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La caduta degli “schei”

La Sisley che non si iscrive al campionato, i capannoni che si svuotano e gonfiano la bolla immobiliare, il calo del Pil in media con quella nazionale. Viaggio a nord-est, dove il modello di capitalismo diffuso degli anni ’90 è stritolato dalla crisi.

La caduta degli schei

L’ultimo colpo è la scomparsa della Sisley. La pluridecorata squadra di volley – 9 scudetti, 4 coppe dei campioni e molto altro – che dal 1987 fino a ieri sembrava declinare il «miracolo a nord-est» nel binomio sport-sponsor. E simboleggiare una rivincita. Del «piccolo» sul grande, del capitalismo diffuso su quello fordista, dei distretti dinamici sui pachidermici poteri forti. Quel «modello vincente» che negli anni ’90 faceva soldi a palate esportando nel mondo merci e successi con la svalutazione competitiva della lira, la grande intensità del lavoro, l’adattabilità commerciale, l’azienda a rete e la diffusione della micrompresa; la mutazione dei contadini in padroncini, i «piccoli, maledetti e fieri» prima decantati dall’indipendentismo dei Serenissimi e poi conquistati dal federalismo bossiano, con tutte le articolazioni politiche e un po’ razziste del caso. In un legame sociale che si saldava sul territorio attraverso la famiglia-azienda, la complicità del consumo tra imprenditori e operai, l’anarchia del «lasciateci lavorare» in odio a regole, stato e – soprattutto – fisco. Ora la Sisley, abbandonata dai Benetton ed emigrata invano per un anno a Belluno senza trovare nuove sponde industriali, rinuncia a iscriversi al campionato di A1: scompare la squadra e il simbolo, resta solo un marchio d’abbigliamento. Uno dei tanti.
La crisi morde e da queste parti il vero dramma è diventare «uguali» agli altri, scoprire di non essere più «speciali», che il «modello» non esiste più, che se mai è esistito si è fratumato nei mille rivoli della globalizzazione, con l’euro che frena l’export e l’insufficienza del «tirarsi su le maniche». Anche se la percezione della crisi e di una pericolosa inadeguatezza sono dure da digerire: meno 1,6% il Pil previsto per Veneto nel 2012, meno 1,7% quello italiano. Siamo lì e – rabbie a parte – non ci sono grandi segni di reazione. «Lento dimagrimento», sintetizza prudentemente l’ultimo rapporto di Veneto-Lavoro.
La rabbia dei padroni
Servirebbe una scossa e anche se la Sisley scompare gli industriali di Treviso non rinunciano alla grinta che da qualche parte devono indirizzare. Così Alessandro Vardanega, appena rieletto presidente di Unindustria Treviso – una delle più grandi e attive «filiali» territoriali di Confindustria – arringa i suoi contro il fisco, la finanza, le burocrazie, i politici, i professori al governo. Un anno fa la marcia silenziosa di questi padroni, «contro i poteri sordi», aveva segnalato la crisi definitiva dell’asse del nord, dopo quasi vent’anni di potere; poi, per difendere la Marca (traduzione locale del feudo) dalla pestilenza economica in arrivo, la firma di un accordo-quadro con Cgil, Cisl e Uil che seppellisce i contratti nazionali a favore di quelli aziendali; oggi l’urlo contro la «politica autoreferenziale», «una burocrazia da eliminare», il fisco degli «statalisti» che strozza le imprese e gonfia la spesa pubblica. «Perché – attacca Vardanega – si è drammaticamente inceppato il meccanismo autoregolante basato sul mix di svalutazione, credito facile, nuovi sbocchi commerciali e minor pressione fiscale». È l’ultima versione della questione settentrionale. Più radicale delle precedenti e dagli esiti meno prevedibili. La festa degli anni ’90-2000 è davvero finita e ora servono interventi drastici. Il binomio impresa-lavoro deve essere liberato da ogni laccio e qui non capiscono perché la riforma del mercato del lavoro in arrivo sia così minimale e non segua l’esempio trevigiano cancellando i contratti nazionali e i loro rigidi diritti. Perché «la ricchezza si fa in impresa e la fa solo l’impresa», «non c’è tempo da perdere in discussioni politiche».
Per essere più efficace, Vardanega mentre parla fa scorrere alle sue spalle le 13 cifre che scandiscono in tempo reale la crescita del debito pubblico italiano. I 1.928 miliardi e rotti lievitano a scatti di 2.700 euro al secondo: non particolarmente originale ma di sicuro effetto. Anche la ricetta per tornare a crescere non è molto fantasiosa: meno tasse, banche più disponibili, la pubblica amministrazione paghi i suoi debiti con le imprese private. E taglio della spesa pubblica, ovvio. Per tutto il resto, per lo sviluppo, ci penseranno loro, le imprese. Che, con tanto lavoro e dipendenti consenzienti, sapranno risalire la corrente. Alla politica chiedono «semplicemente» di non essere d’intralcio e accompagnare questo sforzo. Il governatore leghista Zaia, seduto in prima fila, prova subito a rilanciare: «Fate obiezione fiscale, la regione sarà con voi». Ma il messaggio padano è ormai a scartamento ridotto, la Lega non scalda più gli animi, Maroni e Tosi al massimo possono reinventarsi sul modello della Csu bavarese, una Dc lombardoveneta per amministrare – e trattenere in loco – la ricchezza. Zaia vorrebbe per la regione la parte dell’Imu riservata allo stato. Gli industriali, invece, l’Imu sui tanti capannoni che hanno occupato pianura e valli non vorrebbero proprio pagarla.
Anche perché molti vecchi capannoni cominciano a svuotarsi e quelli nuovi vengono innalzati più che altro per diventare garanzie bancarie, gonfiando una bolla immobiliare che prima o poi scoppierà. Perché, come mormora la platea di Unindustria, il problema è che «no xe più schei», non ci sono più soldi.
