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La scala del debito crescente

Francesco Piccioni
Cina-Italia/COLLOQUI TREMONTI-FONDO SOVRANO
Lunga marcia a suon di soldi dall’Esquilino a via Nazionale

Chissà se gli è tornato alla mente quel detto cinese «siediti sulla riva del fiume e aspetta che passi il cadavere del tuo nemico»… Il ministero del Tesoro ha confermato che Giulio Tremonti e un nutrito gruppo di teste d’uovo, tra cui Franco Bassanini, presidente della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), hanno incontrato una settimana fa Low Jiwei, a.d. della China Investment Corporation (Cic), fondo sovrano con una dotazione di 409 miliardi di dollari. Che lo colloca al secondo posto nella classifica dei fondi sovrani cinesi e al quinto di quella globale.
Il Financial Times l’aveva messa in relazione a una richiesta italiana di acquisto di Btp, oppressi da un aumento monstre del differenziale con i bund tedeschi e in coincidenza con i primi segnali stanchezza della Bce nel ruolo di compratore generoso. Addirittura era stato ipotizzato che i cinesi – già detentori del 4% del debito pubblico italiano – potessero salire fino a coprirne il 10%; sarebbe stata sia una eccezionale dimostrazione di «fiducia» in un paese sotto stress, sia una straordinaria dimostrazione di debolezza. È molto più alta, per esempio, la percentuale di debito pubblico Usa posseduta dai cinesi.
In realtà, sia da parte italiana (il sottosegretario all’economia Antonio Gentile) che cinese è stato negato che fosse questo l’oggetto dell’incontro. Il Cic si è dimostrato invece interessato a «investimenti industriali» nel nostro paese e a questo scopo ci sarebbe stata la presentazione e presa di contatto con la Cdp, di recente investita del compito di costruire un Fondo strategico italiano per rendere possibili investimenti di questo tipo. Dall’unione delle due «potenze» dovrebbero uscire quindi spinte al rilancio di alcuni settori produttivi.
Anche qui, la si può vedere da due lati: come debolezza italiana, tale da consegnare ai cinesi le chiavi di alcune aziende importanti che nessun imprenditore tricolore si vuol prendere la briga di far funzionare (c’è l’esempio di Termini Imerese, dove subentrerà a Fiat la Dr, marchio italiano che assembla forniture della cinese Chery); oppure come «occasione di rilancio» di comparti manifatturieri in dismissione. Una terza chiave di lettura sembra utile: ma allora non è vero che la nostra struttura dei diritti del lavoro è «troppo pesante» e «disincentiva gli investitori stranieri»…
In piena discussione su nuove privatizzazioni (multiutility municipalizzate, immobili, asset strategici come Eni, Enel, Terna, Finmeccanica), il ministero si è affrettato a dichiarare «fuori mercato» per i cinesi proprio queste ultime imprese (Finmeccanica, del resto, controlla molta della produzione di armamenti nazionali), che sono già al livello minimo del «pacchetto di controllo» (30%) e quindi a rischio di «scalata» se altre quote dovessero esser messe in vendita. Confermato invece che «multiutility e immobili» sono tra le prime cose che il Tesoro metterà in vendita: «già la prossima settimana potrebbe tenersi a Roma una riunione con il mondo finanziario per studiare le opzioni sul tavolo».
Le complicazioni non sono poche: si va dalla proprietà delle municipalizzate (in capo quasi sempre agli enti locali), al pericolo di «svendita» di asset che potrebbero far realizzare cifre anche molto superiori (nelle «privatizzazioni» italiane, i privati hanno una lunga storia di «regali» vergognosi: da Telecom alle Autostrade, fino all’Alitalia).
La Lega ha drizzato le orecchie, facendo però bofonchiare il semisconosciuto Maurizio Fugatti. Come sembrano lontani i tempi (2003) in cui il Tremonti populista spiegava che «dai rubinetti agli occhiali, è drammaticamente evidente che dove entra la Cina esce l’Italia». Ora la Cina entra direttamente, e su suo invito. Ma chi sarà quel cadavere che scende giù per il fiume?


