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Tre passi sull’orlo del baratro euro

 

Mai si è vista un’operazione di “salvataggio” suscitare tante paure. Viene il sospetto che gli “spin doctor” ormai dietro ogni definizione ufficiale abbiano fatto il solito gioco, chiamando “salvataggio” una pietra messa al collo del nuotatore in difficoltà.

Il problema, noto, è che la Spagna costituisce la quarta economia di Eurolandia, non la penultima come la derelitta Grecia, che pure continua a spaventare per la possibilità che domenica – ripetizione delle elezioni politiche – scelga una formazione di sinistra radicale che pretende di restare nell’euro ma di rinegoziare il “memorandum”. Ovvero di alleggerire la pietra al collo di Atene messa due anni fa, quando c’era il più arrendevole Papandreou e il truffatore professionista Samaras era addirittura la possibile “alternativa”.

Non c’è insomma osservatore consapevole che non capisce come i 100 miliardi prestati per salvare il sistema finanziario iberico sia solo una prima tranche di una manovra ben più complessa che riguarderà per il momento Madrid e probabilmente, subito dopo, l’Italia.

Ma è possibile per questa Europa “salvare”, con l’identica tecnica usata in Grecia, due pesi mediomassimi come Spagna e Italia?

I risultati ottenuti in Ellade non lasciano molte speranze quanto ad efficacia della cura. Ma, soprattutto, gli importi necessari crescono esponenzialmente col crescere delle dimensioni dell’annegando. Il che non lascia molti spazi aperti all’ipotesi ottimistica – fin qui dominante tra i “rigoristi” merkelliani – che bruciando i paesi meno forti della zona euro si possa impedire la diffusione del “contagio” fino al centro del sistema.

È un’idea bislacca, nazionalista, incompetente. L’euro è un “sistema” monetario. La sua implosione non lascerebbe nessun paese economicamente intatto. Nemmeno la Grande Germania, fin qui beneficiaria pressoché unica della moneta comune, cui per dieci anni è riuscito quello che con la “dollarizzazione” non era risucito agli Stati Uniti verso l’America Latina (Argentina ed Ecuador ne sanno qualcosa…). Il paese più forte ha il 50% delle esportazioni dirette all’interno della’area monetaria comune. E, come spiegano ormai da mesi molti ex statisti tedeschi, “non avremmo più un mercato capace di pagare i nostri prodotti”.

Potreste dire: siete comunisti, marxisti, quindi catastrofisti (noi diremmo “crollisti”, ma fa niente). Beh, dovendo fare la parte di Cassandra – la teoria marxiana è l’unica che vede la crisi come una “necessità” immanente al funzionamento del modo di produzione capitalistico, non come un “errore” commesso da un attore del sistema – in qualche modo siamo pronti a cogliere i segnali critici, a cominciare dai più gravi.

Gli articoli che vi proponiamo di leggere, qui sotto, sono però ben più catastrofisti di quanto noi ci siamo mai permessi di essere. Sentire una Lagarde, direttore del Fmi, parlare di “tre mesi di tempo per salvare l’euro”. O leggere un Bastasin o un Napoletano, sul quotidiano di Confindustria, parlare apertamente di Weimar e di guerra come se fossero ormai dietro l’angolo, ci sembra un indizio preoccupante, E magari più di un indizio.

 

 

Salvataggio ad alto rischio

Joseph Halevi

Lettrici e lettori vorranno certamente sapere e capire in che cosa consiste il «salvataggio» del sistema bancario spagnolo. In verità è difficile dirlo con precisione perché dipende da quale fonte verrà erogata la somma di 100 miliardi di euro. La questione l’ha sollevata Robert Peston sulla Bbc di domenica. Se i soldi verranno dal nascente Esm (European Stability Mechanism) quest’organismo avrà priorità nei rimborsi rispetto ai creditori privati. Se invece la fonte sarà il vecchio Efsf (European Financial Stability Facility), non vi sarà precedenza per gli Stati qualora, come è probabile, la Spagna avesse difficoltà a effettuare i rimborsi. In tal caso scatteranno le obiezioni della Finlandia che chiede delle garanzie in attività reali, come già fece con la Grecia. La dimensione formale del finanziamento mette in luce il ruolo tossico delle istituzioni di salvataggio ideate tra Bruxelles e Francoforte. Da un lato, pur non chiamandolo col suo vero nome, alla Spagna viene accollato un rescate che ne aggrava l’indebitamento pubblico, esattamente come sta succedendo con la Grecia.

