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Se la classe dirigente diventa catastrofista…

Non c’è nessuno più catastrofista della borghesia in difficoltà. Specie se è la specie peggiore di borghesia, quella sparagnina, micragnosa, abituata a fare i soldi (il profitto è una parola troppo impegnativa per lei: evoca il “rischio di impresa”) con le posizioni di monopolio, meglio se ereditandolo a gratis direttamente dallo Stato. Quella italiana, insomma.

È persino imbarazzante, sul piano intellettuale, questa oscillazione istantanea tra il magnificare – ad esempio – la razionalità dei mercati, la lungimiranza della costruzione europea, la sobrietà tecnocratica di un governo consegnatoci da altrove, l’inevitabilità dei “sacrifici” per “riilanciare un crescita” che a parole sembrava più sicura della pioggia in autunno… e il precipitare nello sconforto totale che registriamo in questi due editoriali dai due principali giornali dell’imprenditoria italiana (Repubblica non fa testo, essendo un volgare “partito azienda” senza alcuna credibilità “di classe”, ovvero per la borghesia nel suo complesso).

A chi parla questo grido diperato che invita a evitare l‘esplosione dell’euro e dell’Europa? Chi può avere la forza, in Italia, di mettere in moto le energie ciclopiche che occorrono per smuovere il blocco rugginoso che viene denunciato? Nessuno, è evidente. Sul piano continentale, il quadro dei soggetti attivi è quello descritto e noto: la Germania non vuole accollarsi i costi di un riequilibrio generale che passa per il salvataggio di interi paesi e di tutto il sistema bancario. Ma se non lo fa l’Europa intera collassa, travolgendo per forza di cose la stessa Germania. Difficile pensare che la Merkel o Bundesbank possano cambiare parere solo perché i due principali giornali italiani invocano un “colpo di reni europeista” da parte delle leadership continentali da qui alla fine del mese. Quando l’atteso vertice che dovrebbe risolvere tutti i problemi facendo fare un “balzo in avanti” all’integrazione europea – individuando e inaugurando le istituzioni relative – potrebbe rivelarsi invece l’atto di resa che scatena il si salvi chi può.

È il budello senza uscita indolore in cui si è infilata un’Unione che ha pensato di bypassare i problemi politici dell’integrazione mediante l’escamotage solo apparentemente geniale della moneta unica; dalla quale poi sarebbero dovuti derivare, per forza di natura, tutti i passaggi conseguenti.

Non è andata così e non poteva andare così. I differenziali abnormi tra capacità produttiva, stabilità finanziaria, equilibrio di bilancio pubblico dei vari paesi non sono affatto scomparsi per effetto del solo tasso di interesse comune, ovvero per l’eguale costo del denaro. Si sono semplicemente trasformati in differenziali di interessi sul debito pubblico (spread), mentre i sistemi bancari ancora prevalentemente nazionali hanno finito per pagare l’eccessiva esposizione (incentivata proprio dai bassi tassi di interesse) verso settori che non potevano crescere oltre misura (tipicamente: l’immobiliare) opure verso i più remurativi titoli di stato.

È patetico – come fa Polito – rimproverare i “paesi deboli” che non hanno approfittato della bonanza offerta dai bassi tassi di interesse per mettersi a posto. Anche evitando errori macroscopici – come i conti pubblici greci, criminalmente taroccati dai conservatori di Nea Dimocratia – la struttura produttiva di quei paesi, Italia compresa, è stata “storta” per adattarsi alle priorità e opportunità suggerite dall’economia più forte: quella tedesca. Non è davvero colpa dei pur impresentabili governi italici degli ultimi 20 anni il fatto che la bilancia commericale nazionale (il saldo tra esportazioni e importazioni) si presenti in attivo solo verso i paesi deboli (Grecia, Spagna, Cipro, ecc) e la Francia, mentre mostra passivi spaventosi nei confronti della Germania e gli altri “virtuosi del Grande Nord europeo.

L’economia funziona secondo leggi che non si piegano alle esigenze della finanza d’assalto né ai diktat politici. Lo si scopre alla fine del ciclo, naturalmente. E la paura che prende i nostri commentatori sempre pronti alla banalizzazione si trasforma in odor di catastrofe. È la crisi, bellezze! Nella vostra visione del mondo non ci potevano essere. Ora invece è arrivata, sta qui da 5 anni e non se ne vuole andare. La soluzione indolore e “progressiva” non c’è.