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Galapagos
Spread Non si ferma la caduta dei titoli di stato italiani. Mentre la Cina si mostra interessata a investire nell’industria, sentendo odore di «privatizzazioni»
Il Tesoro paga caro
All’asta di ieri, i rendimenti dei Btp a cinque anni schizzano al 5,6%: mai cosi in alto dal 1997. La Merkel lancia un appello a favore della Grecia e i paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina) si incontrano per aiutare la Ue. Borse nevrotiche, ma chiusure in forte risalita I «credit-default swap», l’assicurazione contro il rischio d’insolvenza, salgono per l’Italia a 522 punti base

Le borse europee hanno tirato il fiato, ma non è stata una giornata tranquilla. Al contrario, le quotazioni e gli indici sono stati per quasi tutta la giornata sulle montagne russe. Prendiamo Milano: Piazzaffari in apertura era brillantissima e dopo pochi minuti guadagnava il 2%. Ma è durata poco, in appena una ventina di minuti l’indice Mib delle 40 maggiori società andava in rosso di quasi il 2%. Poi una lenta risalita e l’indice Mib chiudeva in rimonta del 2,19%, il maggiore incremento tra quelli registrati dalle principali borse europee. Il sali-scendi delle quotazioni trova origine nell’emotività degli operatori, nel nervisismo che provoca reazioni incontrollate al diffondersi di ogni piccola notizia. Insomma, un compra/vendi assurdo che tiene conto solo parzialmente dei fondamentali delle società quotate e molto, invece, dalle voci.
Come quella come quella relativa a un’iniziativa congiunta franco-tedesca a favore della Grecia. Iniziativa smentita dall’Eliseo. Poi, però, è stato confermato che oggi ci sarà una teleconferenza a tre Sarkozy-Merkel-Papandreou. La Grecia rimane la prima preoccupazione per la stabilità dell’area dell’euro. «La priorità assoluta è evitare un default incontrollato perché questo non colpirebbe solo la Grecia e il rischio che possa impattare tutti noi, o almeno gran parte dei paesi dell’eurozona, è molto elevato», ha dichiarato Angela Merkel in un’intervista al canale Inforadio. La cancelliera tedesca ha assicurato di star «lavorando con tutti gli strumenti a disposizione per evitare che questo succeda». La Merkel, che con le sue parole ha contribuito a ridare fiducia ai mercati (lo si è visto dalla risalita degli indici nelle borse) non ha voluto, però, commentare le parole del proprio ministro dell’economia Philip Rosler, che lunedì aveva aperto alla possibilità di un default della Grecia. «Credo che renderemmo un grande servizio alla Grecia – ha detto la Merkel – se facessimo congetture il meno possibile e incoraggiassimo piuttosto la Grecia a rispettare i suoi impegni». In sintesi la Merkel ha escluso una fuoriuscita della Grecia dall’eurozona, affermando: «ho espresso chiaramente la mia posizione: deve essere fatto ogni sforzo possibile per mantenere l’unità politica dell’eurozona».
A spingere in sù le borse all’apertura delle contrattazioni aveva contribuito la notizia che lunedì si era tenuto un incontro tra il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e una delegazione cinese per analizzare l’eventuale acquisto di titoli di stato italiani da parte di Pechino. Notizia parzialmente falsa: l’incontro in effetti c’è stato ma i cinesi ma il tema erano gli investimenti di Pechino in Italia e la possibilità prendere parte all’ondata di privatizzazioni delle poche società ancora pubbliche, Enel e Eni in testa. Poi, invece, sono arrivate notizie decisamente negative a deprimere i mercati. A metà mattina, a Parigi sono crollate le BnpParibas sulla voce, riferita dal Wall Street Journal, ma smentita dall’istituto, che la banca francese avesse trovato difficoltà a finanziarsi in dollari.
L’altra pessima notizia è arrivata dall’Italia: l’asta dei Bpt è andata piuttosto male. Per i quinquennali la domanda è stata in caduta e in rendimenti sono schizzato al 5,6%, ai massimi dal 1997, ovvero da prima della nascita dell’euro. A titolo di confronto, basti dire che i Btp con la stessa scadenza in Germania pagano meno dell’1% di interessi. A questo punto la reazione è stata violenta: lo spread tra Btp decennali e Bund tedeschi è volato sopra i 400 punti base, fino al nuovo massimo di 406 punti (il 4,06%) per poi ridiscendere a 380 punti, ma risalire sul finale a 392 punti base).
Solo nel pomeriggio la borsa ha preso a recuperare sull’onda dell’apertura positiva delle borse Usa, in particolare il Nasdaq. Una mano alla risalita l’ha data la notizia che i paesi Bric (Brasile, Russia, India, Cina) discuteranno la settimana prossima la possibilità di offrire aiuti all’Unione europea. Insomma, il mondo va alla rovescia e l’arrivo di quelli che un tempo erano tra i paesi più sfruttati ha incoraggiato gli ordini di acquisto e ridato un po’ di fiducia. A beneficiarne sono state soprattutto le azioni delle banche e in particolare quelle della Banca Popolare di Milano volate dell’8,3% anche perché si dice che il fondo «Sator» controllato da Matteo Arpe (ex numero uno di Capitalia, fatto fuori dalla banca romana per dissensi con Cesare Geronzi) sarebbe sul punto di entrare nel capitale della popolare milanese. Il tutto con la benedizione dei sindacati bancari (e sembra di Bankitalia) che si sono detti favorevoli all’ipotesi di ingresso nell’azionariato e nel Cda della banca di Arpe.

