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Povera Ue… Come si muove, sbaglia!

Il giornale di Confindustria si mostra molto sollecito nel raccogliere la loro preoccupazione. Che ha peraltro seri fondamenti. La mossa più criticata è l’innalzamento della quota di capitale proprio (minimo il 9%) che le banche debbono tenere “a riserva” per far fronte a eventuali problei imprevisti (il Core Tier 1 è esattamente questa quota).

La spiegazione del perché le banche siano contrarie, e l’illustrazione delle possibili coseguenze dell’indicazione europea, sono abbastanza complesse. Ma questi due giornalisti del “Sole” meritano certamente lo stipendio. La loro disamina è davvero chiara e illuminante.

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da Il Sole 24 Ore

Se si muove solo il capitale c’è il rischio credit crunch

di Morya Longo e Fabio Pavesi

«Così si mette a rischio il settore bancario italiano». Giuseppe Guzzetti, presidente dell’associazione delle Fondazioni bancarie, con poche parole ieri ha centrato il problema: l’obbligo di ricapitalizzare le banche europee per 106 miliardi di euro, come indicato dall’Eba, rischia di essere un boomerang. Innanzitutto perché i 106 miliardi rischiano di essere insufficienti, qualora i titoli di Stato dei Paesi periferici dovessero perdere quota ulteriormente. Tant’è che alcuni analisti stimano necessità maggiori: 200 miliardi di euro secondo il Fondo Monetario, 230 miliardi secondo gli analisti del Credit Suisse.

La verità è che non esiste un numero giusto: ricapitalizzare le banche rischia di essere infatti come riempire d’acqua uno scolapasta. Se prima non si tappano tutti i buchi (cioè le possibili perdite su titoli di Stato, su titoli tossici, su crediti in sofferenza), l’acqua non basterà mai. Il problema è però anche un altro: che queste ricapitalizzazioni non siano solo inutili, ma anche dannose. Perché in mancanza di capitali dal mercato, le banche – soprattutto quelle dei Paesi mediterranei più esposte sui titoli di Stato “deboli” – non potranno far altro che ridurre gli attivi: cioè tagliare il credito a imprese e famiglie.

Lo spettro del credit crunch
Per le Autorità di vigilanza è facile dire alle banche di aumentare il capitale. Dietro a questa richiesta c’è di certo la necessità di rafforzare gli istituti di credito, per evitare l’eccessiva debolezza. Ma oggi – con il costo della raccolta che sale sempre più, con ricapitalizzazioni appena effettuate e con il mercato così umbratile – trovare nuovi capitali sul mercato è difficile. E in ogni caso è molto costoso. Messe troppo alle strette, le banche finiranno dunque per fare un’altra cosa: da un lato aumenteranno solo in minima parte il capitale, dall’altro ridurranno il credito a famiglie e imprese. «L’unica arma che resta – osserva Paolo Bordogna, partner di Bain – è il credit crunch». Chiudere i rubinetti. Abdicare all’attività bancaria. E, di conseguenza, tagliare le gambe ulteriormente alla tanto auspicata crescita economica.

Gli istituti di credito lanciano questo allarme con insistenza. Proprio ieri, in una dura lettera inviata al Presidente Barroso, l’Associazione delle banche cooperative europee (Abce) ha tuonato: «Le banche cooperative non possono, a differenza delle spa, ricorrere al mercato dei capitali per patrimonializzarsi. Potrebbero dunque essere costrette, nel breve termine, a tagli drastici nei propri attivi di bilancio per incrementare i coefficienti patrimoniali». Più espliciti di così. Il rischio è più che concreto. Troppo capitale e in modo troppo rapido induce le banche a chiudersi a riccio. Questo fenomeno si chiama in gergo tecnico deleveraging: è di fatto il dimagrimento forzato della attività. Si può effettuare vendendo attività secondarie, ma dato che in questo periodo è difficile farlo (chi le compra?), l’unica soluzione è la più dolorosa: staccare la spina al credito.

Effetto «scolapasta»
C’è poi un altro problema: i 100 miliardi di nuovi capitali di cui si parla rischiano di non essere sufficienti. Lo sono oggi, calcolando al valore di mercato tutti i titoli di Stato in pancia alle banche. Ma se quegli stessi titoli di Stato perdessero ulteriore valore in futuro, non basterebbero più. Insomma: il rischio è di gettare acqua nello scolapasta. È vero che è meglio avere banche più capitalizzate, ma è anche vero che se non si risolve prima la crisi degli Stati (Grecia in primis) si rischia di vanificare qualunque sforzo. Anche perché i “buchi” di questo scolapasta non sono solo i bond governativi. Ora si guarda al valore dei titoli di Stato “deboli”, ma non si tiene conto che almeno in Italia, molti di quei 200 miliardi di BTp sono nei portafogli di proprietà e saranno tenuti fino a scadenza.

Non si guarda invece ad altre aree assai più delicate e pericolose. Ricordate i titoli tossici? Gli abs, i Cdo. i subprime e quant’altro. Come il caso Dexia insegna, stanno ancora nei portafogli delle grandi banche. Nei bilanci sono segnalati alla voce «Attivi di livello tre». Ubs – secondo Bloomberg – ne ha per 34 miliardi, cifra che corrisponde al 3% del bilancio; Barclays per 77 miliardi (il 4,6% dell’attivo); Santander per 24 miliardi. Se quei titoli resteranno per sempre bruciati, prima o poi si dovranno svalutare. E allora, forse, servirà nuovo capitale. Oppure nuove strette al credito.

Torniamo così al punto di partenza: lo spettro del credit crunch. Eventualità che aggraverebbe un altro problema: quello dei crediti deteriorati. Se aumentassero, costringerebbero le banche a ulteriori necessità di capitale. Un circolo vizioso. L’alternativa, secondo alcuni addetti ai lavori, ci sarebbe: «Se ci concentrassimo sulla crescita economica, e favorissimo un po’ di inflazione, potremmo ridurre i debiti e il deficit degli Stati – osserva Bordogna–. Invece le Autorità si stanno concentrando sul capitale delle banche, senza rendersi conto che questo causerà una stretta del credito».

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