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Sacrifici per le banche, i più inutili

C’è molto di folle in questa crisi. Un esempio. Il giorno dopo in vertice informale e notturno (due stranezze in una sola volta, ben poco sottolineate) le borse mondiali hanno festeggiato il successo: ancora una volta stati importanti, tutta l’Europa, si impegnavano a coprire perdite private. Non totalmente (il “taglio di capelli” per chi ha titoli greci in cassaforte tocca ora il 50%), ma in misura molto rilevante.

Passano appena 24 ore e tutto torna nella depressione. L’Italia più di tutti, complice l’essere un paese “pesante” con un debito pubblico elevato e l’avere un premier fuori di testa, capace di attaccare l’euro il giorno dopo esser stato a denti stretti “salvato” dai colleghi europei.

Ma Berlusconi è ormai – quasi – il passato. Il problema che resta è la crisi e la sua impossibile gestione.

Due scuole di pensiero, in ambito “bprghese”, si sono ormai imposte. Quella dei keynesiani, inascoltati, che indicano nell’impoverimento delle popolazioni una causa di aggravamento della crisi. E quella degli ascoltatissimi liberisti duri e puri, secondo cui, al contrario, la crisi non è ancora stata superata perché non si è agito con “sufficiente durezza” contro i redditi più bassi, le tutele del lavoro, le pensioni o la sanità.

Hanno torto entrambi, ma la radicalizazione delle ricette sta a indicare già da sola un aggravamento della “percezione della crisi” in chi per mestiere dovrebbe occuparsene. E quindi anche una percezione dell’irrisolvibilità della crisi con mezzi “ordinari”. M intanto cambiano sia i rapporti tra i paesi che gli equilibri storici, come dimostra il richiesto, possibile, non gratuito intervento cinese.

 

 

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Galapagos
LA FESTA È GIÀ FINITA

