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“Inpennata verso il basso”, meccanica in crisi


«Impennata verso il basso». Il linguaggio statistico fa miracoli di elusione, quando si deve parlare di dati negativi. La presentazione dell’analisi trimestrale di Federmeccanica ha costretto i relatori anche a questo, parlando del «portafoglio ordini», ovvero di quello che accadrà nei prossimi mesi in base alle commesse già in essere.
Era la prima volta per Roberto Maglione, vicepresidente dell’associazione degli industriali metalmeccanici, ma soprattutto direttore centrale di Finmeccanica all’indomani di un bilancio da infarto e un -20% in borsa in un solo giorno. Nessuna domanda ammessa sull’azienda, per non «deviare il discorso» dal generale (il settore) al particolare.
Ma anche restando «al generale» la situazione non è affatto rosea. Nel terzo trimestre di quest’anno – anomalo come sempre, per la presenza di agosto – il rallentamento si è accentuato, fino a restituire una crescita di appena l’1,3%. Ma stiamo parlando di un settore trainante della manifattura e dell’export nazionale (il 50% del totale), per cui qualsiasi variazione qui «fa tendenza». Nel confronto europeo (-2,8% medio), però, sembrerebbe quasi un buon risultato, visto che la tremenda Germania ha dovuto registrare addirittura un meno 5% nel settore.
Il problema sta nell’integrazione del sistema produttivo continentale, con la Germania nel ruolo di collettore dei prodotti di «contoterzisti» (tra cui soprattutto l’Italia) nel tentativo di agganciarsi alla crescita cinese. Tentativo non riuscito, pare; ma che trascina con sé una richiesta minore verso paesi come il nostro.
Il secondo problema sta nei tempi. Questa nuova recessione europea arriva quando l’italia metalmeccanica non ha completato il «recupero» dalla precedente, nel 2008. A oggi, infatti, il settore produce il 22,3% in meno rispetto ai livelli pre-recessivi, mentre la Germania è arrivata a +2,1. Solo la Spagna, in questo campo, è riuscita a far peggio. Le esportazioni hanno ovviamente risentito dell’andamento generale (+12,1%), mentre è l’andamento depresso delle importazioni (appena +3,6, un anno prima era a +28,5) ad annunciare livelli produttivi nazionali minori.
L’occupazione paga dazio (-1,3% nelle grandi imprese, mancano dati su piccole e medie). E anche se il ricorso alla cassa integrazione è risultato minore rispetto ad altri periodi (equivalente comunque a 194 mila lavoratori), le prospettive a breve sono negative, molti imprenditori prevedono una riduzione degli organici».
Inevitabile chiedere come, in questo fosco quadro, si possa immaginare una «crescita». Maglione e Roberto Santarelli, direttore generale dell’associazione, salteranno nell’indicare i due assi fondamentali su cui le imprese immaginano una ripartenza. Al primo posto gli «investimenti in ricerca e innovazione, per recuperare competitività». Anche se non è facile, perché la competitività sui settori a basso livello tecnologico è ormai perduta nei confronti degli «emergenti», i quali conquistano posizioni anche nell’hi tech. Il secondo asse, manco a dirlo, è «la flessibilità del mercato del lavoro», associata a «produttività ed efficienza». La foglia di fico resta il «dualismo» tra «troppo protetti» e «precari assoluti», ma la soluzione gira ancora e sempre nei dintorni della flexsecurity. Perché le aziende vogliono poter licenziare individualmente, magari pagando solo un indennizzo, elimnando la «reintegra» disposta dal giudice. Il pensiero corre ai «sindacalisti rompiscatole», perché dal punto di vista economico non si vede quale vantaggio sostanziale, in termini di «crescita», ne verrebbe. E quindi, sì, «anche se non è la priorità, il ‘superamento’ dell’art. 18 ormai è sul tavolo». Con altri ammortizzatori sociali, per carità, altrimenti la situazione sociale diverrebbe ingovernabile.

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