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Anna Maria Merlo
MANOVRE EUROPEE
Merkel e Sarkozy cercano la quadra per la Grecia
Oggi colloquio con Papandreu. Venerdì l’Ecofin in Polonia: ospite d’eccezione il segretario Usa Geithner

PARIGI
Parlare, non parlare? Tutta la giornata di ieri, mentre le Borse facevano yo-yo, è trascorsa in attesa di un comunicato franco-tedesco sulla crisi del debito e, ormai, dell’euro. Fino a che da Berlino è arrivato un «nein» deciso. Nessun comunicato congiunto, ma a Parigi era invece atteso un intervento di Sarkozy alla conclusione dell’incontro con il presidente del consiglio europeo, Herman Van Rompuy.
Ma l’Eliseo ha deciso di non parlare di banche, mentre i tre principali istituti di credito francesi sono tartassati dai mercati. Per oggi è invece confermata la video-conferenza tra Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e Andreas Papandreu. Parleranno del seguito da dare all’accordo del 21 luglio, cioè del secondo piano per la Grecia, che per ora è stato confermato solo dal parlamento francese, e del rafforzamento del Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fesf), che dovrebbe essere dotato di sufficienti fondi per poter far fronte a un’eventuale necessità di ricapitalizzazione delle banche europee. Ma per il via libera al Fesf bisognerà aspettare il voto del Bundestag, previsto per fine settembre. Dovrà poi passare al vaglio tedesco anche il secondo piano di aiuti alla Grecia, che è già messo in forse dalle pretese di Finlandia e Slovacchia (la prima vuole in garanzia da Atene una somma equivalente a quella versata, la seconda intende rimandare il voto a dicembre, entrambe sotto la pressione delle formazioni populiste).
L’appuntamento più importante della settimana, atteso con impazienza dai mercati, è l’Ecofin di venerdì a Wroclaw, in Polonia, paese non euro che però ha la presidenza semestrale del consiglio Ue. All’Ecofin ci sarà la partecipazione eccezionale di Thimoty Geithner, segretario al tesoro Usa. Questa presenza dovrebbe smentire le voci ricorrenti sul «complotto» anglo-sassone contro l’euro: gli Usa, seguiti dalla Gran Bretagna che non ha mai amato la moneta unica, lavorerebbero ai fianchi l’euro per impedire che si stabilisca un’alternativa al dollaro, in un momento di estrema debolezza dell’economia Usa.
Ma ormai fa passi avanti la consapevolezza che il mondo politico deve intervenire per bloccare il panico dei mercati, che in dieci settimane hanno bruciato quasi 70 miliardi di euro. Merkel cerca di smentire il proprio ministro delle finanze, Philippe Rösler, che, sulla scia dell’Olanda, ha preso in considerazione l’eventualità di un default organizzato della Grecia. La Commissione e la Bce escludono questa ipotesi. Obama afferma che gli Usa collaborano con gli europei. L’ipotesi di creare gli eurobond viene di nuovo evocata come una possibile risposta.
In Francia, la tensione si è concentrata sulle banche (Bnp a un certo punto perdeva il 17% per poi chiudere a +7%, Socgen ha chiuso a +14,9% ma in mattinata perdeva il 6%). L’Eliseo ha ribadito che «non c’è nessun piano di salvataggio» delle banche. Il ministero delle finanze ha prodotto una «triplice smentita» sull’ipotesi di una possibile riflessione sulla nazionalizzazione delle banche o almeno su un intervento statale.
da “il manifesto” del 14 settembre 2011
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da Lettera 43

