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Per le imprese, l’art. 18 non è un problema

Solo per sei imprese su cento l`articolo 18 frena la loro crescita

Sondaggio Confindustria. Pd e sindacati contro la norma

LUISA GRION

In realtà non è mai uscito di scena, ma ora – con labozza che circola sulle liberalizzazioni – l`articolo 18 torna prepotentemente alla ribalta. Secondo le anticipazioni il governo intenderebbe allargare il confine entro il quale la norma non trova applicazione: se le ipotesi saranno confermate, in caso di fusione fra due imprese la regola sul licenziamento (ammesso solo per giusta causa e giustificato motivo) non sarà applicata alla nuova azienda purché non superi i 50 dipendenti (oggi la soglia è fissata a 15).

La novità è arrivata come un fulmine sulla già delicata trattativa attorno alla riforma delmercato del lavoro coalizzando i sindacati e fornendo alla Confindustria i motivi per ritornare sul tema. Anche se un sondaggio effettuato dalla associazione stessa dimostra che, secondo le imprese, se la crescita non arriva la colpa non è degli ostacoli all`uscita dal lavoro, ma della domanda scarsa e dell`insufficienza di capitali.

LE IMPRESE

Per Alberto Bombassei, vicepresidente di Confindustria, l`articolo 18 e l`obbligo delreintegro del lavoratore licenziato non per giusta causa è «la più grave anomalia» che l`azienda possa incontrare nella sua volontà di assumere. «Oggi è giunto il momento di eliminarla, per promuovere un`occupazione stabile e di qualità» ha detto. Una posizione che sembrerebbe non sovrapporsi alle sensazioni espresse dalle aziende, visto che in un sondaggio della stessa Confindustria, fra le cause del mancato ampliamento gli iscritti mettono al primo posto l`insufficienza delle domanda (segnalata dal 48,5 per cento del campione), seguita dalla mancanza di capitali (47,9). Gli ostacoli sindacali stanno all`ultimo posto della classifica (6,5 per cento).

I SINDACATI

Sono di parere totalmente contrario. «Vorremo vederli quei padroncini che corrono a fondersi tra loro perché finalmente non devono rispettare un articolo 18 che non hanno mai avuto» twitta la Cgil. Fulvio Fammoni, segretario confederale, contesta sia l`idea di anomalia, che lo stesso Bombassei.«L`Ocse segnala che la rigidità in uscita colloca l`Italia al di sotto della media europea e che il nostro Paese non costituisca affatto un caso anomalo» precisa.

Quanto al vicepresidente di Confindustria si chiede: «Ma è lo stesso Bombassei di ieri quello che parla oggi? Ieri affermava che l`articolo 18 non è il tema da portare al tavolo, ora dice che va eliminato. Così, come si può essere credibili?».

Contrari a qualsiasi modifica della norma sono anche i leader di Cisl e Uil. «Non si tocca, non è oggetto della trattativa con il ministro Fornero – commenta Raffaele Bonanni – è davvero singolare trovare quel tema in un bozza sulle liberalizzazioni che non è stata oggetto di confronto sulle parti sociali». Stessa linea per Luigi Angeletti della Uil. «Francamente non vedo alcun disastro per nessuno nell`avere l`articolo 18 così com`è».

IL PD E IL PDL

Se sulla questione il sindacato (Ugl compresa) si unisce, la politica si divide. Per Giuliano Cazzola, vicepresidente Pdl in Commissione lavoro alla Camera «se la bozza sulle liberalizzazioni fosse confermata la norma sull`articolo 18 sarebbe sicuramente utile» perché «rappresenta un ostacolo alla crescita delle imprese». Per il leader del Pd Pierluigi Bersani la norma invece non va toccata. «Sul lavoro abbiamo una proposta innovativa che consente di ridurre la precarietà e dare flessibilità senza toccare l`articolo 18. Oggi il problema è come si assume non come si licenzia».

