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Crisi: la contraddizione lacerante tra “soluzioni” e “consenso”

Per tutti i governi nazionali è sempre stato chiarissimo che, con questa ricetta, il loro consenso politico interno finiva a carte quarantotto. E quindi ognuno, nelle trattative internazionali, ha cercato di tirare la coperta il più possibile dalla propria parte (più i paesi forti che quelli deboli, com’è logico). MA così le “soluzioni” venivano trovate più lentamente, venivano condizionate da interessi contraddittori (tra loro e con le “soluzioni” stesse), perdevano anche quel poco di efficacia che – liberisticamente – avrebbero dovuto avere.

Il quadro che restituisce Wolfgang Munchau, uno degli editorialisti più auteorevoli del Financial Times, è disperante. Ma evidenza con insolita chiarezza proprio la contraddizione sottaciuta da tutti: quella tra processo democratico e gestione tecnocratica. Dovunque penda la bilancia, il risultato sarà un aggravamento della situazione. Ma lo stallo può essere anche peggio…

E’ – e comincia ad essere percepita – una situazione senza via d’uscita indolore. Le contraddizioni non appartengono (solo) alla sfera logica della dialettica: sono il motore del reale. E si mostrano solo qando sono ormai irrisolvibili “con mezzi ordinari”.

Degno di nota anche il ripensamento in atto in una parte degli “intellettuali organici alle imprese”, che sembrano ora tornare al “buon vecchio mondo antico” della manifattura come unica base reale di ogni “crescita”. E segnaliamo quindi anche l’articolo di Ronchetti, sul Sole 24 Ore di oggi, che ammette persno “la crisi da sovraproduzione”. Gli inglesi dicono “i fatti hanno la testa dura”, e a forza di sbatterci alcune teste (umane) si aprono…

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Non ho mai visto politici così spaventati

Wolfgang Munchau

L’incapacità del mondo a scrollarsi di dosso la crisi economica e il contagio in Italia ha cambiato la natura della crisi dell’euro. Ciò che una volta era un problema del debito dei piccoli paesi periferici sta ora minacciando l’esistenza dell’euro. I leader europei non hanno visto che questo stava per accadere. Non sono riusciti a ricapitalizzare a sufficienza il sistema bancario. E quando hanno progettato l’impianto europeo di stabilità finanziaria, hanno creato un meccanismo adatto solo per i piccoli paesi. La loro strategia si è scollata strada facendo.

Alle riunioni autunnali del Fondo Monetario Internazionale e la Banca mondiale, i politici dell’eurozona sono arrivati sotto un livello senza precedente di pressione ad agire. Lo faranno?

A livello puramente tecnico, la crisi della zona euro può ancora essere risolta. Un bond della zona euro, affiancato da un’unione fiscale minimamente sufficiente, potrebbe riuscirci. In alternativa, la Banca centrale europea potrebbe produrre lo stesso effetto estendendo il suo programma di acquisti di obbligazioni. Entrambi i passaggi richiederebbero una riforma fiscale e finanziaria.

Una proposta più modesta, ma efficace, potrebbe essere quella di rafforzare il EFSF. Gli economisti Thomas Mayer e Daniel Gros hanno proposto che si dovrebbe arrivare a una licenza bancaria in per poter attingere ai fondi della BCE. Altri hanno proposto che l’EFSF potrebbe emettere obbligazioni scontate. Ho anche sentito una proposta per trasformarla in una compagnia di assicurazioni.

Le proposte hanno in comune che la EFSF farebbe da leva, in modo da poter operare oltre il suo tetto nozionale di 440 miliardi di euro.

I dettagli tecnici sono complicati, a livello finanziario, giuridico e politico. Il vero problema, tuttavia, non è tecnico ma politico. Fino a poco tempo fa Angela Merkel ha ribadito di giorno in giorno che non non ci sarebbe stato nessun eurobond. La corte costituzionale tedesca ha emesso una sentenza che riduce ulteriormente la sua libertà di manovra politica.

Il dibattito si è concentrato interamente su ciò che non può essere fatto, piuttosto che quello che si può fare – nessun eurobond, nessuna monetizzazione, nessun salvataggio, nessun break-up, non questo, non quello. Mentre il mondo sta discutendo sui prossimi passi per una risoluzione della crisi, le autorità europee sono ancora alle prese con l’attuazione della ratifica dei cambiamenti piuttosto lievi dell’EFSF concordati dal Consiglio europeo il 21 luglio, o il dibattito perverso sulle richieste di garanzie da parte della Finlandia. La politica europea è stata costantemente in ritardo.

E continuerà ad esserlo. Giovedì, il Bundestag voterà l’EFSF. Nel mese di ottobre, si voterà la prossima tranche di prestito per la Grecia. Nel nuovo anno, si voterà il meccanismo di stabilità europeo, il successore del EFSF. Da allora si potrebbe votare su un terzo programma greco, come il secondo, non ancora ratificato, programma già in ritardo sui tempi. Ci potrebbe essere un secondo programma per il Portogallo e anche l’Irlanda. Per ognuno, naturalmente, sarà necessario un voto separato nel Bundestag.

Berlino, però, non è l’unica fonte di incertezza. Le maggioranze parlamentari si stanno per sciogliere a Helsinki, L’Aia, Bratislava e Atene. Crediamo davvero che il governo greco sarà in grado di implementare un piano di austerità dopo l’altro con una maggioranza di cinque voti?