«Il piano Ue fa volare le borse», titolava ieri in prima La Stampa. E, al pari del giornale della famiglia Agnelli, quasi tutti i quotidiani italiani hanno scelto di dedicare l’apertura di prima pagina alle borse spinte dal «vento caldo» del piano salva-stati della Ue. Ma la festa appena incominciata sembra già finita: ieri le borse hanno ripiegato e, ancora una volta, la peggiore è stata Piazzaffari che ha lasciato sul terreno l’1,78%. L’andamento delle quotazioni in Italia è stato condizionato soprattutto dalle pessime notizie provenienti dal debito pubblico italiano. All’asta dei Btp decennali, per la prima volta dal 1997, è stato sfondato il muro del 6% di rendimento. La domanda tiene, sostengono gli analisti. Sta di fatto che oltre al 6,06% al quale sono schizzati i decennali, anche per le scadenze più brevi c’è stata una forte salita. I Btp a tre anni sono stati collocati al 4,93%, il livello più alto degli ultimi undici anni. Berlusconi per la prima volta sembra essersi reso conto che l’aumento dei tassi di interesse sul debito italiano avrà pesanti conseguenze sui conti pubblici. «Siamo in una situazione di grande tensione per quel che riguarda gli spread sull’emissione dei titoli del debito pubblico » e «questo graverà ulteriormente sulla nostra finanza», ha dichiarato parlando agli Stati generali del Commercio estero. In realtà, per questo governo il forte innalzamento dei rendimenti è una novità: per quasi tre anni e mezzo, infatti, i tassi pagati sui bond italiani sono stati estremamente bassi con dannazione per chi li comprava, ma con grande gioia per il ministro dell’economia che, nonostante l’esplosione del debito pubblico, non spendeva più di tanto per il pagamento degli interessi. Un segnale netto della crescita dei tassi era stato avvertito alcuni mesi fa: un po’ per volta era cresciuto lo spread con i Bund del debito pubblico tedesco. Fino a superare i 400 punti base. Ovvero il 4%. L’aumento del differenziale derivava un po’ dalla grande domanda di Bund tedeschi da parte degli investitori in cerca di sicurezza, masoprattutto dalla crescita dei rendimenti sui titoli italiani. Gli interventi della Bce (che ha acquistato titoli italiani e spagnoli sul mercato secondario) ha contribuito a rallentare la corsa all’insù e a ridurre i differenziali sui tassi.Ma è stato sufficiente che la Bce stringesse un po’ la borsa, perché i rendimenti italiani riprendessero a salire. Per settimane fonti governative hanno cercato di minimizzare e tranquillizzare. In pratica (in parte con ragione) sostenevano che l’aumento dei tassi riguardava unicamente i Btp sul mercato che stavano perdendo valore, producendo così un aumento dei tassi,ma non un maggiore esborso del tesoro, visto che gli interessi pagati erano fissi. La prova era che nelle aste per i nuovi bond gli interessi pagati erano inferiori a quelli di mercato. Da alcune settimane, tuttavia, anche i tassi dei bond di nuova emissione stavano salendo rapidamente. A questo punto l’ultima speranza era un accordo in sede Ue per allentare la tensione sulla Grecia e indirettamente su altri paesi in difficoltà. Tipo l’Italia. L’accordo è stato raggiunto tre giorni fa, il fondo salva-stati aumentato da 440 a mille miliardi e c’è stata anche una approvazione (solo formale, però) degli impegni presi dall’Italia. Ma non sembra essere servito a nulla: ora i tassi di interesse stanno crescendo, lo spread con i Bund tedeschi è riaumentato a 382 punti base e, quel che peggio, l’onere del servizio del debito pubblico nei prossimi mesi e nei prossimi anni è destinato a crescere enormemente. Con una conseguenza pesante: saranno vanificati tutti i sacrifici imposti a milioni di persone con lemanovre correttive varate dal governo. Ilmercato normalmente è una brutta bestia che però tende ad assumere atteggiamenti realisti. Insomma, non scommette contro un paese per il gusto della scommessa, ma perché «specula», cioè prevede che quel paese è destinato a finiremale. Magari perché governato male. Certo, c’è la speculazione che, tuttavia, non gioca al buio. Quando negli ani ’90Georges Soros si accanì contro la sterlina e la lira, prese di mira due paesi le cui economie erano fragili. Non a caso, dopo le manovre correttive (la famosa stangata da 90mila miliardi di lire del 1992 di Ciampi-Amato), la speculazione portò a casa i guadagni e si rivolse verso altre direzioni. In questi ultimi mesi di stangate ne sono state approvate per importi superiori a quelle di quasi 20 anni fa, ma non è servito a nulla. I mercati non hanno fiducia. nella capacità di questo governo. Intanto l’euro che era risalito sopra quota 1,42 sul dollaro, ieri ha invertito la direzione. Una bella svalutazione della moneta comune in una fase di bassa congiuntura sarebbe unamanna. Favorirebbe il sostegno delle esportazioni. Secondo Berlusconi, «c’è un attacco all’euro che come moneta non ha convinto nessuno, perché non è di un solo paese ma di tanti che però non hanno un governo unitario, né una banca di riferimento». Il problema vero è che in Europa c’è solo una banca di riferimento – la Bce- mentre tutto il resto è nulla. Secondo il presidente, poi, l’euro «è una moneta strana, attaccabile dalla speculazione internazionale ». Dimentica che è stato l’euro a condurre le danze valutarie per una volontà precisa: con l’alto valore della moneta si è tentato di contenere l’inflazione.

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Michelangelo Cocco PECHINO
EUROPA Pechino conferma: pronta a mettere soldi nel fondo salva stati Ue
Se la Cina s’avvicina

