancari che avrebbero dovuto vigilare?

La crisi di oggi segnala un punto di svolta nella gestione dell’economia globale e, per quanto riguarda i sistemi socio-economici europei, apre la prospettiva di un governo di società senza più crescita misurata sui vecchi criteri. Per questo non bastano «direttorî» più o meno autorevoli, ma sono necessarie convergenze di tutti gli Stati membri con la rivisitazione di organismi e di procedure decisionali che sono create in tempi e in situazioni incomparabili con le attuali. Ma quale anello dovrà cedere per primo per rompere il circolo vizioso che impedisce il nuovo inizio?

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dal Corriere della sera

Nei numeri c’è un’«eurorecessione». E i mercati non sono ancora al fondo

Lo stop della Cina blocca l’export tedesco. Ma l’America ora non aiuta

Henry Kissinger trent’anni fa chiedeva quale fosse il numero di telefono dell’Europa. Oggi potrebbe allargare la sua domanda: nel terremoto che fa temere un’altra recessione in Occidente, non è più chiaro neanche quale sia il numero da chiamare a Washington per evitare nuovi guai. La Casa Bianca e i leader del Congresso si bloccano a vicenda e gli aspiranti presidenti repubblicani dichiarano già una guerra preventiva alla Federal Reserve, nel caso la Banca centrale ricorresse a nuove armi non convenzionali per difendere l’economia.

Intanto l’Europa resta come sempre a corto di telefoni rossi: persino quello della Banca centrale europea a un certo punto potrebbe non bastare più, qualora nel consiglio di Francoforte la Bundesbank tedesca si mantenga cronicamente in minoranza e all’opposizione sul sostegno a Paesi vitali per l’euro come Italia e Spagna.

Forse, semplicemente, l’Italia è davvero un laboratorio e il mondo avanzato ne ha contratto il virus. Gli economisti americani Carmen Reinhart e Ken Rogoff sostengono che quando il debito pubblico di un Paese arriva al 90% del Pil, l’economia perde molto del suo potenziale. Il modello italiano suggerisce che qualcosa del genere sta accadendo anche in politica. Il caos dei conti dello Stato porta le democrazie avanzate a dilaniarsi su quali elettori tassare, quali spese tagliare, quanta equità mantenere. E il disaccordo sulla distribuzione dei sacrifici – fra contribuenti tedeschi e pensionati greci, fra tagli ai sussidi dei poveri negli Stati Uniti e sgravi sulle tasse dei ricchi – produce paralisi.
I tempi dei mercati, si è visto ieri, sono molto diversi. Le esitazioni europee nel reagire sulla Grecia, poi l’incomprensibile saga per il tetto al debito americano, hanno alimentato la paura che oggi frena l’economia. Il crollo verticale emerso ieri dell’indice della Fed di Philadelphia sull’attività prevista dalle imprese americane ne è un indizio: quel dato di fiducia è stato raccolto nella prima settimana di agosto, mentre i mercati precipitavano anche a causa degli scontri politici a Bruxelles e a Washington. Nel 2008 i subprime dell’immobiliare affondavano in Borsa i titoli bancari. Tre anni più tardi, è la politica a essere diventata subprime e a produrre un effetto simile: l’indice azionario globale delle banche era a quota 86 dopo il crac Lehman, ieri invece era a quota 100, non lontano dai tempi peggiori.

Il problema, a quattro anni da quando la crisi si è presentata, è che neanche decisioni più rapide da parte dei politici bastano più. È probabile che l’economia europea abbia iniziato a frenare prima delle ultime incomprensioni fra Berlino, Parigi, Roma e Atene. «Now Casting», il servizio di stima preliminare dell’andamento della congiuntura prodotto da Lucrezia Reichlin, aveva iniziato a registrare una frenata in Eurolandia già da maggio. Sulla base dei dati emersi fin qui, adesso mette in conto per il terzo trimestre dell’anno una lievissima contrazione e per il quarto una caduta più pronunciata (meno 0,3%). Ovviamente non è detto che finisca così ma, se avvenisse, si tratterebbe in termini tecnici di una recessione. Quanto agli Stati Uniti, «Now Casting» concorda con quasi tutti gli osservatori nel non vedere una vera contrazione in arrivo, anche se i dati sull’occupazione e sul mercato immobiliare continuano a deludere. Ma l’Europa e gli Stati Uniti soffrono almeno in parte degli stessi problemi: le rivoluzioni in Medio Oriente, l’impatto del terremoto in Giappone sulle catene globali di fornitura industriale, l’incertezza per l’austerità pubblica e privata che prima o poi morderà, la riluttanza delle imprese a investire, la saturazione del mercato immobiliare. Ora poi si aggiunge il rallentamento dei mercati emergenti. Anche la Cina frena, come mette in luce un rapporto di Deutsche Bank di ieri: la stretta monetaria per contenere un’inflazione ormai attorno al 6% sta ottenendo tanto gli effetti desiderati che quelli collaterali. Deutsche prevede che ciò abbasserà il tasso di crescita dell’export dell’Europa, del Giappone e degli Stati Uniti. Nokia, grande cliente per l’italiana St Microelectronics, fa in Cina il 18% del suo fatturato; Bmw ha nella Repubblica popolare il 15% delle sue vendite totali e ciò beneficia anche la bergamasca Brembo, fornitore di freni della casa tedesca.

In queste condizioni, non è solo l’incertezza per gli choc del debito a far cadere le Borse. I prezzi medi dell’S&P 500, principale listino di New York, erano raddoppiati dal marzo del 2009 grazie alla bombola a ossigeno della Fed e dello stimolo di bilancio americano. Ora i margini di manovra della Casa Bianca e della Banca centrale si sono fortemente ridotti. Ma in realtà, anche dopo gli ultimi crolli, i prezzi azionari almeno in America non sono stracciati: è più probabile che fossero gonfiati in precedenza, dopo una lunga successione di bolle. Il grafico in questa pagina mostra le valutazioni di lungo termine del rapporto fra prezzi azionari e utili delle imprese stimato da Robert Schiller. In base all’indice dell’economista di Yale, la Borsa di New York viaggia ancora ben sopra le sue medie di lungo termine (una volta che si tenga conto della congiuntura economica).

Difficile dunque che oggi l’America possa trainare l’Europa fuori dai guai. L’aiuto più prezioso potrebbe offrirlo la Bce con un deciso taglio dei tassi, vitale ora che i governi zavorrano l’economia con dosi da cavallo di austerità. Ma il numero di telefono di Francoforte ha due interni: a uno di questi risponde solo la Bundesbank, e spesso lo fa con un secco «no».

Federico Fubini

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