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Standard&Poor’s declassa l’Italia

La scure di Standard and Poor’s si abbatte sull’Italia. Mentre tutti gli occhi erano infatti puntati su Moody’s – che giorni fa ha rinviato la sua decisione sul nostro paese – S&P ha deciso a sorpresa, ieri sera, di tagliare il rating sulla capacità dello Stato di far fronte all’elevatissimo debito pubblico. Motivo: una crescita economica sempre più debole e una situazione di incertezza politica che ostacola la ripresa. Incertezza che – secondo gli analisti di S&P – rende molto difficile raggiungere gli obiettivi fissati nel programma di austerity. In particolare il rating di lungo termine viene abbassato da A+ ad A, ma con outlook negativo. Ciò significa che in futuro il rating potrà ulteriormente essere tagliato. Anche perchè le previsioni per il debito sono decisamente peggiorate: il picco – spiegano gli analisti dell’agenzia – è atteso più in là nel tempo e raggiungerà un livello ancor più elevato del previsto.

Nel rapporto di Standard and Poor’s non si usano mezzi termini: «La fragilità della coalizione di governo in Italia – si legge – limita la capacità di risposta dello Stato» nell’affrontare una crisi economica e finanziaria che sta colpendo il nostro Paese come altri dell’Eurozona. E i vari tentativi che hanno caratterizzato la messa a punto da parte del governo Berlusconi della manovra ‘lacrime e sanguè da 60 miliardi di euro lasciano intravedere come non sarà per nulla facile attuare in maniera efficace il programma di consolidamento di bilancio. Anche perchè – evidenzia Standard and Poor’s – le autorità italiane appaiono «riluttanti» nell’affrontare quelle che vengono considerate le «questioni chiave» della crisi economica italiana: dagli ostacoli strutturali che da sempre rallentano la crescita al basso tasso di partecipazione al lavoro, alla eccessiva rigidità sia del mercato del lavoro sia di quello dei servizi. Il dito viene puntato non solo sul governo e sulle lotte intestine alla coalizione di maggioranza, ma anche sulle divisioni all’interno del Parlamento «che – sottolinea S&P – continueranno a limitare la capacità del governo di rispondere in maniera decisa alle sfide macroeconomiche interne ed esterne». Di qui l’outlook, con la possibilità di abbassare ulteriormente il rating dell’Italia nelle settimane a venire.

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La prima reazione del governo è degna della demenza senile, o della mania di persecuzione. Ma non c’è da ridere. E’ una dimostrazione di incompetenza e menefreghismo che ci sta sotterrando a velocità crescente.

dalla Reuters

Italia, Chigi: da S&P giudizio politico, non dettato da realtà

martedì 20 settembre 2011 08:49

ROMA (Reuters) – Il governo italiano respinge la bocciatura con cui S&P ha stanotte ridotto il rating all’Italia mantenendone l’outlook negativo e in una nota sottolinea che queste valutazioni appaiono “viziate da considerazioni politiche”, più che dalla realtà dei fatti.

In una nota diffusa dalla presidenza del Consiglio, il governo ribadisce di aver “sempre ottenuto la fiducia dal Parlamento, dimostrando così la solidità della propria maggioranza”.

Le valutazioni di Standard & Poor’s, dice la nota “sembrano dettate più dai retroscena dei quotidiani che dalla realtà delle cose e appaiono viziate da considerazioni politiche. Vale la pena di ricordare che l’Italia ha varato interventi che puntano al pareggio di bilancio nel 2013 e il governo sta predisponendo misure a favore della crescita, i cui frutti si vedranno nel breve-medio periodo”.

Standard & Poor’s ha declassato di un ‘notch’ la propria valutazione sul merito di credito sovrano della Repubblica italiana, portandolo ad ‘A/A-1’ da ‘A+/A-1+ con un outlook che resta negativo.

L’agenzia, che aveva messo sotto osservazione il rating dell’Italia in maggio, sottolinea che le prospettive di crescita dell’economia si sono deteriorate e che il governo di Silvio Berlusconi non sembra in grado di dare risposte efficaci.