PECHINO
La Cina vuole fare di più per sostenere l’euro, ma non prima di aver ottenuto da Bruxelles garanzie e contropartite politiche in cambio di eventuali investimenti futuri. Klaus Regling, il capo del Fondo salva Stati (European financial stability facility, Efsf) che ieri a Pechino ha incontrato il vice ministro delle finanze Zhu Guangyao e i vertici della Banca centrale della Repubblica popolare, si è detto fiducioso che l’intesa raggiunta (l’altro ieri all’alba, dopo undici ore di trattativa) dall’Eurogruppo possa favorire una maggiore presenza cinese nell’Efsf. Ma ha chiarito che «per ora stiamo ancora esplorando le diverse possibilità» per portare il Fondo a 1000 miliardi di euro dai 440 attuali, come prevede uno dei punti dell’accordo tra i leader europei. La Cina dispone di riserve in valuta estera per 3.200 miliardi di dollari ed è il primo partner commerciale dell’Unione europea: Regling (che oggi farà tappa a Tokyo) ha dunque bisogno di Pechino per tradurre in meccanismi concreti le decisioni prese a Bruxelles.
La missione dell’alto funzionario europeo è stata preceduta dallo scoop del Financial Times, secondo il quale la Repubblica popolare è pronta a investire nell’Efsf fino a 100 miliardi di dollari. Le due principali fonti citate dal quotidiano finanziario, Li Daokui, membro della Commissione per la politica monetaria della Banca centrale cinese e Yu Yongding, un ex componente dello stesso organismo, hanno però sottolineato che Pechino è disposta a partecipare massicciamente al salvataggio della moneta comune solo se le verranno fornite rassicurazioni sulla sicurezza dell’investimento.
Istituito il 9 maggio dell’anno scorso (quando la crisi greca si era già fatta dirompente), l’Efsf soccorre Stati e banche in difficoltà comprando buoni del tesoro e concedendo prestiti, finanziando i propri interventi attraverso l’emissione di obbligazioni (con rating AAA, garantite dai 27 paesi dell’Unione) che vengono messe in vendita sul mercato globale dei capitali. Regling ieri ha svelato che circa il 40% dei bond finora piazzati dall’Efsf sono stati acquistati da investitori asiatici, ma non ha voluto fornire dati sulla porzione già in mano ai cinesi. Per attrarre nell’Efsf capitali come quelli di China investment corp. (fondo sovrano di oltre 300 miliardi di dollari) sono allo studio due possibilità: fornire agli investitori assicurazioni sui buoni di governi selezionati (quello tedesco ad esempio); creare un fondo speciale in cui far confluire gli investimenti di paesi emergenti, come Cina e Brasile.
Secondo molti economisti cinesi, Pechino, che assiste esterrefatta ai contrasti tra i governi dell’Ue nell’affrontare la crisi – il premier Wen Jiabao ha dichiarato il mese scorso che i paesi sviluppati devono «mettere ordine in casa propria» – non ha alcuna intenzione di intervenire direttamente sui debiti sovrani europei e per questo ha in serbo una strategia alternativa, che mira all’acquisto di quote di società e immobili nel Vecchio continente. Ma sarebbe pronta ad appoggiare la seconda ipotesi, scendendo in campo attraverso «strutture consolidate di governo delle crisi» – cioè il Fondo monetario internazionale -, un intervento che potrebbe anche farle guadagnare quote e voti nell’Fmi. Il Fondo monetario è già impegnato assieme alla Bce e alla Commissione Ue nei «salvataggi» di Irlanda e Portogallo e lo stesso Regling ha confermato che è allo studio proprio il coinvolgimento dell’Fmi assieme all’Efsf, in un nuovo fondo speciale. «Aiuterebbe la Cina ad avere più voce in capitolo nel sistema finanziario globale», ha aggiunto Zhong Wei, direttore del Centro di ricerca sulla finanza dell’Università normale di Pechino. Pechino comunque ha bisogno di tempo per valutare questi piani perché, con la crisi che tocca inevitabilmente anche la Repubblica popolare, non vuole che l’opinione pubblica creda che il governo spende soldi dello Stato in un piano nel quale nemmeno gli europei credono fino in fondo.
L’altro ieri il presidente francese, Nicolas Sarkozy, aveva annunciato il contenuto di una telefonata al suo omologo cinese, Hu Jintao: l’Ue darebbe «il benvenuto» a un contributo cinese al salvataggio dell’euro. Sarkozy aveva anche detto che «la nostra indipendenza non verrebbe in alcun modo messa in discussione» da questo intervento. E ieri Regling ha aggiunto che «gli investitori che contribuiscono all’Efsf non hanno alcun potere di porre condizioni». Ma gli analisti cinesi la pensano diversamente e pongono l’accento su due contropartite politiche: l’Ue dovrebbe mettere una pietra sopra alle richieste di apprezzamento dello yuan e accelerare il riconoscimento alla Repubblica popolare dello status di economia di mercato.