Lavoro impoverito
La cosa non è poi così vera, ma certamente per un mondo a memoria contadina abituato a pensare che gli «schei» nascono dalla terra (e su quella terra devono restare o essere consumati), i tempi sono diventati più difficili, i margini si sono ristretti. Di soldi ne girano ancora, ma in maniera più selettiva. Per il lavoro dipendente e per i piccolissimi degli indotti e dei distretti non ce ne sono mai stati molti, nemmeno da queste parti.
Con la crisi è saltata anche la garanzia del minimo. La crescita del numero delle imprese (il 90% sono sotto i dieci dipendenti e danno lavoro al 60% del totale degli occupati) si è interrotta e oggi nel nord-est quelle attive sono 650.000, appena 10.000 in più di 15 anni fa, quando i mercati dell’est erano già aperti e la lira spingeva l’export. La demografia d’impresa continua a essere vivace (ogni anno ne nascono e muoiono decine di migliaia) ma dal 2008 la linea ha iniziato ad appiattirsi e nell’ultimo anno il saldo tra aperture e chiusure è stato negativo (meno 1.600). Le esportazioni che crescevano a ritmi percentuali di due cifre fino al 2000, hanno poi frenato per aumentare del solo 0.3% nel quadriennio 2008-2011. Il saldo commerciale resta alto e le due regioni principi del nord-est, Emilia e Veneto, guidano la classifica italiana rispettivamente con 18 e 9,6 miliardi di euro. Ma basta analizzare il mercato del lavoro per visualizzare il «no xe più schei» di marca trevigiana.
Nel solo Veneto la crisi ha provocato un emorragia di 80.000 posti di lavoro dal 2008 a oggi, mentre sono aperte situazioni di crisi per altri 20.000 addetti. Si salvano solo la sanità, i servizi sociali e quelli di vigilanza (per una società invecchiata e impaurita), mentre nell’industria è un dramma in tutti i comparti, con la situazione peggiore nel metalmeccanico che perde 23.000 posti. Le ore di cassa integrazione (tra ordinaria, straordinaria e in deroga) sono state 16 milioni nel 2008, 87 milioni nel 2011. Il tasso di disoccupazione, che negli anni ’90 era stabilizzato ai livelli endemici del 2-3%, ora è raddoppiato, viaggia attorno al 6%, ancora parecchio distante dal 10-11% delle media italiana, ma pericolosamente in aumento pure qui. Persino le partite Iva sono diminuite e in maniera più sensibile che nel resto del paese: -4% in Veneto, -2% la media italiana.
Giorgio Molin, segretario della Fiom veneta queste cifre le conosce bene. Davanti alla Fincantieri di Marghera, scuote la testa e indica l’ingresso: «Guarda lì dentro. Che occasione mancata…». Il lavoro è ridotto al minimo, come in tante altre fabbriche, ma Molin ce l’ha con i dirigenti di una società pubblica che «hanno abbandonato la nave». Perché trascurando innovazione e progettazione, puntando tutto su appalti e subappalti, è stata fatta cassa per qualche anno con le navi da crociera, risparmiando sul costo del lavoro (sempre più precario, con gli indiretti ormai il doppio dei dipendenti diretti), ma oggi la crisi è palese e i primi a pagarne le conseguenze sono proprio i tanti lavoratori precari e immigrati degli appalti. In un manifatturiero già in difficoltà, Fincantieri è ancor più evidentemente un’occasione sprecata, la dissipazione di professionalità e la rinuncia del «publico» a programmare un futuro industriale adeguato ai tempi. Non è una specificità del nord-est questa, non vale solo per Marghera o la vicina Monfalcone. Lo stesso «lamento» potrebbe arrivare da tutti i cantieri italiani, da Genova a Castellammare, da Ancona a Palermo. Ma Molin si arrabbia per la sottovalutazione che il sistema-Veneto ha sempre fatto della grande industria, considerandola un residuo del passato: «Invece le navi in Germania le costruiscono alla grande». Ora che il «piccolo è bello» mostra tutti i suoi limiti – la famosa sottocapitalizzazione delle imprese, la competizione al ribasso, ricerca e innovazione lasciate alla volontà dei singoli – l’assenza di una «mano pubblica» pesa di più.
Un sordo ribollire
«Di certo quel che manca è una visione», dicono quasi in coro Alfiero Boschiero dell’Ires e Bruno Anastasia di Veneto Lavoro: «Non c’era quando i fatti, le innovazioni, i cambiamenti anticipavano le analisi della politica, del sindacato, dei centri studi. Non c’è oggi, nel ristagno, nella palude». Anche se, osservando bene – sempre inseguendo la strada degli «schei» – da un panorama un po’ stagnante e fermo emerge un sordo ribollire, un po’ paludoso e grigio, quasi una distesa di geiyser. Perché è vero che non si vedono all’orizzonte nuovi Carraro, Benetton, De Longhi, Del Vecchio – «quelle leadership che segnalano un salto di qualità», aggiunge Anastasia – ma da queste parti ci si muove ancora molto. Anche quando l’eccellenza serve ormai a sopravvivere.
Anche se il «movimento» va in ordine sparso e pure contraddittorio, tra nicchie di mercato da inventare, fughe all’estero, soldi sporchi. Anche quando la distesa di geyser produce bolle strane e inquietanti, ronde antitasse che mimano Serenissime polizie in difesa dei «piccoli, maledetti e fieri», teorie economiche che denunciano «il declino occidentale di fronte all’Oriente arrembante», prevedono un domani di povertà e per arginare il peggio decretano che, essendo la crisi economica incompatibile con la democrazia, «bisogna sospendere la democrazia». Lo scopo è sempre lo stesso: ritrovare gli «schei».
(1-continua)