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dal Corriere della sera

Verdetto su una politica incapace di scelte

Non è semplicemente un declassamento del debito, o meglio non lo è solo di quello. È un declassamento del governo, del Parlamento, dell’ossessiva opera di blindatura dello status quo di un’economia in crisi da parte di sindacati, aziende in posizione dominante, ordini professionali, pubblico impiego.

L’annuncio di Standard & Poor’s questa notte, poco dopo la chiusura di Wall Street e poco prima dell’apertura delle Borse in Asia, non parla solo di finanza. Parla soprattutto di politica e delle rappresentanze nella società italiana. Lo fa dopo tre o quattro giorni di tensione sulle linee fra le agenzie di rating e i regolatori, in cui un imminente declassamento anche da parte di Moody’s era stato rinviato all’ultimo minuto.

Moody’s, che aveva acceso un faro sull’Italia tre mesi fa, valutava un declassamento di ben due gradini e per ora ha spostato tutto al mese prossimo. Standard & Poor’s, che invece aveva messo l’Italia sotto esame quattro mesi fa, è andata anche lei vicinissima a una duplice bocciatura: alla fine ha sì tagliato il rating (da A+ a A sul lungo termine) ma ha di nuovo assegnato al giudizio sul debito dell’Italia «prospettive negative». Significa che se le tendenze attuali non saranno invertite un nuovo declassamento può arrivare tra non molto e l’Italia rischia così di perdere il rating in «A», caso raro fra i Paesi avanzati.

Sono anni che le agenzie di rating non prendono più prigionieri, non fra i governi più indebitati, soprattutto non dopo gli eccessi d’indulgenza (interessata) durante la bolla dei subprime . Oggi competono fra loro in severità verso i governi, mosse da una logica interna che non tiene conto di mercati che corrono su ghiaccio sottile.

Forse è anche per questo, per evitare le accuse di aver preso decisioni a tradimento, che stavolta la motivazione è curata e soprattutto ricca di accenti nuovi. S&P’s parla sì di una capacità di crescita del Paese che continua a deludere anche rispetto alle deboli medie dell’ultimo decennio. Secondo l’agenzia, l’aumento medio annuo del Pil fino al 2014 sarà di appena lo 0,7%, quasi la metà di quanto immaginato fin qui. E gli analisti di concentrano certamente anche sul fatto che il debito toccherà un picco più alto di quello previsto prima (al 117% del Pil quest’anno) per poi scendere più lentamente. Pesa a loro dire una manovra concentrata per circa due terzi sulle entrate, che produrrà «una performance economica più debole e tale da limitarne l’efficacia»: S&P’s non crede che la nuova finanziaria produrrà una correzione di quasi 60 miliardi, proprio perché l’eccesso di pressione fiscale frenerà lo sviluppo.

Ma il debito e la crescita minima sono solo i sintomi. La radice della bocciatura è nella politica e nelle resistenze al cambiamento diffuse nella società. «La fragile coalizione di governo e le divisioni nel parlamento continueranno a limitare la capacità di rispondere con efficacia alle sfide», scrive S&P’s. Anche perché una spinta in più al declassamento, aggiunge l’agenzia, è venuta dagli sbandamenti del governo nel disegnare la manovra: «La risposta esitante alle pressioni di mercato suggerisce continua incertezza politica in futuro sui mezzi per rispondere alle difficoltà». Il governo resta «riluttante a affrontare i problemi» più importanti: mercato del lavoro rigido e tale da escludere troppe persone, settore pubblico inefficiente, protezionismo di fatto nei confronti degli investimenti esteri.

Ma, appunto, il problema non sono solo il governo o la maggioranza. Quasi con incredulità, S&P’s registra il sabotaggio al cambiamento da parte di quasi tutti, che per gli analisti resta «la principale ragione di debolezza»: «Anche sotto pressione di mercato, le istituzioni politiche, le aziende in posizione dominante, gli statali, i sindacati del settore pubblico e privato bloccano la capacità del governo di agire». L’agenzia registra l’opera d’interdizione in parlamento, in luglio, delle misure di liberalizzazione degli ordini professionali; quindi ricorda la fallita cessione di Alitalia a Air France a causa del veto dei sindacati. La conclusione di S&P’s non lascia ben sperare, al contrario: «Non è chiaro cosa si possa fare per rompere il blocco fra queste istituzioni politiche e il governo». Nel frattempo, «i tassi d’interesse di mercato sono previsti in aumento». Detto in un linguaggio più chiaro: se l’Italia non cambia, e in fretta, i debiti pubblici e privati costeranno (e peseranno) sempre di più.

