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Ma l’euro non è in salvo…

Ma l’euro non è fuori pericolo

di Martin Wolf

Forse in futuro gli storici considereranno Maastricht una tappa decisiva verso l’emergere di una stabile potenza che comprenda tutta l’Europa. Ma c’è un’altra possibilità, più fosca.

Lo sforzo per unire gli Stati potrebbe invece condurre a un enorme incremento delle tensioni fra di essi. Se così fosse, quello che succederebbe avrebbe tutti gli attributi della definizione classica della tragedia: hubris (arroganza), ate (follia); nemesis (distruzione)». Così scrivevo sul «Financial Times» quasi 20 anni fa. I miei timori si stanno avverando. Questa crisi non solo ha dimostrato che il progetto iniziale dell’Eurozona era fallace; ha anche rivelato – e, nel suo progredire, esacerbato – una sostanziale mancanza di fiducia, per non parlare di un’identità condivisa, tra popoli uniti a forza in quel che è diventato un matrimonio di convenienza. La gravità dello sfacelo non mi è stata rivelata dalle dimissioni del tedesco Jürgen Stark dalla Bce, né dall’incombente default greco, e neppure dai nuovi vincoli imposti dalla Corte costituzionale tedesca. Ma durante una visita a Roma.

Ecco cosa ho sentito dire da un policy maker italiano: «Abbiamo rinunciato alle vecchie valvole di sicurezza dell’inflazione e della svalutazione in cambio di tassi di interesse più bassi, ma ora non abbiamo neanche i tassi di interesse bassi». Per continuare: «Sembra che per alcuni siamo entrati in un currency board, ma l’Italia non è la Lettonia». E, significativamente: «Sarebbe meglio uscirne fuori piuttosto che sopportare 30 anni di tribolazioni». Questi commenti rivelano una mancanza di fiducia tanto nel progetto europeo quanto nei partner.
Nell’ultima conferenza stampa Jean-Claude Trichet, il presidente uscente della Bce, ha evidenziato il record contro-inflazionistico della banca, molto superiore a quello della Bundesbank. Ma la bassa inflazione ha mascherato l’emergere di profondi squilibri all’interno dell’Eurozona e la mancanza di mezzi – o della volontà – di risolverli.

Così com’era stata progettata, l’Eurozona mancava di istituzioni essenziali, soprattutto di una banca centrale capace e determinata ad agire come prestatore, come ultima risorsa, in tutti i mercati importanti; di un fondo di salvataggio abbastanza consistente per assicurare la liquidità nei mercati azionari sovrani e misure efficaci per controllare una rete interconnessa di insolvibilità sovrane e crisi bancarie.
In mancanza di istituzioni forti, l’orientamento e le politiche del paese chiave hanno assunto un peso cruciale. Gli strateghi tedeschi continuano a vedere il mondo nell’ottica di un’economia relativamente piccola, aperta e altamente competitiva. Ma l’Eurozona non è una piccola economia aperta; è grande e relativamente chiusa. L’incapacità dei leader tedeschi di spiegare questi fatti in patria rende impossibile risolvere la crisi attuale. I politici si crogiolano invece nella fantasia che tutti debbano agire come prestatori, simultaneamente.

Per le piccole economie aperte come quelle della Lettonia e dell’Irlanda, riacquistare competitività e riprendere a crescere attraverso la deflazione potrebbe funzionare. Per un grande paese come l’Italia, è troppo doloroso per essere credibile. Wolfgang Schäuble, il ministro delle finanze tedesco, può fare appello a questa austerità. Non sarà messa in atto.
Oggi dobbiamo spegnere un furioso incendio. Solo dopo potranno iniziare i tentativi di costruire un’Eurozona meglio protetta dal fuoco. La scelta meno dannosa per la Bce sarebbe quella di assicurare la liquidità ai governi solventi e alle istituzioni finanziarie, senza alcun limite. In effetti non dovrebbe essere intellettualmente difficile spiegare che comprare titoli è compatibile con una costante stabilità monetaria, dato che l’aggregato monetario ampio è cresciuto solo del 2% all’anno. Ma certamente è politicamente difficile, soprattutto per Mario Draghi, il nuovo presidente italiano della Bce.

Eppure è ciò che bisogna fare, vista l’inadeguata capacità del fondo di salvataggio europeo Efsf quando viene chiamato ad aiutare i paesi della zona euro più grandi e in difficoltà. I politici devono trovare il coraggio di sostenere questa azione.
Cosa succederebbe se il governo tedesco decidesse che non è in grado di sostenere un passo così audace? La Bce dovrebbe andare avanti comunque piuttosto che lasciar verificarsi un collasso a cascata. A questo punto starebbe alla Germania decidere se uscire fuori, magari con l’Austria, i Paesi Bassi e la Finlandia. Bisognerebbe far presente ai cittadini tedeschi che ciò comporterebbe un balzo nel tasso di cambio, un massiccio declino nella redditività delle esportazioni tedesche, un enorme trauma finanziario e un crollo nel prodotto interno lordo. Senza tener conto del fallimento degli sforzi di due generazioni per costruire una solida cornice europea intorno alla Germania stessa.

La Germania ha un potere di veto decisivo sugli sforzi di espandere il sostegno finanziario ufficiale. Ma sta perdendo il controllo sulla sua banca centrale. In una crisi così minacciosa per l’Europa e il mondo intero, l’unica istituzione europea con la capacità di agire sulla scala richiesta dovrebbe trovare il coraggio di farlo, poiché il costo del non agire sarebbe sicuramente devastante. Farlo porterebbe sicuramente a una crisi politica, ma sarebbe sempre meglio della crisi economica scatenata dall’incapacità di tentare.
Alla fine la Germania deve scegliere tra un’Eurozona dolorosamente diversa da quella immaginata, con una Germania più grande, o nessuna Eurozona. Capisco come debba essere odioso per i suoi leader e i suoi cittadini trovarsi costretti a fare questa scelta. Ma è ineludibile. La cancelliera Angela Merkel deve avere il coraggio di scegliere, chiaramente e apertamente.
Martin Wolf
(Traduzione di Elisa Comito)
© 2011 The Financial Times Limited

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