Meno di un mese per evitare l’abisso

di Adriana Cerretelli

Niente è per sempre. Non il benessere né la democrazia nè la pace. Men che meno l’euro e l’Europa.
Anche se spesso si tende a dimenticarlo dando per eterni principi e realtà acquisiti nel nostro quotidiano, niente è per sempre, a meno che non si vogliano davvero difendere le conquiste fatte e si sia disposti a battersi per non perderle.
Per la prima volta nei suoi 60 anni di success-story, l’Europa si trova davanti a un bivio mortale: se sbaglia strada, finirà per sfracellarsi. Sarà il suicidio collettivo di un progetto di integrazione grandioso e rivoluzionario, esemplare per molti nel mondo, soprattutto indispensabile per cavalcare da vincente la globalizzazione economica, finanziaria e politica.

Nessuno oggi può permettersi il lusso di affondare l’euro e l’Europa e illudersi di uscirne indenne. Nemmeno la grande Germania, la più globalizzata tra i paesi europei, che però continua a dirigere nell’Unione quasi il 70% del suo export e a detenervi il grosso dei suoi 6mila miliardi di assets esteri.
C’è meno di un mese per salvare la moneta unica, per trasformarne la crisi infinita e sempre più insostenibile da trampolino sul disastro a piattaforma per un grande balzo in avanti, verso l’unione di bilancio, l’unione bancaria e quella politica. In breve verso gli Stati Uniti d’Europa. Non sarebbe la prima volta che, deperita e con un piede nell’abisso, l’Unione ritrova la forza di ripartire. Succederà ancora?

Un manifesto per gli Stati Uniti d’Europa: in questi 23 giorni che ci separano dal vertice europeo di Bruxelles di fine mese, il nostro giornale torna alla carica, sulla scia del Manifesto per l’Europa del primo novembre scorso, con una serie di interventi, tra gli altri di grandi europeisti e uomini d’azione come il tedesco Helmut Schmidt, il francese Jacques Delors, l’italiano Carlo Azeglio Ciampi, per capire e far capire l’entità della posta in gioco: tutto da perdere, niente da guadagnare dalle marce a ritroso, da prepotenze e arroccamenti nazionalistici, dalle derive protezionistiche, insomma dalla scomposizione più o meno deliberata del mosaico europeo.
Il tempo stringe. Superato lo snodo del referendum irlandese per la ratifica del fiscal compact, la corsa ad ostacoli passa domenica per le legislative francesi.

Queste elezioni diranno se la Francia di François Hollande sarà socialista a tutto tondo o costretta alla coabitazione, cioè molto più fragile come interlocutore europeo nel difficile dialogo con la Germania di Angela Merkel. Una settimana dopo il voto in Grecia si saprà se il Paese sceglierà l’euro e i sacrifici oppure se preferirà uscirne.
Nel mezzo il calvario della Spagna di Mariano Rajoy, stretta tra il pesante risanamento dei conti pubblici e una crisi bancaria che, come è accaduto un anno e mezzo fa all’Irlanda, quasi certamente la costringerà a chiedere gli aiuti europei con diktat relativi.

Il tutto in attesa del vertice Ue del 28-29 giugno: nella speranza di molti dovrebbe segnare il punto di svolta della crisi ma, con i chiari di luna di questi giorni, potrebbe anche rivelarsi il 25° flop di una serie allarmante nella sua testarda inconcludenza che moltiplica i costi collettivi dell’incertezza, dell’irresponsabilità politica continuata. Sul tavolo, ci sono progetti ambiziosi ma per ora poco di concreto per uscire dall’emergenza crescita. Si discute di unione di bilancio, cioè di ulteriore rinuncia alle relative sovranità nazionali, e di unione bancaria, cioè di centralizzazione della sorveglianza, garanzia unica per i depositi e possibile accesso diretto ai fondi Esm da parte degli istituti di credito. In altre parole, delle basi per far compiere un nuovo salto di qualità all’integrazione europea.

Qui sta il punto: per quale Europa? Quella equilibrata e solidale delle origini, cui sarebbe facile delegare nuovi poteri, o quella del più forte che impera oggi? Nel 1946 Winston Churchill denunciava la cortina di ferro che stava calando sul continente europeo diviso in due blocchi. Oggi l’Europa riunificata ha quella cortina dentro casa: è la cortina della sfiducia, dell’incomunicabilità reciproca. La grande Germania, dice Schmidt, sta perdendo il senso della storia, del suo riscatto europeo e della solidarietà con i partner.
Ormai guarda con beata indifferenza a sacrifici e risentimento dei greci, all’orgoglio ferito degli spagnoli in difficoltà, al sofferto sì degli irlandesi non per convinzione ma per paura di perdere i fondi Ue. Segue con fastidio, osservandole dall’alto in basso, le manovre della nuova Francia e dell’Italia per rimettere in moto la crescita europea.