Federico Fubini

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da La Stampa

Standard & Poor’s declassa il debito dell’Italia: “Il Paese è troppo fragile”

FRANCESCO SPINI

MILANO
Il debito pubblico dell’Italia aumenterà più del previsto, le prospettive di crescita si stanno indebolendo e la fragilità della coalizione di centrodestra e le divisioni in Parlamento continueranno a limitare l’azione del governo. Pesano come un macigno le parole dell’agenzia internazionale Standard & Poor’s che all’una della notte scorsa ha deciso di tagliare il rating dell’Italia declassando il debito sovrano a breve e a lungo termine portandolo a «A» da «A+» e a «A-1» dal precedente «A-1+». L’Outlook è negativo.

Il declassamento, spiega S&P in un comunicato «riflette la nostra visione di prospettive di crescita indebolita» per il Paese. Inoltre, spiega l’agenzia di rating «la fragile coalizione di governo e le differenze politiche all’interno del Parlamento continueranno probabilmente a limitare l’abilità dell’esecutivo a rispondere con decisione a un contesto macro-economico interno ed esterno difficile». Non solo Standard & Poor’s si dice poco soddisfatta anche della manovra varata dal governo italiano.

L’agenzia rileva che la manovra aiuterà ben poco ad alimentare la crescita economica dell’Italia, che peraltro farà fatica a centrare gli obiettivi fiscali previsti. Fonti del Tesoro minimizzano la decisione di S&P: l’abbassamento del rating sarebbe già stato scontato dai mercati. Lo si vedrà stamattina alle 9,30 quando Piazza Affari e le altre Borse europee riapriranno le negoziazioni. Al momento c’è ben poco da sperare visto che già ieri è stata una giornata nera sui mercati, colpiti dalle vendite sui timori del crac della Grecia e la paura del contagio in Europa. Ieri a fine seduta l’indice Stoxx 600, che esprime l’andamento dei principali titoli europei, lascia sul campo il 2,26%. Tradotto in danaro, significa che la capitalizzazione globale europea s’è alleggerita di 137 miliardi. A Milano vanno in fumo 10,5 miliardi, con l’Ftse Mib che cede il 3,17%: il risultato peggiore dopo il -3,42% di Stoccolma. Sulla falsariga tutte le principali piazze finanziarie, con Francoforte che cede il 2,83%, Parigi il 3% e Londra il 2%. Soffrono le borse, soffre la moneta unica, che dagli 1,3799 dollari di venerdì, piomba fin sotto quota 1,36 per chiudere a 1,3687.

La nuova ondata di sfiducia trae origine dalle divisioni emerse nell’ultima riunione polacca dell’Ecofin, con i ministri finanziari europei che hanno deciso di rinviare a ottobre le decisioni sulla nuova tranche di aiuti alla Grecia, senza peraltro trovare identità di vedute nemmeno su altri temi sul tappeto, come la Tobin Tax. Il pallino, dunque, a cominciare dal futuro della Grecia resta in mano alla Germania. che punta a rassicurare, dicendosi fiduciosa che il 29 settembre, salvo slittamenti tecnici, il parlamento tedesco ratificherà quanto deciso in sede comunitaria sul piano di salvataggio varato dall’Europa e sul ruolo dell’Efsf, il fondo salva-stati la cui dotazione sarà innalzata a 440 miliardi.

Il presidente Klaus Regling chiarire che il suo fondo salvaStati non sarà un bancomat: l’Efsf potrà comprare titoli di Stato europei sul mercato secondario. A patto però che i Paesi «aderiscano a condizioni molto rigide». Per il momento una pezza, tra le continue critiche tedesche, continua a mettercela la Bce. Che anche ieri interviene sul mercato acquistando titoli dei paesi periferici finiti sotto la lente del mercato, come Spagna e Italia. Grazie a questo tampone il differenziale di rendimento – lo spread – tra i titoli decennali italiani e tedeschi sale fin oltre i 380 punti base, ma è sotto l’area d’allarme dei 400. Nel contempo cresce il disappunto tedesco sull’intervento prolungato dell’Eurotower, un impegno che «deve essere giudicato severamente», secondo il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann.

