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Cirisi dell’eurozona. Molte finestre sul cortile

Joseph Halevi
L’ITALIA PUÒ AFFONDARE L’UE

Non si può uscire dall’Unione monetaria europea senza abbandonare l’Unione europea stessa. Come spiegava Luigi Spaventa, in un articolo sulla Grecia apparso su La Repubblica nella primavera del 2010, l’Ume non è un accordo con opzioni di entrata ed uscita. I paesi dell’Ue possono non entrare nella zona dell’euro ma, una volta dentro, la loro appartenenza all’Ume definisce la loro appartenenza all’Unione europea.
Nessun governo si prenderebbe la responsabilità di affondare l’Ue uscendo dall’unione monetaria. Ne consegue che un’eventuale morte dell’euro avverrà perché forze dilanianti avranno assunto una potenza tale da far saltare il sistema. Certo, sarebbe auspicabile un accordo fondato su argomentazioni razionali e non moralistiche, magari anche un accordo di separazione e di divorzio. Tuttavia l’attuale conformazione politico-istituzionale dell’Ue impedisce tale razionalità. L’Europa di Bruxelles, di Parigi e delle due istituzioni di Francoforte si basa su meccanismi cardinalizi, sul non detto, su tabù, sul non riconoscimento della realtà obiettiva. Basta pensare a tutti i rifiuti proclamati da Angela Merkel riguardo il “salvataggio” della Grecia salvo poi precipitarsi a sostenere i finanziamenti. Sempre tardivamente e male, creando un meccanismo vieppiù tossico. Infatti gli aiuti del fondo di emergenza europeo vengono addebitati ai paesi che contribuiscono al salvataggio. Gli stessi paesi vedranno quindi aumentare il proprio rapporto debito-pil.
La Grecia è un piccolo paese. È vero che può mettere in moto una catena di default ma solo perché il salvataggio degli altri non potrà che affondare i paesi virtuosi. Ma quale virtuosità? Nessuno può dichiarare di esserlo. Se si aggiunge al debito federale tedesco quello di organismi pubblici simili all’Iri (che in Germania ancora esistono) nonché la posizione finanziaria dei diversi lander, si arriverebbe, per la potente Deutschland, ad un rapporto debito-pil di tutto rispetto, non lontano dal 100%. Nessuno però è in grado di farlo pesare sulla Germania.
Contrariamente al pensiero liberaldemocratico che vede nell’Ue solo liberalismo e democrazia, l’Ue è il prodotto di forze economiche oligopolistiche. Unite sul piano della lotta al salario ed unite sulla base della capitalizzazione delle rendite, sia industriali, come in Germania, sia finanziarie, come in Francia e in Italia, queste forze oligopolistiche e statuali si stanno lacerando anche al loro interno (le dimissioni del rappresentante tedesco alla Bce) per via della crisi economica e della loro incapacità a governarla.
In tale contesto, il punto debole del sistema che può scatenare processi di lacerazione non mediabili è l’Italia. Il suo eventuale salvataggio affonderebbe sia la Francia che la Germania. Di maggiore importanza è però il fatto che l’Italia, pur rimanendo un grande paese, ha perso il ruolo ammorbidimento dei rapporti (pessimi) tra la Germania e la Francia, silenziosamente svolto ai tempi del Mercato comune europeo nel ’57, alla fine dell’era democristiana.
Non molti vedono la profondissima crisi strutturale ed istituzionale del paese. Per l’Ue l’Italia rappresenta una grande economia alla deriva, senza progetti. Il paese non è in grado di intervenire in Europa con voce in capitolo, sia nei trattati che nei metodi di contabilità corrente che penalizzano duramente ed ingiustificatamente l’Italia. Manca una visione profonda e differenziata. Pensiamo a Gramsci e a Salvemini.