Dall’altro, gli organismi europei preposti al «salvataggio» sono tossici perché hanno la struttura dei Cdo (Collateral Debt Obligations). I 100 miliardi di euro hanno aumentato notevolmente il rapporto debito-pil della Spagna, mentre le prospettive di crescita del paese sono molto negative. In questo contesto anche applicando un tasso di interesse molto più basso dei famosi spread, l’onere sociale dell’accresciuto debito diventa disastroso per la popolazione.
Ne consegue che la natura del «salvataggio» distrugge le finanze pubbliche spagnole, ne fragilizza i titoli di Stato creando le condizioni per nuove impennate negli spread. Inoltre i 100 miliardi di euro, una volta erogati, vengono addebitati per la quota parte agli Stati che contribuiscono al fondo che così vedono aumentare il proprio rapporto debito-pil. L’esperienza di questi ultimi due anni ha mostrato come le misure di austerità aggravino la situazione, affossando il pil e aumentando quindi il tasso di indebitamento. La Spagna, in quanto economia «grande» e proveniente da deficit di bilancio minimi e da un basso livello di debito, ne è l’esempio più lampante. Secondo le stime effettuate dall’Ocse nel suo ultimo Economic Outlook reso noto il mese scorso, il rapporto debito-pil passerà dal 63% del 2009 all’88% del 2012. Si stima che la disoccupazione salirà al 26% il che, considerando che l’area di sotto-occupazione si espande a sua volta, implica una disoccupazione della stessa grandezza della popolazione occupata. La vicenda non appare per niente chiusa sullo stesso fronte bancario: per via della depressione economica, i prezzi immobiliari continuano a calare svalutando quindi le cartolarizzazioni in mano alle banche che quindi possono uscire dal ciclo delle perdite solo scaricandole sullo Stato.

 

Da “il manifesto”

 

 

Lagarde: meno di tre mesi per salvare l’euro

Sono rimasti «meno di tre mesi» di tempo per salvare l’euro: è quanto ha detto Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale (Fmi), in una intervista a Christine Amanpour, celebre giornalista della Cnn. Con queste parole Lagarde ha risposto a George Soros, il finanziere americano di origine ungherese che nel 1992 guadagnò oltre un miliardo di dollari speculando sulla sterlina, per il quale «le autorità europee hanno un margine di tre mesi per correggere i propri errori e invertire l’attuale inerzia».

«Non sto fissando un termine entro il quale tutta la situazione dovrebbe risolversi – ha tuttavia specificato Lagarde -. La creazione dell’Eurozona ha richiesto tempo ed è un lavoro ancora in corso al momento e deve essere migliorato, modificato e rafforzato nel corso del tempo».

Nell’intervista Lagarde non ha voluto fare previsioni su una possibile uscita della Grecia dall’Eurozona. «Sarà una questione di determinazione politica». Lagarde ha puntato in particolare l’indice contro l’evasione fiscale nel Paese ellenico.

Intanto oggi il numero due del Fmi, David Lipton ha commentato l’attuale situazione della Spagna dopo il piano salva-banche dell’Ue da 100 miliardi. Secondo Lipton i fondi per la ricapitalizzazione delle banche spagnole sono «un importante passo ed eliminano dubbi e incertezze», ma «più generalmente l’Europa» ha bisogno di altri passi, visto che «molti Paesi dovrebbero perseguire il consolidamento fiscale».

 

Da Il Sole 24 Ore

 

 

La road map della Germania da sola non basta a salvare l’euro

di Carlo Bastasin

Quando il cancelliere Helmut Kohl difendeva il progetto di integrazione europea, sosteneva che l’unificazione europea era una questione di pace o di guerra.

Con il tempo molti di noi hanno pensato che si trattasse di uno stratagemma retorico, un’eco di tragedie ormai troppo lontane e che in fondo i cittadini europei non avrebbero mai nemmeno preso in considerazione l’ipotesi di un conflitto tra i loro Paesi.
È certamente così. Tuttavia i costi economici dell’attuale crisi europea corrispondono a quelli di uno dei frequenti conflitti regionali che venivano combattuti tra i Paesi europei nel 19° secolo. Se la moneta unica deflagrasse in modo disordinato, i costi economici diventerebbero paragonabili a quelli della prima guerra mondiale. Ma a peggiorare ulteriormente la situazione c’è il fatto che sugli stati europei pesa dal 2008 il costo della crisi finanziaria globale che è originata negli Stati Uniti e che ha causato un aggravio dei debiti pubblici equivalente in media a quello provocato dalla seconda guerra mondiale.