Il Dragone mangia italiano

di Barbara Ciolli

Il ministro Finanze Giulio Tremonti con il governatore della Banca nazionale cinese Hou Xiaochuan.

Dopo la Grecia, la Spagna e il Portogallo, anche l’Italia. Secondo i dati riservati in possesso del Financial Times, attraverso fondi sovrani e altri veicoli finanziari, la Cina ha già in mano il 4% del debito pubblico italiano, che ammonta a un totale di circa 1.900 miliardi di euro.
Una percentuale che, dopo l’incontro romano del 7 settembre tra il ministro del Tesoro Giulio Tremonti e una delegazione di investitori del Dragone, potrebbe salire rapidamente al 10% e oltre, anche attraverso «la vendita di quote strategiche di Enel ed Eni». La Cina ha poi smentito di essere interessata all’acquisto dei titoli di Stato, ribadendo di stare valutando possibili investimenti industriali.
LE MISSIONI IN CINA E A ROMA. Dalle numerose indiscrezioni raccolte dalla stampa estera e nazionale, però, al tavolo con Tremonti e il ministro degli Esteri Frano Frattini erano seduti il presidente del fondo sovrano China Investment Corp (Cnc) Lou Jiwei, amministratore delegato del quinto forziere a livello mondiale per capitale d’investimento, e alcuni rappresentanti della State Administration of Foreign Exchange (Safe), con in mano circa 3.200 miliardi di dollari di riserve valutarie cinesi.
Sempre nella Capitale, Jiwei avrebbe poi incontrato Franco Bassanini, presidente della Cassa depositi e prestiti, ente operativo del Tesoro. Tutti appuntamenti preceduti, lo scorso agosto, da una trasferta a Pechino di alcuni funzionari italiani, per discutere proprio di future collaborazioni finanziarie.
L’INCONTRO CON MATTEOLI. Durante questo frenetico via vai di delegazioni tra i due Paesi, sempre il plenipotenziario di Cnc Jiwei ha intavolato trattative con imprenditori italiani e politici locali, coordinati dal ministro per le Infrastrutture Altero Matteoli. In vista – sulla scia di quando accaduto in Grecia e, prima ancora, negli Stati Uniti – di un memorandum d’intesa per partecipare agli appalti di grandi opere come reti ferroviarie e aeroporti nazionali.

