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Una crisi affrontata ognun per sé

Galapagos
IL PIANTO DEL COCCODRILLO

La Grecia dal 2008 è in recessione e – lo ha confermato ieri il responsabile permanente del Fondo monetario ad Atene – nel 2011 il Pil diminuirà del 5,5% (ma la previsione sembra ottimista) e il prossimo anno cadrà di un altro 2,5%. In un quadriennio, quindi, il Prodotto lordo di Atene risulterà più basso di un 12-15 per cento di quello dell’inizio 2008. La cifra esatta nessuno sa darla: anche gli organismi internazionali fanno fatica a quantificarla visto il caos statistico sul quale ha costruito le sue fortune (e la disgrazia del paese) il partito conservatore ora all’opposizione. In ogni caso, stiamo parlando di una cifra attorno a un settimo della «ricchezza» nazionale.
Parlare di ricchezza per un paese che è agli ultimi posti in Europa per reddito pro-capite è una autentica beffa. Probabilmente il Pil è più alto di quello che indicano le statistiche perché l’evasione fiscale è enorme e – come in Italia – a evadere non sono i lavoratori dipendenti. Il risultato è un paese caratterizzato da una distribuzione del reddito mostruosa, sia a livello ufficiale e ancor più sommando il «nero»: una piramide con una base enorme e con un vertice (i ricchi) molto sottile numericamente, ma che è riuscito a mettere in ginocchio il paese. A cominciare dal novembre 2009 quando ha esportato all’estero – clandestinamente – montagne di euro provenienti da vendite anticipate di titoli del debito pubblico.
Fin dall’inizio del 2010 era evidente che la Grecia aveva bisogno di aiuto internazionale. Se fosse arrivato tempestivamente non staremmo ora a parlare di questione greca. Ma Atene non aveva fatto i conti con l’avidità e la stupidità dei parenti della famiglia dell’euro. I primi soldi sono arrivati tardi e con il ricatto di una manovra correttiva che strangolava il paese, anzi gli strati più poveri. Con una aggravante: i prestiti sono stati concessi non per salvare il livello di vita della popolazione, ma per impedire alle banche estere che avevano acquistato bond greci, che pagavano alti rendimenti, di fare bancarotta se la Atene non avesse più onorato il debito.
Avidità per salvare un sistema bancario ingordo, avidità per mettere le mani sul patrimonio pubblico di un paese al quale sono state imposte privatizzazioni enormi (a favore del capitale estero) ma anche licenziamenti di massa nel settore pubblico (150 mila in tre anni) che è stato particolarmente preso di mira (con tagli alle retribuzioni) dal governo. Ma anche stupidità, perché l’egoismo e l’avidità rendono ciechi: l’Europa non si è resa conto che così facendo – o meglio imponendo di fare – si stava sfasciando il paese con il rischio – reale – di un default che ora sta seminando il terrore su tutti i mercati globali.
La crisi del ’29 sembra non aver insegnato nulla alla politica e ai politici: le azioni per fuoruscire dalla crisi del 2008 sono state tutte concentrate sulla finanza, abbandonando a se stessa l’economia reale che non a caso è entrata in crisi un po’ dappertutto. Non ci si è resi conto che il problema vero era la contrazione dei redditi da lavoro e le ridotte capacità di spesa. Per un sistema che vive sull’aumento costante della domanda questo ha provocato il collasso. Ma la domanda non sono solo le merci che il sistema produce, ma quell’insieme di servizi che rendono la vita vivibile: sanità, previdenza, istruzione, abitare e mobilità. Oggi, invece, le ricette che vengono suggerite assomigliano non a quelle di Rooselvelt, ma a quelle di Hoover che credeva solo nella carità e non nel ruolo sociale dello stato. Ma si sa: l’Europa sociale è una chimera.

da “il manifesto”
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Le regole (impossibili) per lasciare l’euro

di Massaro Fabrizio

Lo studio per le cancellerie Ue: «Il ritorno alle monete nazionali non è previsto dalle norme del Trattato, ha durata illimitata»

Si può uscire legalmente dall’euro? Si può uscire eventualmente in maniera illegale, cioè strappando il Trattato? E se sì, che cosa succede dal punto di vista giuridico allo Stato che abbandona la moneta unica o addirittura l’Unione? E soprattutto: in che moneta andranno pagati i titoli di Stato originariamente denominati in euro? Quale tribunale dovrà decidere un’eventuale causa? In una domanda: come verranno tutelati i creditori (banche, fondi istituzionali, risparmiatori) locali e stranieri? Non sono questioni di poco conto, se in tutto il mondo i più attrezzati studi legali da mesi spulciano il diritto comunitario e internazionale e simulano le conseguenze giuridiche di una rottura dell’eurozona.