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Affondano le banche
Nuovo grosso tonfo per le borse, cresce lo spread tra Btp e Bund. Forte aumento dei tassi dei Bot

Galapagos
Gli occhi seguitano a essere puntati sulla Grecia anche se, osservano gli analisti più accorti, non può essere un piccolo paese a destabilizzare il mercato finanziario globale. Quello che è certo, è che il mese nero delle borse prosegue imperterrito. Anche ieri le borse europee hanno chiuso in profondo rosso nonostante la promessa di Jean-Claude Trichet di fornire liquidità alle banche. Promessa che ha consentito ai listini di riprendere un po’ fiato, cioè di ridurre le perdite, ma solo per pochissimi minuti. Poi gli indici hanno ripreso a scendere. A Milano l’indice Mib (le maggiori 40 società quotate a Piazza Affari) ha chiuso al ribasso del 3,89%. Non è andata meglio in Germania: il Dax 30 ha perso il 2,27%, Madrid è andata sotto del 3,41% mentre a Parigi l’indice Cac 40 ha lasciato sul terreno oltre il 4%, dopo che in giornata il crollo aveva superato il 5%. Le perdite della borsa francese sono state spiegate dalle voci sulle difficoltà patrimoniali della So.Gen. (il titolo è sceso del 9,83%, a 15,73 euro, e dall’inizio dell’anno ha ridotto il proprio valore di oltre il 61%) e dalle indiscrezioni su un possibile declassamento da parte di Moody’s dei principali istituti bancari transalpini molto coinvolti con i crediti alla Grecia. Paricolarmente negativa la performance di Bnp Paribas che ieri ha perso quasi il 13%.
Sull’altra sponda dell’Atlantico non sono andate bene neppure le borse statunitensi: a un paio di ore dalla chiusura il Dow Jones era sotto di oltre l’1% nonostante la presentazione (al Congresso) del piano di rilancio dell’economia e del lavoro da parte di Obama. Uno dei titoli in controtendenza era quello della Bank of America il cui amministratore delegato ha annunciato 30 mila esuberi, il 10% degli occupati totali. Spietatamente le borse fanno festa quando si riducono i costi, tagliando le teste dei lavoratori.
Sotto tiro non sono solo le banche francesi, ma un po’ tutti gli istituti di credito europei giudicati sottocapitalizzati (e pertanto con la necessità di procedere a aumenti di capitale) e eccessivamente esposti ai rischi di insolvenza di stati nazionali. Ovviamante Grecia in testa. Anche a Milano le banche ieri hanno fatto un bel tuffo: il titoli preso maggiormente di mira è stato quello di Unicredit che ha perso quasi il 10% scendendo sotto i 79 centesimi per azione, un livello che non toccava da due anni e mezzo. Sotto pressione anche Intesa Sanpaolo, mentre nel settore assicurativo un bel tonfo è stato registrato da FonSai (-7,6%) e fra gli industraili da Telecom Italia (-5,3%).
Ieri è iniziata una settimana di passione per le aste del debito pubblico italiano. L’asta di ieri è stata giudicata positiva, considerando il contesto di mercato. Questo significa che il collocamento è andato bene. Ovviamente i rendimenti sono saliti, ma la domanda ha tenuto: quasi 19 miliardi a fronte degli 11 miliardi offerti. Meno bene è andata sul versante dei rendimenti. Se nel caso del Bot trimestrale lo scarto di quasi un punto percentuale rispetto all’ultimo collocamento è comprensibile tenendo conto del carattere erratico dell’offerta (a marzo l’ultima asta), con il Bot annuale l’aumento di oltre 1 punto è imputabile solamente al fattore rischio che gravita intorno al debito italiano. In un mese il Bot annuale è passato dal 2,9 al 4,1 per cento ma, già a luglio, le tensioni sul debito avevano fatto schizzare il rendimento annuale al 3,6%. Ora l’attenzione si sposta sull’asta a medio e lungo termine di oggi dalla quale però non ci si aspettano grandi novità. Anche in questo caso gli operatori sottolineano l’attenzione che il Tesoro ha messo nella scelta dei titoli da offrire: la prima tranche del nuovo benchmark quinquennale (che in genere non trova difficoltà a trovare spazio nei portafogli degli investitori internazionali) e ben quattro Btp off-the-run: ovvero titoli che in genere vengono offerti tenendo conto di specifiche esigenze del mercato. In totale, l’offerta massima sul medio e lungo termine raggiungerà i 7 miliardi di euro.
L’aumento dei rendimenti pagati sui nuovi titoli del debito pubblico è la diretta conseguenza dell’aumento dello spread, cioè il differenziale fra i titoli italiani e quelli tedeschi a 10 anni. Ieri è salito fino a 384 punti (3,84%) dopo aver aperto sopra i 362 punti. Da notare che lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi supera ampiamente quello tra Bonos spagnoli e Bund (352 punti).
L’aumento dello spread sembra derivare da una assoluta mancanza di fiducia nella politica economica del governo. E questo nonostante la scorsa settimana la Banca centrale europea (come è stato comunicato) abbia seguitato a comprare sul mercato secondario titoli di stato dei paesi dell’area euro. In totale la Bce ne ha comprati per 13,96 miliardi di euro, in lieve rialzo dai 13,305 della settimana precedente. Secondo i trader, gli acquisti d’emergenza la scorsa settimana erano concentrati su Italia e Spagna. Intanto l’euro rimane debole, poco sopra quota 1,36 sul dollaro, dopo essere sceso anche a 1,3493, il livello più basso degli ultimi sette mesi.