Una stampella, quella della Bce, che per il banchiere tedesco renderebbe però meno trasparente la demarcazione tra politica monetaria e politica di bilancio. Settimana scorsa la Bce ha però diminuito la portata dei suoi acquisti: 9,79 miliardi contro i 14 della settimana precedente.

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Trichet: Atene va sostenuta, ma Spagna e Italia sono cruciali

 

MARCO ZATTERIN

 

CORRISPONDENTE DA BRUXELLES
Soffitti alti, una lunga tavola ovale servita con posate d’argenteria barocca, e una trentina abbondante di invitati selezionati con cura nella Bruxelles che conta. Spiccano il Visconte Étienne Davignon, da sempre anima della finanza belga ed europea, e il ministro delle Finanze di casa Didier Reynders, circondati da banchieri, diplomatici, e grand commis di peso. Sono tutti ospiti di Luc Coene, governatore della Banca nazionale del regno di Alberto II, invitati per ascoltare Jean-Claude Trichet che lascia la Bce fra poco più di un mese. «Siamo la banca centrale di tutti – dice il francese riassumendo alla luce della crisi gli otto anni a Francoforte -. E a maggior ragione lo siamo di paesi come Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia». I Pigs, come li chiamano gli analisti, ma non l’ospite della colazione.

 

Il 69enne presidente dell’Eurotower è volato apposta nella capitale belga per incontrare le teste coronate dell’economia del «paese piatto», un faccia a faccia a porte chiuse che segue la due giorni polacca di Wroclaw, sua ultima partecipazione coi galloni Bce a una riunione informale dell’Ecofin. Riunione delicata, in questi frenetici in cui i bilanci di ciò che è stato diventano esigenza di capire come battere il male che minaccia l’euro e l’Europa intera. Per cui è normale che Trichet, riferisce un diplomatico che ha partecipato all’incontro, abbia puntato sulle regole e rivendicato la piena coerenza fra le sue scelte e i compiti assegnatigli dai Trattati. E’ la saga dell’«abbiamo fatto sino in fondo il nostro dovere».

 

Salta fuori in fretta quello che tutti sanno, che in molte capitali l’attivismo salvifico della Bce non è stato gradito, non è piaciuto l’acquisto di bond italiani e spagnoli, come i consigli dati per iscritto alle coalizioni finite colpevolmente nel frullatore della speculazione. «Non abbiamo mai pensato di sostituirci ai governi – risponde Trichet -. Sono loro che devono decidere individualmente i loro destini». Eppure, «questo non toglie che la banca centrale abbia l’obbligo di monitorare e orientare le politiche nazionali usando le armi appropriate». Proprio armi, ha detto, usando il termine inglese “weapons”. In fondo, là fuori sui mercati, c’è una vera e propria guerra.

 

Sincero è apparso il Trichet che si prepara a passare il testimone a Mario Draghi. Ha pure ammesso che, all’inizio del mandato, non avrebbe mai pensato di utilizzare con così tanta frequenza parole come «governance» e «gestione della crisi». E di questo ha parlato, a tratti col medesimo tono commosso con cui sabato a Wroclaw si è fermato a conversare coi giornalisti. Ieri, un pubblico ben diverso ha ascoltato un linguaggio coerente. «In questi anni abbiamo mantenuto la promessa di conservare garantire la stabilità dei tassi, governando l’economia e la finanza europee anche in tempo di crisi».