Finora, sollecitate dai timori di un default della Grecia, le analisi hanno approfondito gli effetti economici di un’uscita di Atene dall’euro: Ubs ha stimato che ogni cittadino greco subirebbe una perdita fra 9.500 e 11.500 euro il primo anno post-euro e di 3-4 mila euro in quelli successivi. Ma anche dal punto di vista giuridico ci sono stati diversi studi e simulazioni, finiti sui tavoli delle cancellerie di tutta Europa, a cominciare proprio da quella greca, la più interessata in teoria a un ritorno alla dracma per riprendere il controllo della politica monetaria.

Ma anche un Paese forte, come la Germania, potrebbe in teoria avere interesse a tornare al marco, o magari a creare una doppia valuta, euro forte ed euro debole. Secondo l’analisi di un grande studio legale internazionale coinvolto nella gestione dei debiti sovrani (che ha chiesto l’anonimato), il punto di partenza da considerare è che non esiste un diritto di uscita dall’euro o dall’Europa, visto che i Trattati sono irrevocabili, fissati «per una durata illimitata».

Di fatto dunque l’abbandono della moneta unica potrebbe avvenire solo con una revisione dei Trattati o con un atto unilaterale di uno Stato: ad ogni modo con un atto politico. Che però non è privo di conseguenze sul piano legale. Visto che l’euro continuerà ad esistere, le obbligazioni dello Stato emesse fino a quel momento come devono essere considerate? Rimarranno espresse e regolate in euro, o saranno convertiti nella nuova (vecchia) moneta, per esempio nella dracma nel caso della Grecia?

La conversione dell’obbligazione nella nuova moneta locale ha ovvie conseguenze nei confronti dei creditori, specialmente se essa dovesse svalutarsi dopo la sua (re)introduzione. Ma non è sempre detto: se infatti lasciasse la Germania, i creditori potrebbero beneficiare della conversione, se il nuovo marco si apprezzerà rispetto all’euro. L’eventuale perdita di valore del bond inevitabilmente esporrà lo Stato debitore a rischi legali. In caso di controversie però il creditore potrebbe trovarsi svantaggiato: è molto probabile infatti che i tribunali dello Stato uscente (di solito competenti per le cause sui bond) possano orientarsi verso una soluzione a favore della valuta locale, indipendentemente dal diritto applicabile al bond o al debito secondo il contratto iniziale.

Ma non è l’unico scenario possibile: anche se il debito è regolato dalla legge dello Stato uscente i tribunali di altri Paesi possono disapplicare la «lex monetae» sostenendo che la nuova moneta, essendo nata dalla violazione di un trattato internazionale è, per così dire, «illegale», e dunque potrebbero non applicarla continuando a sostenere la denominazione in euro dei bond su cui si devono esprimere. In sostanza, i creditori internazionali che hanno acquistato (o sottoscritto) obbligazioni regolate dalle leggi straniere (soprattutto inglesi o americane) pagabili fuori dallo Stato uscente dall’euro manterranno la denominazione in euro del loro debito, sebbene al punto di vista finanziario il deprezzamento della moneta locale comporterà comunque un aumento del rischio di credito.

Viceversa, i creditori basati nello Stato uscente o che hanno obbligazioni regolate dal diritto domestico (di solito i cittadini che hanno titoli di Stato) potrebbe ritrovarsi il proprio credito convertito nella moneta nuova, e dunque esposto alla svalutazione. Insomma un groviglio giuridico che rende pressoché impossibile lo scioglimento dell’Unione. Proprio quello che i padri fondatori dell’Europa volevano ottenere.

dal Corriere della sera

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La catastrofe che seguirebbe la fine di Eurolandia è il miglior deterrente

di Nixon Simon

Forse l’unica cosa che tiene unita Eurolandia è la quasi impossibilità di scioglierla. In altri termini. la catastrofe che il suo collasso potrebbe scatenare. Ciononostante, gli ostacoli politici che devono affrontare i leader dell’Eurozona nella battaglia per salvare la moneta unica sono enormi.

Il primo di essi è rappresentato dalla necessità di decidere se erogare alla Grecia la prossima rata di 8 miliardi di euro del pacchetto di salvataggio, ora rinviata a metà ottobre nel tentativo di aumentare la pressione su Atene perché raggiunga gli obiettivi di risanamento. La minaccia evidente è che il mancato raggiungimento di tali obiettivi provocherebbe l’insolvenza della Grecia.