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L’Italia: Cina salvaci, compra i nostri Bot

Pesante bilancio per l’asta convocata ieri dal Tesoro per collocare 11,5 miliardi di Bot a tre e dodici mesi. Un’operazione normale, che ripete con cadenza quasi mensile, perché si tratta di rimpiazzare titoli in scadenza (che vanno dunque rimborsati per intero) con altri freschi di stampa. Qualcosa si è rotto nel rapporto tra i banchieri (i veri protagonisti di queste aste) e il ministero guidato da Giulio Tremonti: ad agosto l’identica operazione era avvenuta scontando un tasso di interesse del 2,9%, ieri è costata il 4,1%. Significherà 75 milioni di interessi in più da pagare.
Tanto più pesante, questo risultato, perché l’Italia aveva chiesto in ginocchio alla Cina di comprare «quote significative» del nostro debito pubblico, nel disperato tentativo di non concedere interessi così pesanti. Il Financia Times ha rivelato che delegazioni italiane e cinesi si sono incontrate nelle ultime tre settimane e nell’ultimo incontro, a Roma, il ministro Tremonti ha chiesto a Lou Eiji, amministratore delegato della China Investment Cord., di acquistare BOT e CCT. «Tremonti – osserva velenoso il quotidiano britannico – ha scritto molto in passato della sua paura di una colonizzazione a rovescio cinese dell’Europa». Oggi è lui a tirare la giacca ai ricchi banchieri di Pechino.
Cina a parte, sembra chiaro che i banchieri hanno scaricato Tremonti. Viene fatto notare che «il patto» tra loro e il ministro ha retto per oltre tre anni, pur sotto una valanga di «incidenti» politici che avrebbero messo in crisi un matrimonio d’amore. Ma «è solo una questione d’affari…». Il patto avrebbe visto infatti da un lato le banche pronte a comprare BOT e B.T.P. a interessi bassi, senza problemi; dall’altro il ministro assicurava agevolazioni fiscali e occhi chiusi quando qualche banca appioppava ai clienti obbligazioni trash.
Ma quando, in una delle tante «manovre» il Tesoro ha inserito l’aumento dell’Arpa per banche e assicurazioni, il clima è cambiato. Del resto è semplice, per gli acquirenti, dare la colpa allo spread con i bund tedeschi che sale, alle agenzie di trading che stanno per declassare parecchie banche importanti francesi e inglesi. Il risultato è che il tasso di credibilità dell’Italia – in mano a questo governo – è in discesa libera. E quindi le banche non possono più riempirsi di titoli che «devono» ora esser prezzati in modo corrispondente al «valore» internazionale (basso) del nostro paese. È un altro pezzo – forse ancora più decisivo dei cattolici, almeno sul piano del potere temporale – di blocco di potere che si sgancia dalla «maggioranza» di governo. La riprova la si dovrebbe vedere oggi. Il Tesoro ha convocato un’asta per collocare tra i 5 e i 7 miliardi di Btp. Titoli a più lunga scadenza rispetto ai Bot (5 anni e più, nell’occasione), dunque teoricamente un po’ più rischiosi.
Le previsioni – dopo l’ennesima pessima giornata di ieri – vedono possibile un tasso di interesse medio oscillante tra il 5,25 e il 5,35%. Del resto ieri lo spread tra Btp decennali e Bund tedeschi della stessa durata ha raggiunto i 385 punti: il massimo da quando la Bce ha preso ad acquistare i Btp italiani (oltre ai Bonos spagnoli) per sostenerne il prezzo.
da “il manifesto” del 13 settembre 2011
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La fuga dal rischio travolge l’euro