 

La congiuntura lo assilla. La fonte diplomatica racconta che il francese ci vede al «terzo episodio della crisi finanziaria globale», posto che il primo è stato il crollo dei mutui speculativi subprime, il secondo la caduta della Lehman e il terzo è la tempesta dei debito sovrani che «ha in sui epicentro in Europa». Il problema che resta, ha evidenziato Trichet, è nelle soluzioni parziali che ancora abbiamo: «La global governance funziona – è il concetto espresso -, mentre ciò che è difficile realizzare è la local governance». Il comportamento dei singoli, insomma, rischia di minare i risultati della collettività. Cauto nell’abbordare le concretezze della crisi, Trichet reitera la convinzione che penalizzare o sospendere i paesi dell’Eurozona che non rispettino gli impegni, come auspicano soprattutto i tedeschi, «non è una buona idea». Il concetto successivo è quello che rimanda alla sfida di domani. Il francese si dice certo che «la Grecia va sostenuta», ma poi ricorda che – per la tenuta del sistema è il risultato che si avrà con Italia e Spagna a essere cruciale. Che sia ottimista o pessimista, alla fine si limita a lasciarlo immaginare. Il diplomatico che ripercorre i discorsi a tavola ricostruisce il concetto. «L’ottimismo è importante, ma non quanto lavorare duro». Letterale o meno, è una frase in cui si ritrova tutto Jean Claude Trichet, l’uomo e il banchiere centrale.

 

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Se la crisi accelera

STEFANO LEPRI

È faticoso far capire ai tedeschi che salvare l’euro è interesse anche loro. Per riuscirci Angela Merkel alza il tono; finita la tornata di elezioni regionali che ha ammaccato non poco la sua maggioranza – segnando un complessivo spostamento a sinistra – potrà forse impegnarsi di più. La prima cosa da mettere in chiaro è che finora dalle traversie dell’euro la Germania ha guadagnato.

Il soccorso a Grecia, Irlanda e Portogallo finora non è costato nulla, perché fatto di prestiti a tassi remunerativi. Si aggiunge il vantaggio netto dell’isteria dei mercati, che mentre spingeva in su gli interessi sui titoli di Stato dei Paesi deboli, ha abbassato i rendimenti di quelli tedeschi.

Grazie a questi tassi anormalmente bassi (l’altro lato dello spread che preoccupa noi italiani) il governo di Berlino ha risparmiato 3,4 miliardi di euro in interessi quest’anno, e potenzialmente 32,8 nell’arco di sette anni, secondo i calcoli di due noti centri studi tedeschi, quelli di Halle e di Kiel. Se ci saranno futuri oneri da sopportare, da parte di tutti i Paesi membri, per salvare l’euro, la quota a carico della Germania andrà valutata anche su questo sfondo.

D’altra parte, è difficile a tutti gli europei orientarsi, quando perfino gli esperti non concordano sulla via d’uscita meno costosa. Economisti famosi fanno a gara a indicare soluzioni divergenti. Solo sui giornali di ieri l’americano Nouriel Roubini sentenziava che per la Grecia non c’è nulla di meglio che tornare alla dracma, mentre l’anglo-olandese Willem Buiter ribatteva che così si metterebbe quel Paese in ginocchio in cambio di vantaggi effimeri.

Tuttavia per l’insieme dell’area gli studi concordano: una rottura sarebbe la catastrofe peggiore, con una recessione di portata simile a quella del 2009 (sentiremo oggi che ne dice il Fmi) e un futuro più incerto. Proprio perché i primi da convincere sono i tedeschi la banca svizzera Ubs valuta il costo di una rottura dell’euro cifrandolo come spesa media a carico di ciascun cittadino della Germania: 6-8.000 euro in caso di ritorno al marco. Sarebbe molto inferiore, forse un decimo, il costo di una insolvenza dello Stato greco. È questa la soluzione di cui tutti parlano sottovoce, ma che occorre non menzionare ufficialmente non tanto per non agitare i mercati, che lo sanno benissimo, quanto per buone ragioni politiche. Che la Grecia risani il bilancio e ristrutturi la propria economia è una necessità in ogni caso; non poteva tirare avanti a lungo un Paese che, nel 2010, consumava 110 per ogni 100 che produceva all’interno. Non si può offrire una sanatoria ad Atene prima che abbia fatto tutto il necessario; né prima che sia chiaro che si tratta davvero di un «caso unico» come si è affermato negli ultimi vertici europei. L’Irlanda sta già cavandosi dai guai da sola, il Portogallo ha forse imboccato la strada buona (entrambi i Paesi dopo nuove elezioni e un cambio di governo); ma hanno bisogno di altro tempo. Occorre poi essere pronti a resistere al contraccolpo del default greco con risorse sufficienti per fermare attacchi dei mercati a Italia e Spagna; pronti, anche, a ricapitalizzare le banche europee, specie le francesi, gravate da troppi titoli di Stato greci in cassa. Sarebbe un’Europa, come dice un recentissimo rapporto dell’americana Citibank, del «chi rompe paga e i cocci sono suoi»; dove cioè i governi se sbagliano fanno bancarotta ma senza conseguenze devastanti. Occorre però che il «minimo necessario» su cui l’Europa riesce a trovare l’accordo si trovi a un livello più alto di quanto è avvenuto finora. Quanto tempo si potrà andare avanti così? Qualche mese, dicono i meno pessimisti; oppure qualche settimana. Un cambio di prospettiva in Italia certo aiuterebbe.