Nel 2010, interscambio commerciale cresciuto del 50%

Dall’inizio della crisi economica al 2011, il Dragone ha spostato gradualmente i suoi investimenti dagli Usa all’Europa, iniziando uno shopping aggressivo nei Paesi finanziariamente più dissestati dell’Unione.

Dal 2008 a oggi, per esempio, le quote di debito pubblico spagnolo rilevate dalla Cina sono schizzate dal 4 al 12%: una cifra che, ha annunciato lo stesso governo di Pechino, potrebbe lievitare ulteriormente con l’acquisto di altri 6 miliardi di euro in titoli di Stato iberici.
LO SHOPPING IN EUROPA Secondo le stime del quotidiano economico francese la Tribune, inoltre, la Banca centrale cinese (Bcc) ha già acquisito il 7,3% del debito pubblico dei Paesi dell’area euro, per un totale di circa 630 miliardi in portafoglio.
Gran parte dell’incetta dei titoli di Stato stranieri, Pechino l’ha fatta in Portogallo e, con il crollo dell’ultimo anno, in Grecia, con la quale, dopo i primi scricchiolii del 2008, la Cina aveva già instaurato una massiccia cooperazione economica e commerciale culminata con il rilevamento dei due porti del Pireo da parte del colosso cinese Cosco.
IL PIANO D’AZIONE TRIENNALE. Anche in Italia, negli ultimi anni, la (finora) prudente colonizzazione finanziaria è stata preceduta da una netta accelerazione degli interscambi commerciali con la Cina, aumentati, solo nel 2010, del 50% rispetto all’anno precendente.
Gli ultimi incontri tra i vertici governativi e finanziari dei due Paesi, con Tremonti in testa, non rappresentano altro che il naturale prosieguo delle intese per realizzare il Piano d’Azione triennale tra Italia e Cina, che prevede un interscambio annuo di circa 80 miliardi di euro entro il 2015.
ACCORDI PER 2,5 MILIARDI. Dal 2009 al 2011 gli accordi bilaterali tra Italia e Cina si sono gonfiati da 1,4 miliardi di euro a quasi 2,5 miliardi, coprendo, di fatto, tutti i settori, con partnership con gruppi come Fiat, Ansaldo Breda e Generali.
Ma se, all’inizio del boom economico cinese, la direzione prevalente degli investimenti tra i due Paesi andava dall’Italia verso l’Asia, ora la direzione si è invertita. Non è più Pechino a chiamare l’Italia per investire in Cina, ma Roma a sdoganare le aziende del Dragone in casa propria.

Italia, snodo strategico per le telecomunicazioni

Nel giugno scorso, per esempio, durante un vertice romano a Villa Phamphilj tra il premier Silvio Berlusconi e il vice-premier cinese Xi Jinping, erano stati firmati altri 16 accordi – due istituzionali e 14 commerciali – del valore di circa 2 miliardi e 200 mila euro.