Pare che tale pressione abbia prodotto risultati: in seguito a una riunione di governo tenutasi domenica, il ministro delle finanze Evangelos Venizelos ha affermato che Atene avrebbe accelerato sulle riforme promesse e introdotto nuove misure volte a garantire il raggiungimento dell’obiettivo di bilancio 2011. Ma se la Grecia otterrà gli aiuti a ottobre, riuscirà solo a rimandare la resa dei conti: secondo Citigroup quest’anno il deficit di bilancio greco sarà con tutta probabilità pari al 10% rispetto a un obiettivo del 7.5%. E Atene ha a malapena avviato il promesso programma di privatizzazione.

Il mercato è convinto che il triumvirato, nome attribuito al team dei funzionari di Fmi, Bce e Commissione europea, dovrà in definitiva ammettere che la Grecia non raggiungerà i suoi obiettivi. Tale evento aprirebbe la strada a un’insolvenza e a una ristrutturazione del debito forzosa, niente affatto volontaria.

Il secondo ostacolo consiste pertanto nel predisporre sistemi di protezione per ridurre il contagio qualora ciò accadesse. Ciò significa che sia i governi sia le banche faranno tutto il possibile per rafforzare i loro bilanci. L’Italia in particolare continua a tergiversare su decisioni complesse ma fondamentali per rassicurare i mercati, tuttavia è puntuale nel rimborsare il proprio debito. E le autorità di sorveglianza delle banche dell’Eurozona si oppongono ancora a ricapitalizzare gli istituti di credito, sostenute dai governi. Ma ciò è necessario a rassicurare i mercati che il sistema bancario è in grado di sostenere molteplici insolvenze sui debiti pubblici.

Il terzo ostacolo è rappresentato dalla ratificazione delle modifiche alla European Financial stabilization facility, il fondo di salvataggio sostenuto da garanzie degli Stati membri dell’Eurozona. che può fornire capitale alle banche e acquistare titoli di Stato sul mercato. Nonostante le promesse di accelerarne la messa in opera, a tutt’oggi pochi paesi hanno approvato le modifiche all’Efsf. Non c’è ancora accordo sulla richiesta della Finlandia riguardo al collaterale per i prestiti di salvataggio alla Grecia. Il parlamento austriaco la scorsa settimana ha posticipato un voto a causa dell’opposizione politica alle riforme. L’assemblea slovacca ha affermato che non inizierà a discutere le modifiche fino a quando tutti gli altri Paesi non le avranno ratificate.

Ma anche se questa modifiche all’Efsf saranno concordate rapidamente. il più grande ostacolo alla sopravvivenza dell’euro potrebbe essere la stessa Bce. Conformemente alle sue regole. la Banca centrale non potrà accettare a garanzia titoli di uno Stato finito in default e pertanto rifiuterà di continuare a fornire mezzi finanziari al sistema bancario greco senza un risarcimento da parte dei leader dell’Eurozona per qualsiasi perdita conseguente.

Considerato che la Bce ha già visto dimettersi due esponenti di alto profilo a causa degli acquisti di titoli, sarà difficile che cambi decisione. I governi, già sotto pressione politica riguardo ai salvataggi in corso, faranno fatica a firmare un assegno in bianco a favore di un Paese che non ha mantenuto le promesse e che è sinora costato molto ai contribuenti dell’Eurozona.

Detto ciò, l’alternativa dovrebbe essere questa: esclusa dal finanziamento della Bce, una Grecia insolvente potrebbe essere costretta ad abbandonare l’ euro. innescando verosimilmente un effetto domino in altri Paesi periferici perché gli investitori cercheranno di abbandonare i sistemi più vulnerabili per puntare su Paesi più solidi, non considerati a rischio di svalutazione e di uscita dalla moneta unica. Il fallimento di I.ehman Brothers ha provocato un disastro, ma al confronto con l’uscita di uno o più Paesi dalla moneta unica potrebbe apparire come un tè in giardino.

da Milano Finanza

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da Il Fatto Quotidiano

Roubini: dracma e default. Solo così la Grecia si può salvare

Atene è inchiodata in un circolo vizioso di insolvenza, scarsa competitività e sempre più profonda depressione” scrive oggi sul Financial Times Nouriel Roubini. L’unica soluzione è l’abbandono dell’unione monetaria. Una scelta non certo indolore. Ma in definitiva decisamente benefica

Nonostante l’importanza e la delicatezza dei temi in agenda (Israele, Palestina, Libia), il primo ministro greco Georgios Papandreou diserterà in questi giorni le riunioni dell’assemblea generale delle Nazioni Unite per il più banale e giustificabile dei motivi: non ha materialmente tempo di esserci. In altre faccende affaccendati, come si dice in questi casi, il premier e la Grecia si preparano infatti ad affrontare i sette giorni più lunghi della loro storia recente. Quelli, per intenderci, al termine dei quali il Paese potrebbe anche scoprirsi ufficialmente in bancarotta. Un esito fortemente temuto ma non per questo, forse, così tragico come sembrerebbe. Almeno a sentire chi di crisi e collassi se ne intende come pochi altri.