da Repubblica, 13 gennaio

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Stefano Perri

I bassi salari colpiscono la produttività del lavoro

Si parla molto, in questa difficile situazione economica, di equità. Tuttavia la parola rischia di perdere significato. La parola equità, secondo la definizione del dizionario, deriva dal termine eguaglianza ed è sinonimo di giustizia, imparzialità: una misura o un’azione è equa se non favorisce in modo ingiustificato un soggetto o un gruppo di soggetti rispetto ad altri.
Tuttavia la parola assume significato solo se si dichiara rispetto a quale sistema di valori si intenda perseguire l’equità. Nella situazione attuale, ma la distinzione risale molto indietro nel tempo, mi sembra che si confrontino due concetti differenti di equità: il primo si riferisce principalmente alle regole del mercato. In questo senso sarebbe iniqua qualsiasi situazione favorisca un gruppo rispetto a un altro distorcendo le regole del mercato e producendo rendite di posizione, ad esempio, per le generazioni presenti rispetto a quelle future, per le imprese protette dalla concorrenza rispetto a quelle che operano in settori aperti, o per i lavoratori garantiti rispetto agli altri e via dicendo. In questo senso, per fare un esempio banale, una partita di calcio è equa se sono rispettate le regole del gioco.
A questa concezione se ne contrappone un’altra, secondo la quale l’equità è prima di tutto giustizia intesa come eguaglianza non solo nelle regole che governano la competizione, ma nella possibilità che tutti possano esercitare effettivamente i propri diritti, sia individuali che sociali ed economici, in modo da poter usufruire delle opportunità e perseguire i propri obiettivi di felicità, crescita e autorealizzazione.
Una partita di calcio tra una squadra di serie A ed una di terza categoria non sarebbe equa, pur rispettando le regole, per lo squilibrato rapporto di forze tra le squadre in campo. Il più diffuso manuale introduttivo di economia del dopoguerra, «Economia» di Paul A. Samuelson, spiegava la differenza tra i due concetti di equità in questo modo: in un’economia di mercato il cane di un ricco può ricevere il latte necessario a un bambino povero per non diventare rachitico. Le scelte di ciascuno pesano per il reddito e la capacità di acquisto differente su cui ciascuno può fare affidamento. Di conseguenza il diritto del bambino a uno sviluppo sano può essere eluso rispettando in pieno le regole del mercato. I sostenitori della prima concezione accusano spesso di ideologismo i sostenitori della seconda. Tuttavia non c’è ragione per cui la prima concezione non possa anch’essa esprimersi in termini del tutto ideologici, senza riferimenti ai dati di fatto. In un recente articolo sul Corriere della Sera del 2 gennaio, Alesina e Giavazzi hanno sostenuto che il fatto che i salari medi dei lavoratori italiani siano molto inferiori a quelli dei lavoratori europei non solleva una questione di equità, ma rispecchia la minore crescita della produttività del lavoro in Italia. Da questo punto di vista i bassi salari non sarebbero iniqui, perché riflettono le regole del gioco.
I due autori notano infatti che «i salari dipendono dalla produttività, che in Italia è cresciuta molto meno che negli altri Paesi europei». Tuttavia i due autori non si preoccupano minimamente di verificare se i dati sostengano effettivamente l’idea che la causa dei bassi salari italiani sia legata all’andamento della produttività del lavoro nel nostro paese in relazione alle altre economie.
Da una elaborazione dei dati Ameco si traggono informazioni importanti raffrontando i dati relativi alle variazioni percentuali dal 1980 al 2000 delle retribuzioni reali del lavoro e della produttività del lavoro. I dati riguardano la Germania, la Spagna, la Francia e l’Italia e partono dal decennio 1980, nel quale, in tutti i paesi considerati, i salari reali cominciano a crescere in misura minore della produttività del lavoro, cosicché la quota dei salari sul reddito comincia a diminuire. Tuttavia, negli anni Ottanta la crescita dei salari reali in Italia è superiore a quella degli altri paesi, mentre la crescita della produttività del lavoro è più omeno in linea con quella degli altri paesi (superiore alla Germania, ma moderatamente minore che in Francia e in Spagna).
La differenziazione rispetto agli altri paesi europei si concentra negli anni Novanta. Si noti bene che in questo decennio la crescita della produttività del lavoro è addirittura in Italia più alta degli altri paesi. Ma è proprio in questo decennio che i salari reali rimangono indietro in Italia, crescendo rispettivamente di 6,3, 6,69 e 9,13 punti percentuali in meno della Spagna, della Germania e della Francia. È viceversa solo nel primo decennio del 2000 che la produttività del lavoro in Italia smette di crescere, e addirittura diviene negativa,
mentre negli altri paesi la crescita di questa variabile rallenta, ma rimane pur sempre positiva. In questo periodo però, contrariamente alle attese, le retribuzioni reali dei lavoratori italiani crescono, sia pure in misura moderatamente inferiore alla Spagna e consistentemente inferiore alla Francia. In Germania l’andamento dei salari reali ha addirittura un segno negativo. I dati raccontano quindi una storia ben diversa da quella narrata da Alesina e Giavazzi. La presunta causa dei bassi salari in Italia, il rallentamento e la diminuzione della produttività del lavoro, si è effettivamente verificata solo dopo il presunto effetto. Nel mondo dell’economia effetti che si verificano prima della loro causa non sono possibili. La verità è che i due economisti non hanno tenuto in considerazione uno degli accorgimenti metodologici più elementari della disciplina: la marshalliana clausola del ceteris paribus. Se tutto il resto rimanesse
lo stesso, potremmo sostenere ragionevolmente che le variazioni dei salari reali siano la conseguenza delle variazioni della produttività del lavoro. Il problema è che tutto il resto non è rimasto affatto lo stesso e l’andamento dei salari nelle economie considerate è stato determinato più consistentemente dai mutamenti delle condizioni istituzionali, sociali e politiche che dalle variazioni della produttività del lavoro. Dato l’ordine temporale degli avvenimenti, non sarebbe inopportuno considerare la tesi opposta. La produttività del lavoro non è cresciuta in Italia anche perché i salari sono rimasti fermi. La tesi che la produttività del lavoro possa essere considerata una funzione proporzionale ai salari reali può scandalizzare molti dei nostri economisti ortodossi, ma in realtà è stata argomenta, in diversi contesti, da numerosi grandi economisti, a partire proprio da Adam Smith per arrivare a Joseph Stiglitz.
Se questo è vero, agli economisti resta il compito di spiegare quali fenomeni di natura istituzionale e riguardanti la struttura industriale della nostra economia hanno portato alla concentrazione in Italia di un fenomeno come la diminuzione della quota dei salari sul reddito che, benché si sia anche verificato nella maggior parte delle economie sviluppate, nel nostro paese ha assunto, nel decennio 1990, un carattere molto più violento che altrove. Per la discussione di politica economica e politica in senso più lato, il problema della retribuzione del lavoro e della distribuzione del reddito in Italia si conferma senza dubbio un problema centrale dal quale non si può prescindere se si vuole parlare, con un minimo di cognizione di causa, di equità.

da “il manifesto” del 12 gennaio


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