di Riccardo Sorrentino


La fuga dal rischio ha travolto l’euro, ieri. La valuta comune, che già venerdì era scivolata in coincidenza con le dimissioni di Jürgen Stark dalla Bce, ha perso nuovamente terreno scendendo fino a 1,3495 dollari, un livello abbandonato il 15 febbraio, e ai minimi dal 2001 a 103,90 yen, In serata aveva recuperato a 1,36 dollari e 105 yen. Nei confronti di tutte le valute, il cambio effettivo è sceso a quota 102,83, con un calo dello 0,6% rispetto a venerdì.

Facile capire cosa sia successo: i timori di un default della Grecia e del possibile contagio non solo in Europa (sulle banche francesi innanzitutto) ma in tutto il mondo hanno segnato la seduta di ieri. Anche alcune valuta asiatiche – per esempio il dollaro di Singapore, candidato a diventare una moneta rifugio, o i dollari australiano e neozelandese, oltre a quello canadese – hanno perso terreno. I nervosi movimenti dei capitali in fuga dal rischio hanno invece premiato lo yen e – un po’ a sorpresa – il dollaro.

Ha pesato, ancora una volta, l’incertezza, acuita dalle contorsioni della politica. A scatenare gli investitori sono state alcune indicazioni, provenienti da una Germania mai così «polifonica» come in questi giorni, su un possibile fallimento della Grecia deciso «a tavolino». «Per stabilizzare l’euro non ci devono essere tabù – ha detto il ministro tedesco per l’Economia Phillip Rösler – e se necessario questo comprende l’insolvenza ordinata della Grecia, se gli strumenti per realizzarla fossero disponibili». Solo un ultimo esempio di come Berlino, negli ultimi mesi, si muova in modo maldestro nella comunicazione ai mercati.

Attorno alla vicenda greca si sono naturalmente aggiunti altri fattori. L’idea di trovarsi di fronte a una Banca centrale europea un po’ meno «falco» ora che è calata l’influenza della scuola Bundesbank al suo interno ha sicuramente influito sulla valutazione complessiva dell’euro. L’Eurotower non si trasformerà in una Fed né, con tutta probabilità, si lancerà attivamente in un programma di quantitative easing in stile Usa. Il presidente Jean-Claude Trichet, sia pure al solo scopo di tranquillizzare i mercati sulla tenuta delle banche, ha però ricordato ieri a Basilea che i 4-5mila miliardi di bond detenuti dai gruppi creditizi possono essere tutti trasformati in liquidità nell’eventualità – evidentemente solo teorica – in cui fosse necessario.

I mercati hanno quindi registrato anche le novità provenienti da Francoforte. Così come quelle di Washington. Il rialzo del dollaro, anche rispetto all’euro, è infatti qualcosa di nuovo, sul valutario che saluta così l’attenzione della Federal reserve e di Barack Obama sulla crescita. Non è dispiaciuto ai mercati il pacchetto della Casa Bianca che rilancia le infrastrutture – dando ai lavoratori con poche competenze una speranza di ritrovare quei posti che il settore delle costruzioni, ancora in difficoltà, non crea – e riduce il cuneo fiscale, da tempo indicato dall’Ocse come uno degli elementi su cui incidere con forza.

Stretto tra due fattori duraturi – Bce e Usa – non è escluso allora, come spiegano gli analisti di Unicredit, che l’euro possa trovare una sua stabilità in un corridoio più basso, tra 1,30 e 1,35; e che la giornata di ieri segni l’avvio del passaggio da una regione all’altra.

da Il Sole 24 Ore

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La febbre della sfiducia

di Fabrizio Galimberti

 

Tassi sui titoli pubblici a tre anni: in Italia 4,9%; in Grecia 48,4%. Quale delle due situazioni è più preoccupante? A prima vista, quella della Grecia. E anche alla seconda e alla terza.