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da Il Sole 24 Ore

La credibilità perduta

di Marco Fortis


In un momento difficile e complesso come quello attuale, nel pieno della crisi dei debiti sovrani e con un’incombente stagnazione economica alle porte, la credibilità di un Governo è un fattore assolutamente strategico e la sua strategia di politica economica deve essere credibile. Il taglio a sorpresa del rating italiano da parte di Standard & Poor’s conferma che il paese paga il conto di una grave crisi di credibilità.

Purtroppo, da tempo l’Italia ha perso la prima, mentre a partire dall’estate ha cominciato a ondeggiare paurosamente anche sulla seconda, fino a quel momento impostata su una buona tenuta del deficit di bilancio rispetto alle autentiche voragini prodottesi nella maggior parte dei conti degli altri Paesi. Il tremendo cambio di passo imposto dalla crisi, con il crollo delle Borse e la “fuga dal rischio”, ha repentinamente spostato l’attenzione dei mercati e degli investitori dalle azioni messe in campo dai Governi semplicemente per riequilibrare i bilanci statali al ben più complesso problema dei livelli assoluti del debito, con il crescente timore che l’enorme massa dei debiti pubblici e privati, nuovi e/o in scadenza, possa rapidamente condurre il mondo avanzato a una vera e propria implosione finanziaria.

L’Italia, tenutasi fino a quel momento al coperto e lodata per il relativo rigore del suo bilancio, di colpo si è trovata al vento, un vento divenuto ben presto tempesta. Al punto che nel nuovo clima d’emergenza ci è stato richiesto dall’Europa e dalla Bce di accelerare di un anno, dal 2014 al 2013, l’azzeramento del deficit pubblico. Il gran caos attorno alla manovra finanziaria estiva, con ripetuti annunci e contrordini sui contenuti della manovra stessa, ha acuito la sensazione che il governo del Paese vacillasse, mentre il montare degli scandali e delle controversie giudiziarie riguardanti il premier ha ulteriormente minato la credibilità dell’esecutivo. Soltanto così si spiega il “sorpasso” degli spread dei titoli di Stato italiani su quelli della disastrata Spagna, ritenuti fino a quel punto più rischiosi dei nostri, rispetto al consueto parametro di riferimento dei bund tedeschi. Una deriva, quella dei nostri titoli pubblici, che avrebbe potuto essere anche maggiore senza gli acquisti di sostegno da parte della Bce.

Non è esagerato dire che in una sola estate, come una cicala, l’Italia abbia sprecato tutta la credibilità che si era costruita come formica da quando, nell’ottobre del 2008, esplose la crisi dei mutui subprime. Con ciò non soltanto complicando il collocamento dei titoli pubblici italiani sul mercato ma rendendo anche vieppiù diffidenti i nostri partner europei nei riguardi di proposte pur innovative degli Eurobond, come quella avanzata su questo giornale da Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio.
Eppure il nostro Paese, all’inizio, era rimasto relativamente ai margini della tempesta, non essendovi stata in Italia una “bolla” immobiliare e finanziaria come negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Spagna, Irlanda. Risultavamo meno colpiti, con le famiglie italiane che erano (e restano) tra le meno indebitate al mondo, con le nostre banche solo sfiorate dal crack finanziario dei titoli “spazzatura” e con una crisi che da noi ha pesato più sulle imprese esportatrici e sugli investimenti che non sui consumi delle famiglie.