Quindi, anche se i leader europei si dovessero unire domani e concordare tutte le misure necessarie per porre fine alla crisi, non avrebbero risolto nulla fino a quando non hanno potranno dimostrare che godono di pieno sostegno politico. Il che è improbabile ancora per un po’. Per ottenere questo risultato, la signora Merkel dovrà fare molto di più che ribadire che il fallimento dell’euro significherebbe il fallimento dell’Europa. Avrà bisogno di mettere il suo futuro politico in gioco.

Nel frattempo, una stretta creditizia nazionale e il prolungato rallentamento dell’economia mondiale stanno per gettare la parte arretrata della zona euro in recessione. Per uscire da questo circolo vizioso, la BCE dovrà tagliare i tassi di interesse, e ritornare ad una politica di finanziamento illimitato a lungo termine. I governi devono rapidamente ricapitalizzare il sistema bancario. L’Unione europea ha sprecato due anni preziosi con stress test disonesti che hanno scosso la credibilità delle Autorità bancaria europea, della Commissione europea, delle banche centrali e dei regolatori del sistema bancario nazionale. Se ci si dovesse trovare in rallentamento economico, le banche europee potrebbero scoprirsi sottocapitalizzate per la somma di 500 miliardi.

Al di là del brevissimo termine, la zona euro dovrà fornire un eccanismo di salvataggio comune al sistema bancario, non solo per le banche transfrontaliere, ma per tutte le istituzioni finanziarie di importanza sistemica. Un tale sistema dovrebbe comprendere la supervisione, i criteri di risoluzione e di assicurazione dei depositi. Aspettatevi che l’opposizione politica sia almeno altrettanto forte di quanto è per le eurobbligazioni: è attraverso le Landesbanken tedesche e le Cajas spagnole che i politici possono esercitare esercitare il loro potere.

Il salvataggio della zona euro richiede un piano d’azione su una scala difficile da immaginare. Nelle prossime settimane, i leader politici europei dovranno decidere cosa fare sulla Grecia, ricapitalizzare il settore bancario, definire l’EFSF; il tutto, in una maniera collegata chiaramente con una strategia per il futuro della zona euro. Una correzione a breve termine può impressionare i mercati per alcuni giorni. Ma non conduce a porre fine alla crisi.

Sulla base delle prestazioni precedenti, è difficile immaginare che il Consiglio europeo sarà all’altezza della situazione. Se lo fa, è ancora più difficile credere che possa ottenere conseso e supporto rientrando in patria.

Non ho mai visto in Europa politici così spaventati come li ho visti a Washington la scorsa settimana.

dal Financial Times di oggi, nostra traduzione

 

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Solo il fumo delle ciminiere potrà spingere la vera ripresa

di Alberto Ronchetti

 

«Finchè le ciminiere non riprenderanno a fumare, le misure di austerity serviranno a poco», mi diceva quasi 40 anni fa – quando cominciavo ad appassionarmi all’economia e alla finanza – un vecchio agente di cambio. Erano i tempi delle domeniche a piedi, dell’illuminazione pubblica ridotta e della tv che finiva i programmi alle 23.

I tempi sono cambiati, ma l’idea è sempre valida: finchè la produzione non riprenderà, le politiche monetarie e fiscali non garantiranno un sano rilancio dell’economia e quindi dei mercati finanziari. D’altra parte il peso del debito pubblico sulle economie delle nazioni industrializzate, l’aumento delle spese di welfare per l’invecchiamento della popolazione e la crisi da sovrapproduzione non sono certo problemi che si risolvono in pochi mesi. E neppure in qualche anno.

Quindi la volatilità dei mercati in generale, e borsistici in particolare, è una condizione che ci accompagnerà a lungo. Negli articoli a fianco spieghiamo come, riferendoci a Piazza Affari, il superamento di quota 15.000 da parte del Ftse Mib potrebbe proiettare il benchmark verso i 16.000 punti prima e poi verso i 18.000. Un’ottima occasione di rally per chi compra i titoli giusti, ma soprattutto una possibilità di liquidare le posizioni per mettersi su asset più tranquilli. Nulla più.

Già, perché la gran parte dei gestori non scommette sulla possibilità – certamente non nei prossimi 6-12 mesi, ma probabilmente neppure negli anni immediatamente a venire – di vedere l’avvio di un rialzo di lungo periodo delle Borse sviluppate. I rimbalzi, che anche in un mercato ribassista saranno sempre possibili, sono visti solo come occasione di trading o, al più, per smobilizzare posizioni “inchiodate” nei portafogli.

Restano molti gli elementi tecnici e finanziari che depongono a favore di questa ipotesi. L’andamento dei fondi obbligazionari high yield, per esempio, è uno di questi segnali, anche se poco conosciuto. Quando il loro grafico si imballa, nel senso che dal rialzo entra in una fase laterale, anticipa una fase negativa per i listini. È accaduto lo scorso agosto e questo lascia presagire almeno qualche trimestre difficile per i listini azionari (fatta sempre salva, ovviamente, la possibilità di rimbalzi anche importanti).

Il più classico dei segnali è però quello che viene dall’oro, che inizia a salire quando tutte le altre asset class si deprezzano. Al momento il metallo giallo, che venerdì scorso è sceso sotto i 1.700 dollari per oncia (il recente massimo è stato a 1.920), resta inserito in un quadro di lungo termine rialzista. Il ribasso è dovuto sia ai timori di recessione globale (che potrebbe coinvolgere anche l’Asia, tradizionalmente compratrice del metallo giallo), sia alle vendite degli investitori per coprire le perdite sul trading book dei derivati. Ma il ratio gold/S&P 500 è sempre favorevole all’oro ed è immaginabile che continuerà a esserlo, visto che il metallo è inserito in un trend di crescita secolare.

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