La gravità della sfida politica che ha preso forma nel corso degli ultimi mesi è penetrata nelle consuetudini e nel modo di pensare dei cittadini. In alcuni Paesi si vede disintegrarsi con una rapidità inimmaginabile il tessuto politico su cui si sono rette le democrazie per decenni. I partiti tradizionali non sono più considerati rappresentativi della maggioranza degli elettori in Grecia né in Italia. Anche in Germania un processo di frammentazione parlamentare sembra accelerare. Ormai da tempo i due maggiori partiti popolari che avevano garantito il consolidarsi della democrazia tedesca nel dopoguerra non raccolgono più il 90% dei voti, ma la metà. Se la crisi dovesse aggravarsi l’Europa rischierebbe di trovarsi nella combinazione di costi economici terribilmente onerosi e di fragilità politica. Sarebbe una miscela simile a quella che provocò la caduta della Repubblica di Weimar.

Per contrastare questo scenario terribile, il Consiglio europeo di fine mese, il 28 giugno, dovrà produrre un ambizioso orizzonte politico favorevole al salvataggio dell’euro e dell’Unione europea. Solo consolidando la cornice europea, le democrazie nazionali potranno ritrovare compattezza. Da Berlino sta emergendo finalmente una “mappa nautica” che dovrebbe accompagnare la barca europea al sicuro.
La mappa prevede tre passaggi impegnativi: un’unione bancaria e finanziaria entro 12-18 mesi; un’unione fiscale entro il 2015 e infine un’unione politica legittimata democraticamente entro il 2020. È forse la prima volta che si vede sullo sfondo un punto d’approdo per la tormentata vicenda europea.

Tuttavia questo percorso immaginario sposta così in là l’orizzonte politico da scontrarsi con le emergenze di brevissimo termine. Se il Consiglio europeo di fine giugno dovesse produrre solo un impegno rimandato nel tempo, rischia di arrivare troppo tardi. Il 17 giugno le elezioni generali in Grecia potrebbero determinare l’impossibilità per Atene di rimanere nella zona euro. Come è stato spiegato in occasione del recente Consiglio Italia-Usa a Venezia, i rappresentanti del partito di estrema sinistra che potrebbe vincere le elezioni di domenica sono essi stessi preoccupati dalla prospettiva di una vittoria. Sino a pochi mesi fa i sondaggi davano loro il 4% dei consensi e l’intera linea del partito era costruita su una posizione di marginalità politica e di intransigente opposizione al governo. Ora che sono oltre il 20%, nel caso di vittoria, potrebbero dover decidere nel giro di giorni su temi esistenziali che non hanno mai considerato come se fossero di loro responsabilità. Non avere a disposizione un interlocutore comprensivo rischia di peggiorare la situazione e rendere inevitabile l’uscita dalla zona euro.

Secondo un noto investitore internazionale non è nemmeno troppo importante chi sarà il vincitore del voto di Atene perché, a forza di discuterne, l’ipotesi di un’uscita della Grecia dall’euro è ormai diventata plausibile e a catena essa apre la possibilità che altri Paesi facciano la stessa sorte. A questo punto l’euro finirebbe per incorporare un rischio di cambio perfino tra Germania e Francia. Ancorare le aspettative al 2020 in tali circostanze sarebbe una sfida al buon senso.
Come avviene ormai da quattro anni, lo scenario che si sta profilando resta quello di governi che continuano a procrastinare il loro impegno diretto e solidale a favore dei Paesi in maggiore difficoltà e lasciano alla Banca centrale europea il compito di tamponare le falle per quanto possibile ogni volta che l’euro si avvicina al baratro. L’esistenza di una mappa nautica che disegna il tragitto dei prossimi anni può legittimare l’intervento della Banca centrale rendendolo “temporaneo”, ma difficilmente è in grado di evitare che mese dopo mese sempre nuovi incidenti continuino a lacerare la tenuta economica, sociale e politica dell’area euro.

Da Il Sole 24 Ore

 

 

 

Schnell, Frau Merkel

di Roberto Napoletano

Prima è toccato alla Grecia, poi all’Irlanda e al Portogallo. Puntuale è arrivata la volta della Spagna. Tocchiamo ferro per l’Italia. Si può sostenere, con un minimo di ragionevolezza, che l’Europa esiste se si consente ai mercati di attaccare e colpire impunemente un Paese dietro l’altro? La risposta è no.

Questo giornale pubblica dal 5 giugno editoriali dei padri fondatori sugli Stati Uniti d’Europa per ricordare a tutti che il prossimo vertice di fine giugno non può essere il venticinquesimo consecutivo in cui non si decide nulla. Una sola citazione firmata Helmut Schmidt, ex cancelliere tedesco, può aiutare a inquadrare la situazione che stiamo vivendo: la grande Germania sta perdendo il senso della storia, del suo riscatto europeo e della solidarietà con i partner.