Il programma di partnership prevedeva l’ingresso dei cinesi anche nella modernizzazione di strutture e infrastrutture italiane come porti, aeroporti e strade. Ma anche investimenti del gigante asiatico in progetti di telecomunicazioni, in stretta collaborazione con i gestori che operano in Italia.
ITALIA PONTE CON AFRICA E MEDIO ORIENTE. Per Pechino, controllare le informazioni che passano attraverso l’Italia è fondamentale, visto che la penisola è il principale hub dei dati internet in arrivo da Africa e Medio Oriente.
È, dunque, naturale che, per la Cina, l’Italia sia più appetibile della Spagna come Paese in cui proseguire gli investimenti a tappeto, già avviati nei Balcani.
Così se, per esempio, in Portogallo (il principale corridoio per i dati provenienti dall’Atlantico) il colosso delle telecomunicazioni Huawei è al lavoro per modernizzare la rete nazionale, in Italia il gruppo ha iniziato a flirtare con Vodafone e Tiscali, per sviluppare una rete a banda larga di nuova generazione. Inoltre, nel 2011, sempre Huawei ha firmato un’alleanza strategica di cinque anni con Wind che si è impegnata anche con la China Development Bank Corporation.
I PORTI DEL MEDITERRANEO. Nel maggio scorso, inoltre, i cinesi della Cosco, da anni proprietari del Consorzio napoletano terminal container in partnership con l’italiana Msc, hanno annunciato l’investimento di 220 milioni per il nuovo terminal Levante.
Poco lontano, con in mano il 50% di azioni del porto di Taranto, il magnate di Hong Kong Li Ka-shing, patron della più grande compagnia di trasporto marittimo Hutchison Whampoa e legato a triplo filo a Pechino, non fa mistero di coltivare il sogno di rendere lo scalo il maggiore porto di container del Mediterraneo.
In Italia, infine, la più grande acquisizione di aziende da parte dei cinesi è stata, nel 2008, quella di Cifa, società attiva nel calcestruzzo rilevata dal colosso dei macchinari edilizi Zoomlion.
AFFARI, SEGRETO DI STATO. Sebbene Pechino tratti i suoi investimenti da sempre alla stregua di un segreto di Stato, i dossier delle banche internazionali e le inchieste di quotidiani economici e finanziari hanno stimato che, dal 2004 al 2010, lo shopping all’estero dei cinesi è aumentato da 15 miliardi a 220 miliardi di dollari.
Finora gli affari della China investment corporation (Cic) sono rimasti concentrati negli Usa (41,9%). Ma, in pochi anni, quelli europei sono balzati al 21,9%, poco meno del 29,9% dei business asiatici.

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 Premier cinese conferma che Pechino vuole investire nei paesi Ue ma avverte: mettete ordine nei conti

I paesi sviluppati devono tagliare i deficit e creare posti di lavoro e non sperare soltanto che la Cina salvi l’economia mondiale. Così il premier cinese Wen Jiabao ha risposto alle varie richieste di soccorso dei paesi europei indebitati in occasione del World Economica Forum in corso nella città di Dalian. «I paesi devono innanzitutto mettere ordine in casa propria. Le nazioni sviluppate devono assumere dei provvedimenti fiscali e monetari responsabili. La cosa importante ora è prevenire un ulteriore allargamento della crisi del debito sovrano in Europa», ha detto Wen.

Il Premier ha ribadito quanto dichiarato lo scorso giugno e cioè che la Cina è pronta a dare un mano all’Europa con degli investimenti locali e che il suo governo allo stesso tempo vuole garantire al paese una crescita economica stabile e ha esortato Unione europea e Stati Uniti ad aprire, come contropartita, i rispettivi mercati.

Wen Jiabao inoltre si è detto fiducioso che l’Europa e gli Stati Uniti possano superare le loro difficoltà attuali. La Cina è ancora disposta a espandere i suoi investimenti nella zona euro, ma i leader dell’Unione europea avrebbe dovuto compiere il “passo coraggioso” di riconoscere alla Cina il pieno status di economia di mercato, ha aggiunto.

Intanto la Cina potrebbe allentare la sua politica monetaria nel mese di novembre anche perché Pechino ha bisogno di far fronte a un rallentamento più veloce della crescita economica del paese, attivato da un previsto calo degli investimenti immobiliari nella seconda metà dell’anno. Lo riporta oggi China Securities Journal, quotidiano in lingua inglese, citando anonimi gestori di fondi. Sarebbe questo un segnale chiaro che la pressione inflazionistica in Cina è entrata in un trend al ribasso: se l’indice dei prezzi al consumo nel Paese continuerà a crescere a un ritmo più lento tra agosto e ottobre, novembre potrebbe essere la finestra temporale giusta in cui la Cina dovrebbe allentare la sua politica monetaria, ha aggiunto il giornale. I prezzi al consumo in Cina sono aumentati del 6.2% nel mese di agosto rispetto all’anno precedente, un pò meno del 6.5% di luglio.

da Il Sole 24 Ore

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