da “il manifesto” del 28 ottobre 2011

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da Il Sole 24 Ore

Regling (fondo Efsf) in Cina raffredda gli entusiasmi: non mi aspetto risultati immediati

Luca Vinciguerra

 

SHANGHAI – «Non mi attendo alcun risultato immediato dai nostri colloqui con le autorità cinesi». Il direttore del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (Efsf), Klaus Regling, raffredda gli entusiasmi di chi contava su un pronto intervento del Dragone per aiutare l’Eurozona a uscire dalla crisi del debito.

«È noto che la Cina ha bisogno di trovare investimenti per allocare il suo trade surplus e che è già una buona acquirente dei titoli emessi dal Efsf» ha detto laconicamente Regling, oggi a Pechino nel corso di una conferenza stampa. «Sono qui solo per effettuare un giro di consultazioni» ha aggiunto il numero uno del fondo salva Stati europeo, sbarcato stamane nella capitale cinese dove nelle prossime ore incontrerà i vertici del ministero delle Finanze e della People’s Bank of China.

Niente di strano. Il cavaliere bianco cinese, prima di mettere mano al portafoglio, intende vederci chiaro nell’operazione di salvataggio del Vecchio Continente. Il che significa sostanzialmente due cose.

Uno. Pechino vuole capire come funzionerà tecnicamente e praticamente lo Special Purpose Vehicle che Bruxelles sta pensando di creare per raccogliere capitali dai fondi sovrani, dagli investitori privati, ed eventualmente dal Fondo Monetario Internazionale, da destinare all’acquisto di titoli del Tesoro dei paesi dell’Eurozona.

Inoltre, la Cina vuole sapere come il nuovo (o i nuovi, perché potrebbero essere più di uno) “veicolo speciale” s’integrerà con il Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria che, sulla base degli accordi raggiunti mercoledì a Bruxelles, dovrà essere potenziato passando dagli attuali 440 a mille miliardi di euro. La trasferta di Regling oltre la Grande Muraglia dovrebbe servire proprio a questo scopo.

Due. Pechino, non avendo alcuna intenzione di gettare i propri quattrini dalla finestra, vuole delle solide garanzie dall’Unione Europea. In particolare, chiede a Bruxelles di vigilare affinché i paesi più indebitati e a rischio insolvenza mettano subito in atto delle severe e vincolanti politiche di austerità fiscale per riportare in equilibrio i propri conti pubblici. Su questo tema, invece, il direttore del Efsf avrà presumibilmente poco da dire perché la questione degli impegni dei singoli Stati a rimettere ordine nelle loro finanze è squisitamente politica. Ed è una patata bollente che devono pelare direttamente i leader più autorevoli dell’Unione Europea: così si spiega il colloquio telefonico della notte scorsa tra Nicolas Sarkozy e il presidente cinese, Hu Jintao.

Insomma, la situazione appare ancora molto fluida. L’unica cosa certa, per ora, è che la Cina è pronta a lanciare un salvagente all’Europa. L’unica incognita sarebbe legata alle modalità, alle dimensioni e alle tempistiche dell’intervento.

Secondo alcune indiscrezioni del “Financial Times”, che cita anonime fonti governative cinesi, Pechino vincolerebbe l’entità del proprio contributo, oltre ovviamente alle garanzie offerte dalla Ue, anche alla presenza di altri paesi emergenti nell’operazione. Secondo le stesse fonti, il Governo cinese starebbe valutando di investire una cifra compresa tra 50 e 100 miliardi di dollari per rafforzare il meccanismo di salvaguardia dei debiti sovrani europei in allestimento in queste ore a Bruxelles.

Sebbene oggi il Dragone stia comodamente seduto su 3.200 miliardi di dollari di riserve valutarie, non è una cifra da poco. Il tesoretto di moneta pregiata accumulata negli ultimi dieci anni da Pechino, infatti, rappresenta il fulcro dell’equilibrio finanziario della superpotenza asiatica. Ecco perché la nomenklatura, che su un tema di così larga portata deve tenere in conto gli umori dell’opinione pubblica domestica, non può permettersi di sprecare preziose risorse pubbliche.