Nel caso greco, bisogna dire, quei rendimenti non sono un vero costo del danaro per il loro debito sovrano. La Grecia non va sul mercato e i soldi per finanziare il deficit glieli fornisce, a tassi di interesse ben più bassi, l’Unione europea nell’ambito di un programma di aiuti che ha abbassato paratie stagne fra Tesoro greco e mercati, per il periodo necessario alla Grecia per rimettere in ordine(?) i conti. Nel caso dell’Italia, invece, i tassi che si registrano in questi giorni (ieri l’emissione di BoT a 12 mesi ha dovuto pagare un punto e passa in più rispetto alla precedente emissione) non sono tassi nozionali, come quelli sul mercato secondario greco: sono un vero costo del debito, che graverà per la durata dell’emissione.

Quanto è pesante la situazione italiana? Se si guarda alle varie scadenze dei nostri titoli e si confrontano i tassi a inizio anno con quelli delle ultime emissioni, si vede come in generale andiamo a pagare un punto in più di prima. La situazione di partenza era favorevole, dato che il costo medio del debito all’emissione era stato, l’anno scorso, eccezionalmente basso; e la vita media dei titoli pubblici italiani, grazie a una pluriennale oculata gestione del debito era – ed è – fra le più alte dei Paesi industriali. Data una vita media del debito di sette anni e qualcosa – pur se la durata finanziara è alquanto inferiore – dobbiamo rinnovare ogni anno circa un 15% dell’intero debito pubblico, che in valore assoluto, e limitatamente alla parte negoziabile, è di circa 1600 miliardi di euro. Se, per la durata di 12 mesi, dovessimo pagare un punto in più sulla frazione del debito rinnovata, l’onere addizionale sarebbe di circa due miliardi e mezzo di euro. A regime, dopo sette anni, l’onere sarebbe naturalmente sette volte maggiore.

Come si vede, dal punto di vista puramente aritmetico, non ci sono grossi problemi per i prossimi 12 mesi; senza dimenticare che quel che il Tesoro paga in più rappresenta anche un maggiore incasso per i ‘BoT people’. Il problema assume dimensioni diverse se si guarda a questo arrampicarsi dei tassi come un sintomo della sfiducia dei mercati verso il debito sovrano italiano; sfiducia che domani potrebbe concretizzarsi in difficoltà di rinnovo e quindi in ulteriori e pesanti rialzi del servizio del debito.

Il libero mercato – che, come si sa, è il peggiore fra tutti i sistemi fatta eccezione per tutti gli altri – soffre certamente di spasmi di irrazionalità. Basta guardare ai rendimenti (annualizzati) dei BoT a tre mesi: allo 0.1% in Germania e all’1.9% in Italia. Dotti calcoli farebbero risultare da questo differenziale una certa probabilità di default dello Stato italiano nei prossimi tre mesi: conclusione evidentemente cervellotica. In quel ‘concorso di bellezza’ che è il mercato – come lo definiva Keynes – la miss tedesca piace di più di quella italiana e questa preferenza, costretta a farsi numero, sfocia in un differenziale dal quale sarebbe ozioso trarre calcoli di probabilità. Ma le conseguenze aritmetiche ci sono, perché in base a quei numeri dobbiamo pagare gli interessi sul debito.

Il problema, fortunatamente, è dei debitori sovrani e non di quelli privati. Il differenziale fra Germania e Grecia sui tassi dei titoli pubblici è pari a decine di punti percentuali: sui tassi che devono pagare le imprese la differenza è di soli tre punti (e le imprese italiane, per esempio, secondo le ultime statistiche disponibili, pagano sui prestiti bancari pochissimo di più di quelle tedesche).

Quid agendum, allora? La manovra in via di approvazione può essere criticata perché, per tanti versi, usa l’accetta invece del cesello. Ma, se applicata, è certamente atta a mettere in sicurezza i conti pubblici. E i mercati prima o poi se ne accorgeranno, visto che stiamo tenendo le promesse del passato (vedasi l’andamento del fabbisogno nei primi otto mesi dell’anno). Quello che preoccupa è la crescita, come sottolineato anche dai dati di ieri sulla produzione industriale. Il ‘tagliando alla crescita’ promesso dal ministro Tremonti è la vera frontiera del risanamento italiano. Riuscirà questo Governo a trovare la determinazione e la coesione necessarie per restituire a imprese e famiglie voglia di fare e di spendere?