Anche quando è divampata la crisi della Grecia, seguita poi da quelle d’Irlanda e Portogallo, l’Italia, nonostante il suo storico elevato livello del debito, è rimasta a lungo relativamente indenne da conseguenze negative. Anzi, nell’immaginario collettivo eravamo finalmente usciti dal gruppo dei Pigs. Inoltre, le nostre banche ancora una volta sembravano solide, non risultando esposte nei Pigs stessi, diversamente dalle banche tedesche, francesi, inglesi e olandesi.
Non è passato un secolo ma era soltanto l’inizio dello scorso giugno quando la Commissione europea riteneva il nostro piano di consolidamento finanziario “credibile fino al 2012” e l’Economist, in un articolo fortemente critico su Silvio Berlusconi, scriveva che «la principale ragione per cui l’Italia è rimasta estranea alla crisi dell’Eurozona è che il ministro delle finanze Giulio Tremonti ha frenato gli istinti populisti e di spesa facile del suo premier e ha imposto una rigida disciplina fiscale. Tremonti ha fatto poco per far crescere l’economia ma ha tranquillizzato gli investitori sulle capacità dell’Italia di poter finanziare il suo elevato debito pubblico».

In soli tre mesi, dopo le rocambolesche vicende della manovra finanziaria e i crescenti contrasti all’interno della maggioranza, tutto sembra radicalmente cambiato e la credibilità del Governo italiano sul piano internazionale è scesa ai minimi storici.
In realtà, non sono peggiorati i nostri fondamentali. Anzi, in alcuni casi sono migliorati. Il nostro Pil cresce poco per la persistente debolezza della domanda interna ma l’export italiano nei primi sei mesi del 2011 è cresciuto più di quello tedesco. La ricchezza finanziaria e immobiliare delle famiglie italiane resta fra le più alte al mondo. Inoltre, l’Italia continua ad avere uno dei migliori bilanci primari. Le statistiche dell’Eurostat ci dicono che il nostro Paese è già tornato in avanzo primario nel primo trimestre del 2011, mentre gli altri tre maggiori Paesi dell’Unione europea e i 4 Pigs erano ancora in rosso (come appare dai grafici). Con la nuova manovra finanziaria, ancorché squilibrata fra troppe tasse e pochi tagli di spesa, il nostro avanzo primario crescerà ulteriormente e rapidamente. Nessun altro Paese in Europa riuscirà a fare altrettanto. Continuerà quindi la prodigiosa capacità dell’Italia di generare avanzi primari consistenti, grazie soprattutto, però, ai continui sacrifici di famiglie e imprese tramite nuove tasse e aumento dei costi o soppressione di servizi pubblici piuttosto che mediante tagli della spesa statale improduttiva e dei costi della politica.

È comunque un dato di fatto che dal 1996 al 2008, escludendo gli interessi, le entrate statali cumulate dell’Italia hanno superato le uscite di oltre 500 miliardi di euro a prezzi 2000, un ammontare di circa 70 miliardi superiore a quanto siano riuscite a fare nello stesso periodo Germania, Francia e Spagna tutte insieme! A tanto assomma il Sacrificio interno lordo (Sil) degli italiani.
Ma, oggi, anche questo non basta più. Per ridurre il livello assoluto del debito pubblico finito nel mirino degli attacchi speculativi, per evitare eventuali declassamenti delle agenzie di rating e per rilanciare la crescita economica che langue, serve una strategia coerente e coraggiosa, come quella proposta da questo giornale nei suoi “nove punti”. Magari con l’introduzione di alcune nuove aggiunte, come quella di una piccola tassa patrimoniale costante nel tempo, come proposto nei giorni scorsi da Guido Tabellini, utile eventualmente per finanziare la riduzione degli oneri contributivi delle imprese e rilanciare la competitività, visto che la carta dell’aumento dell’Iva è già stata giocata solo per fare cassa.
Ma una strategia economica, per essere credibile, necessita anche di un Governo credibile che la ponga in essere. Ed è soprattutto questo che oggi ci manca, più che i numeri.


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