Ciò detto, oggi la Cina ha tutto l’interesse a non lasciare scivolare l’Europa nel baratro del debito. Per diverse ragioni.

La prima. La Ue è il primo partner commerciale del Dragone e, quindi, un’eventuale implosione dell’Eurozona sarebbe una sciagura per le esportazioni del made in China, da cui dipendono i destini di un sistema di piccole e medie imprese già messo alle corde da due anni di politica monetaria restrittiva.

La seconda. Sebbene la Cina abbia investito suppergiù due terzi delle proprie riserve valutarie (3.200 miliardi di dollari al 30 settembre scorso) nell’area dollaro, Pechino ha pur sempre un gettone da oltre 600 miliardi di euro puntato sul debito di diversi paesi europei che non vorrebbe mai vedere andare in fumo.

La terza. Aiutando Bruxelles a uscire dalle sabbie mobili dei debiti sovrani, la Cina staccherebbe una cambiale in bianco da portare all’incasso appena possibile, chiedendo all’Unione Europea due cose: il riconoscimento immediato dello status di economia di mercato, con quattro anni di anticipo secondo quanto previsto dagli accordi Wto; e l’abolizione dell’embargo alla vendita di armi a Pechino, imposto nel 1989 dopo il massacro studentesco di Piazza Tiananmen.

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Salvataggi, illusioni e realtà

di Roberto Perotti

I leader europei hanno preso tre decisioni a Bruxelles: imporre una perdita del 50% sul debito greco detenuto da privati, ricapitalizzare le banche e aumentare la potenza di fuoco del fondo salva-Stati, portandola (secondo un’interpretazione diffusa) a 1.400 miliardi. I mercati hanno reagito con un’euforia comprensibile. Ma mentre i primi due provvedimenti erano largamente attesi, il terzo è basato in parte su un equivoco, a tal punto che, come ha scritto Der Spiegel, non è chiaro se i parlamentari tedeschi si rendessero conto di cosa esattamente stavano votando mercoledì.

Il fondo salva-Stati è il nodo cruciale: da esso dipendono cosa succederà alla mina vagante d’Europa, il debito italiano e anche, in parte, il successo della ricapitalizzazione delle banche. In questo momento la dotazione del fondo salva-Stati è di 440 miliardi; di questi, circa 140 miliardi sono impegnati per Irlanda, Portogallo e Grecia (ammesso che l’haircut imposto ai creditori privati sia sufficiente).

Rimangono, al più, 300 miliardi, e tali resteranno, perché il Parlamento tedesco ha proibito di aumentare la partecipazione della Germania.

Da cosa viene dunque l’annunciato aumento della potenza di fuoco del fondo salva Stati? Da un “effetto leva”, si dice. In una prima proposta, i 300 miliardi residui del fondo verrebbero utilizzati, attraverso un meccanismo complesso, per assicurare il primo 20% di perdite sul debito sovrano acquistato da privati. Questi potrebbero così acquistare 1.500 miliardi di titoli in sicurezza, ammesso che la perdita non superi il 20 per cento. Questo è uno strumento efficace per un problema di liquidità, cioè se un’asta va male per un attacco di pessimismo collettivo dei mercati: la garanzia riduce la probabilità di un tale evento, mentre il fondo salva Stati nella sua formulazione attuale non è abbastanza flessibile.

Ma se il problema è di solvibilità, come molti temono e come è stato il caso della Grecia, allora non c’è una sostanziale differenza fra il fondo salva Stati attuale e la nuova formula. Se domani lo Stato italiano dovesse annunciare di poter pagare solo l’80% del debito di 1.500 miliardi, la garanzia del fondo pagherà i 300 miliardi restanti e i privati non ci rimetteranno niente. Nella formula attuale il fondo presta a Stati in difficoltà; potrebbe dunque prestare (di fatto, a fondo perduto) 300 miliardi al governo italiano, che li utilizzerà per pagare gli interi 1.500 miliardi. Il risultato è lo stesso, un trasferimento dal fondo salva Stati ai creditori dell’Italia. La nuova formula crea differenze fra i creditori garantiti e quelli non garantiti, ma nell’aggregato il risultato è all’incirca lo stesso.