Signora Merkel, così non può andare avanti. Non farà molta strada se continuerà ad essere indifferente alla rabbia dei greci, distante dall’orgoglio ferito degli spagnoli, dalle paure italiane e dalle angosce francesi. Tirare fuori 100 miliardi europei (di cittadini europei, una buona parte italiani) per difendere le banche spagnole e ritrovarsi con lo spread BTp-Bund a 473 punti (rendimento al 6,03%) e quello con i Bonos spagnoli oltre quota 520 (rendimento al 6,51%) è solo l’ultima spia di un allarme rosso che lei si ostina a volere ignorare. Non esistono vie alternative. Lo abbiamo già detto e scritto ripetutamente. Bisogna dare un messaggio forte ai mercati: l’Europa esiste, non salta, punto.

Il tempo delle parole è finito, con dieci anni di ritardo, il disegno di integrazione politica va portato a compimento attraverso scelte concrete, immediatamente operative. Almeno tre.

1 – Garanzia unica per i depositi bancari europei. A chi solleva problemi morali, non del tutto infondati, sulla sua introduzione, va spiegato che, in assenza di questo strumento, rischia di pagare di più anche chi si è comportato bene.

2 – Accesso diretto al Fondo salva-Stati (Efsf) da parte degli istituti di credito. Potrà sembrare un dettaglio ma non lo è: le turbolenze di ieri sui mercati sono figlie proprio della convinzione che gli aiuti arriveranno da un secondo fondo di stabilità, Esm, non dall’Efsf, e questo incide sulla qualità e il tasso di rischiosità dei titoli di Stato spagnoli.

3 – Unificazione dei debiti pubblici europei distinguendo (Paese per Paese) il carico degli interessi ma neutralizzando così l’azione della speculazione sui tassi dei titoli sovrani dei Paesi del Sud Europa (e non solo) che si è rivelata molto onerosa. Questo terzo punto è il più complicato. Si può raggiungere solo a patto che si scambi la protezione in comune con la modifica della Costituzione di ciascun Paese per cedere sovranità nazionale e acquistare sovranità europea sigillata da una nuova, vera carta costituzionale. Perché diventi realtà chi governa i singoli Paesi (Francia e Germania comprese) deve avere la forza di far capire ai suoi elettori gli indubbi benefici di breve e medio termine conquistabili con tale scelta. Può sembrare un processo ardito (di certo non è agevole) ma è addirittura obbligato se non si vuole fare la fine dei dieci piccoli indiani di Agatha Christie.

Questo serve subito, serve all’Europa, e serve alla Germania. Non è suo interesse mettere a terra le economie europee dove continua a collocare oltre il 60% del suo export e a detenere la gran parte degli asset esteri. Mario Draghi ha iniettato liquidità come mai aveva fatto prima la Bce, è pronto a rifarlo ancora, ma non si stanca di ripetere che non tocca a lui «dissipare la nebbia». Draghi ha ragione. Tocca alla cancelliera Merkel recuperare la forza politica dei padri fondatori e portare a compimento il disegno di Helmut Kohl. Tra le macerie di piccoli e grandi Paesi europei non può sopravvivere una Germania forte e in salute, il conto sarebbe salatissimo per tutti. Accolga le buone istanze per la crescita di America e Cina e ne respinga con fermezza le simpatie interessate. Ritrovi l’orgoglio di guidare il processo della nuova Europa, l’area di più antica civiltà economica, una grande storia alle spalle. Il debito pubblico dell’eurozona è pari a circa il 90% del prodotto interno lordo. Negli Stati Uniti la crisi dei debiti privati del 2008 ha determinato un indebitamento pubblico ampiamente superiore al suo Pil. Se l’Europa ritrova velocemente la sua unità politica, sarà un concorrente temibile per tutti e potrà garantire reddito e occupazione alla nuova generazione di cittadini europei. Altrimenti sarà travolta da una spirale di interventi difensivi che saltano da un Paese all’altro, fanno guadagnare tempo, ma ci condannano al declino. Se vuole che lei e la sua Germania restino protagonisti in Europa, non ha più tempo da perdere. Batta non uno, ma almeno due o tre colpi, e li batta subito, perché a tutti sia chiaro che gli Stati Uniti d’Europa sono una realtà e l’euro non è più attaccabile. Schnell, Frau Merkel. Faccia presto, signora Merkel.

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