Per tenere insieme l’euro Berlino è disposta a fare il meno possibile, al minor costo, il più tardi possibile e proprio se costretta dai mercati. Nell’attesa, lucra allegramente sui guai altrui finanziandosi gratis sui mercati e facendo shopping europeo a prezzi di saldo. Se non cambia, questa Europa a una dimensione, tutta e solo tedesca, è destinata al collasso. Politico, economico, democratico. Alle rivolte popolari. C’è meno di un mese per convincere la Merkel ad ascoltare anche le ragioni altrui, a ritrovare un po’ di spirito europeo, una visione strategica del futuro. In breve, a evitare di far del male a sé e agli altri.

Da Il Sole 24 Ore

 

 

Una domanda senza risposta

Antonio Polito

Si fatica a tener dietro al valzer di vertici e incontri, piani segreti e intese pubbliche, fughe in avanti e fughe di notizie, che ogni giorno si balla in Europa. Le ultime spiagge si succedono l’una all’altra. Fino a ieri era prioritario salvare gli Stati (la Grecia). Ora bisogna salvare le banche (spagnole). Lo schema di gioco è sempre lo stesso: tutti vogliono che si tamponi la falla con i soldi tedeschi, tranne i tedeschi. La situazione si è incartata al punto tale che la Spagna rifiuta gli aiuti del fondo europeo con cui potrebbe salvare i suoi istituti di credito per non accrescere il proprio deficit pubblico. Il serpente si morde la coda. E, qui e là, cova il suo uovo, pronto a schiudersi in movimenti estremisti o fascisti.

Il senso di affanno è testimoniato dal susseguirsi di grand plan , mirabolanti ipotesi di architetture istituzionali che rischiano di arrivare quando l’edificio sarà già bruciato al fuoco dei mercati. Così, mentre la Francia, l’Italia e perfino la Germania tardano a ratificare quel Fiscal Compact che era stato indicato come la panacea, già si immaginano a Bruxelles disegni – fatti filtrare e subito smentiti – per trasformare questa claudicante Unione di 27 Stati in una sorta di Superstato sul modello degli Usa.

Eppure i termini del problema sono ormai chiari. I Paesi che hanno goduto per dieci anni di crediti con bassi tassi di interesse come se fossero la Germania, e che li hanno sperperati al contrario della Germania, non reggono più. A questo punto o saltano, e con essi salta l’euro; oppure la Germania, per salvare l’euro e se stessa, salva loro. A questo alludono tutti i tentativi di introdurre qualche forma di condivisione del debito, cioè strumenti che obblighino Berlino a garantire il debito degli altri.

Però questa strada, oggi preclusa, è percorribile solo se si comprende che nemmeno alla Germania si può imporre una deroga al principio cardine della democrazia: no taxation without representation. Lo ha notato Giancarlo Perasso su lavoce.info, e ha ragione: è impossibile chiedere ai contribuenti tedeschi di essere pronti a rimborsare gli eurobond senza che essi abbiano la possibilità di scegliere chi spende quei soldi.

È questo il rompicapo europeo. Finora è risultato inutile il tentativo di convincere i tedeschi con il ricatto o con l’appello alla solidarietà. Ma oggi, sotto la pressione perfino di Obama, si ha l’impressione che la Cancelliera Merkel stia lanciando segnali in questo senso: «Il mondo – ha detto ieri – vuole sapere come noi immaginiamo l’unione politica che va insieme all’unione monetaria». Parole analoghe aveva pronunciato qualche giorno fa Mario Draghi. Il punto è: tutti coloro che accusano la Germania di egoismo e miopia, compresa la nostra spendacciona classe politica, hanno ben chiaro che significa fare questo passo? Sono pronti a cedere cruciali poteri sovrani sul bilancio, sul welfare, sulle tasse?

Prima o poi, a questa domanda bisognerà dare risposta. E in quel momento scopriremo che non è affatto una risposta scontata, soprattutto in Francia, da sempre vero cronografo e limite del processo di integrazione. Non c’è bisogno di ricordare che fu il «sovranista» popolo francese ad affondare in un referendum la Costituzione europea. Un tempo si diceva che l’Europa è nata per nascondere la potenza tedesca e la debolezza francese. Per continuare a vivere, deve oggi riconoscerle entrambe.

Dal Corriere della sera

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