Il motivo è semplice: se c’è un problema di solvibilità, vuol dire che le tasse future non sono sufficienti a ripagare l’intero valore facciale del debito. L’unico modo per evitare un haircut sul debito è farsi regalare i soldi mancanti: che sia sotto forma di garanzia, prestito a fondo perduto, o regalo tout court è meno importante. Ma non c’è modo di moltiplicare il regalo: in questo momento è al massimo di 300 miliardi, e tale resterà. Non c’è dunque una leva in questa proposta.

La seconda proposta per “fare leva” è di creare dei “veicoli speciali” con contributi da privati, Fmi e Cina. Sembra che anche questi veicoli usufruiranno di qualche garanzia del fondo salva Stati, e potranno poi emettere proprio debito. Solo in quest’ultimo dettaglio nascosto sta il possibile effetto leva. Ma l’intera operazione è molto incerta. Ovviamente, i privati possono già comprare debito sovrano europeo. Il contributo dell’Fmi sarà limitato, sia per motivi politici, sia perché in ogni caso sarebbero soldi provenienti in gran parte dall’Europa stessa, che dopo gli Usa è la maggior contribuente dell’Fmi. Gli unici soldi veri potrebbero arrivare dalla Cina. E la garanzia fornita dal fondo salva Stati diluirebbe ulteriormente gli usi possibili dei 300 miliardi che gli rimangono.

Il problema però è ancora più complicato, perché il fondo salva Stati dovrebbe essere anche utilizzato per ricapitalizzare le banche nel caso queste non vogliano o non possano farlo da sole. Ciò ridurrebbe ulteriormente le risorse disponibili per tutti gli altri usi di cui sopra.

L’idea che qualche alchimia finanziaria possa moltiplicare magicamente 300 miliardi è un’illusione pericolosa. La realtà è che ora, come prima (e aspettando la Cina), ci sono sempre e solo 300 miliardi per proteggere l’Europa dal rischio di insolvenza di Italia e Spagna.

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Merkel: la crisi dei debiti sovrani non sarà risolta in un anno

«La crisi dei debiti sovrani nell’eurozona non sarà risolta nello spazio di un anno». Lo ha detto la cancelliera tedesca Angela Merkel durante un convegno del suo partito in Baviera. «La zona euro sta affrontando una crisi di fiducia che non andrà via in un giorno o in un anno con un semplice colpo di spugna», ha sottolineato.

La leader tedesca ha quindi sottolineato che un fondo salva-Stati più forte «è una barriera contro il diffondersi della crisi dei debiti sovrani nell’eurozona», riferisce Bloomberg. Ha aggiunto che un’Europa «disunita non ha nessuna possibilità di competere sulla scena mondiale», avvertendo, infine, che «una crescita economica alimentata dall’indebitamento non potrà più funzionare» in futuro.

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Tassi BTp oltre il 6% per la prima volta dal 1997

Il rendimento lordo del BTp decennale italiano ritorna sopra il 6% per la prima volta dal 1997. Nell’asta di oggi, la quinta tranche del BTp scadenza 01/03/2022, collocata per 2,9 miliardi a fronte di una domanda pari a 3,79 miliardi, ha registrato un rendimento annuo lordo del 6,06%, in aumento di 20 centesimi rispetto all’asta precedente.

Ai massimi dal 2000 il rendimento del BTp triennale: la settima tranche del triennale scadenza 01/07/2014 é stata piazzata al 4,93% lordo (+0,24 centesimi) per un importo di 3 miliardi (4,1 miliardi la domanda).

Assegnata anche la tredicesima tranche del CcTeu scadenza 15/10/2017: l’importo pari a 1 miliardo ha spuntato un rendimento pari al 5,59%. Per il BTp off-the-run scadenza 01/09/2019, infine, l’importo collocato è stato apri a 870 milioni e il rendimento si è attestato al 5,81%.

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