“La Grecia è inchiodata in un circolo vizioso di insolvenza, scarsa competitività e sempre più profonda depressione – scrive oggi in un editoriale pubblicato sul Financial Times Nouriel Roubini, il più ricercato guru della crisi finanziaria da lui stesso predetta in tempi non sospetti – acuito da misure draconiane di austerità fiscale, il suo rapporto debito/Pil punta verso quota 200%. La via d’uscita è l’avvio di una procedura di default e il volontario abbandono dell’eurozona con il ritorno alla dracma”.

La considerazione di fondo è evidente: l’erogazione dei fondi di salvataggio è stata condizionata a un giro di vite della spesa pubblica cha ha saputo produrre solo recessione. Gli speculatori hanno preso di mira i titoli di Stato di Atene e i cosiddetti “investitori lunghi”, di natura più prudenti, si sono regolati di conseguenza. Il risultato è stato un’esplosione dei tassi di interesse che ha vanificato ogni sforzo di rientro. Il deficit, insomma, è riuscito a divorare i risparmi di spesa statale attivando il circolo vizioso di cui sopra. Una situazione chiaramente insostenibile.

Il default e l’addio all’unione monetaria rappresentano il grande spauracchio non solo di Atene ma dell’intera Europa. Eppure, a ben vedere, non sembrerebbero esserci altre soluzioni. La Grecia non può fare affidamento su un indebolimento dell’euro che rilanci la sue esportazioni: certo, i tassi europei sono ancora relativamente alti, ma un loro abbassamento avrebbe in definitiva effetti limitati a fronte delle politiche espansive (che implicano un basso costo del denaro) già in atto negli Usa e in Gran Bretagna (per non parlare del Giappone, ma lì si tratta di un aspetto endemico). Insomma, un cambio di rotta in tal senso da parte della Bce potrebbe rilanciare la corsa della locomotiva tedesca, ma sarebbe del tutto inutile per la disastrata motrice greca.

Nulla da fare, spiega Roubini, anche sul fronte degli interventi interni a cominciare, in primis, da quella serie di riforme strutturali che mirassero a rilanciare la redditività del lavoro, in modo che la produttività aumenti più dei salari, o che, in alternativa, puntassero direttamente sulla riduzione degli stipendi (anche solo non adeguandoli all’inflazione). In questo modo, spiega, si alimenterebbe soltanto il circolo della depressione economica generale almeno per un quinquennio. Un tempo che la Grecia non ha più. Insomma, l’unica via d’uscita si chiama dracma, una scelta estrema, certo, ma anche giustificata da qualche confortante precedente storico come quello evocato dalla celebre ripresa argentina sulla quale, più di ogni altra cosa, pesò la svalutazione della moneta nazionale (che in precedenza era stata sciaguratamente agganciata al dollaro Usa con uno sconcertante rapporto di 1 a 1).

“Certo – scrive Roubini – questo processo sarà traumatico” e il problema principale sarà costituito dalle perdite patite dalla maggiori istituzioni finanziarie europee. Al tempo stesso, tuttavia, queste perdite “potranno essere gestite con opportune e aggressive politiche di ricapitalizzazione”. In fondo, aggiunge ancora il docente della NY University, “l’esperienza recente dell’Islanda, così come quelle di molti altri mercati emergenti negli ultimi venti anni, evidenzia come una ristrutturazione ordinata e una riduzione del debito estero possano ripristinare la sostenibilità, la competitività e la crescita. In questo senso, il danno collaterale patito dalla Grecia potrà essere significativo ma contenuto”.

In attesa di dare retta al guru, intanto, il ministro delle finanze greco Evangelos Venizelos si riunirà oggi in teleconferenza con i rappresentanti dei creditori del suo Paese per illustrare loro i nuovi piani di taglio alla spesa. Tra le ipotesi, una riduzione del numero dei dipendenti pubblici e una nuova sforbiciata ai salari. In bocca al lupo.

 

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