 

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Le contorsioni di Berlino spaventano i mercati

di Beda Romano

 

L’ipotesi di un fallimento della Grecia è tornata a circolare sui mercati finanziari e nelle capitali europee. Il vertice del 21 luglio, che aveva permesso alla zona euro di trovare l’accordo su un nuovo salvataggio del Paese mediterraneo, appare ormai lontano. La partita delle prossime settimane si svolgerà tra Atene, Helsinki e Berlino.

Pur di calmare il nervosismo dei mercati, domenica il Governo Papandreou ha annunciato nuove misure. Basteranno? Ieri le autorità comunitarie non hanno voluto impegnarsi in un giudizio prematuro. Il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy ha detto che sono misure positive che vanno nella giusta direzione».
Van Rompuy ha detto di voler aspettare l’analisi della troika, vale a dire delle tre istituzioni che stanno monitorando la situazione greca (la Banca centrale europea, il Fondo monetario internazionale e la Commissione). Dal loro giudizio positivo dipende l’esborso di una nuova tranche di aiuti entro ottobre, indispensabile per evitare il fallimento.

Antonio García Pascual, un economista di Barclays Capital a Londra, sostiene che le nuove misure anti-deficit del Governo Papandreou «dovrebbero soddisfare la troika, anche se potrebbero non essere sufficienti a raggiungere gli obiettivi di attivo primario che il governo greco si è dato per il 2012».
Parallelamente però altri due fattori stanno innervosendo i mercati sul futuro della Grecia. Da un lato i Paesi della zona euro non hanno ancora trovato un accordo sull’idea finlandese di chiedere ad Atene un collaterale in cambio di nuovi aiuti. Dice un diplomatico: «Se ne parlerà all’Ecofin del fine settimana a Wroclaw, ma saranno discussioni molto difficili».

Il Governo finlandese insiste perché la Grecia offra una garanzia per ricevere la nuova tranche da otto miliardi di euro. La Finlandia può contare sull’appoggio di altri piccoli Paesi della zona euro, come l’Olanda. Su questo aspetto la Germania ha scelto una posizione meno rigida, rigettando l’ipotesi di un collaterale.
Tuttavia, anche l’atteggiamento tedesco è fonte di nervosismo, a Bruxelles come ad Atene e in altre capitali europee, anche per via delle clamorose dimissioni di Jürgen Stark dalla Banca centrale europea che hanno provocato un vivo dibattito in Germania sul modo in cui l’Unione monetaria sta evolvendo.

Ieri il ministro dell’Economia e vice cancelliere, il liberale Philipp Rösler, ha scritto un articolo pubblicato da Die Welt in cui ha parlato esplicitamente del fallimento della Grecia dalla zona euro. Horst Seehofer, il presidente dei cristiano-sociali bavaresi, ha detto di apprezzare il fatto che finalmente «questi pensieri vengano espressi».
Il Governo ha smentito il ministro Rösler, affermando per bocca di un portavoce: la Germania «vuole che la Grecia rimanga un paese membro della zona euro». Nel contempo però il ministero delle Finanze ha ammesso indirettamente che la Germania sta valutando eventuali piani nel caso di fallimento sovrano.

Per ora, la scelta è dettata più dalla paura dell’incertezza e dal tentativo di prepararsi a ogni possibile evenienza più che da un cambio di strategia da parte del Governo federale. D’altronde, sempre ieri, il cancelliere Angela Merkel ha ribadito la necessità di terminare il processo di ratifica del fondo di stabilità Efsf entro fine settembre.
Nei prossimi giorni, le scelte tedesche saranno cruciali per capire il futuro della Grecia e non solo perché anche un accordo di scambio obbligazionario appare in forse (il benestare è venuto solo dal 70% delle banche). Dall’Olanda, un altro Paese freddo sui salvataggi sovrani, un sondaggio ha rivelato che ormai il 56% dei cittadini si pente dell’ingresso nell’euro

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