 

Intervista/ EUGENIO BENETAZZO, «VOCE» DEL PROFONDO NORD-EST
«La soluzione? Un euro a due velocità e un grande timoniere, un Mao europeo»
Ga. P.
Ai grandi media è quasi ignoto, sul web è seguitissimo, come i tour di conferenze nel suo Veneto. Ha pubblicato un sacco di saggi, l’ultimo è dedicato alla crisi europea (Neurolandia, ed. Chiarelettere). Eugenio Benetazzo è una strana figura: laurea in economia aziendale, giovane analista e commentatore finanziario, gestore di fondi e patrimoni (altrui), è stato definito il «Grillo dell’economia» o il «Roubini italiano», lui si descrive come «il più autorevole economista italiano fuori dal coro». Esagera, ma il suo sentenziare fa scuola perché dà voce a qualcosa di ben radicato a nord-est. Anche se è impietoso con i suoi conterranei e chi lo ascolta si spaventa pure un po’.
Crisi nera da queste parti?
Non solo qui. È la metamorfosi del sistema occidentale che declina per il risveglio dell’Asia. Non è una crisi di transizione, siamo destinati a ritornare poveri.
Non si salva nemmeno l’operoso Veneto?
Scarsi capitali iniziali, tantissime piccole imprese e tanto lavoro: un modello che non può reggere di fronte alla concorrenza asiatica. Gli scarpari del Brenta, la concia e l’abbigliamento del vicentino, gli artigiani orafi: tra dieci anni avremo pochisismi superstiti e tantissimi «morti». Anche perché manca una cultura imprenditoriale, l’azienda-famiglia non ha futuro.
Nemmeno ricavandosi delle nicchie?
No, se non cambia l’approccio. Io amministro un fondo d’investimenti a Vicenza. In questi mesi di crisi abbiamo girato decine di piccole e medie imprese proponendo alleanze finanziate da nuovo capitale di rischio – per bypassare «l’avarizia» delle banche – entrando a far parte della gestione sociale. La risposta quasi unanime è stata: «No voio aver a che far con gente che vien a meter el muso nei miei afari». Così non si va da nessuna parte.
Invece che bisogna fare?
Cambiare la testa: abbandonare il manifatturiero a basso valore aggiunto, concentrarsi sulla ricerca, la cura dello «stile», le nuove tecnologie. Ma servono soprattutto scelte di fondo.
Cioè?
Il problema è l’Europa. L’euro non ha avvicinato il sud al nord, per cui la soluzione più ovvia sarebbe una doppia moneta, l’euro a due velocità. Per un po’ funzionerebbe. Insieme al commissariamento delle fondazioni bancarie: il governo dei tecnici dovrebbe fare con le banche ciò che ha fatto con la politica, metterle sotto tutela. Poi servirebbe una nuova leadership, perché sul medio periodo questa crisi la si può affrontare solo con decisioni radicali: se serve il protezionismo o un piano di green economy, gli eurobond o una politica fiscale europea ci vuole qualcuno che abbia il potere di imporlo.
Ci sarebbero parlamenti e governi…
Oggi la democrazia rappresentativa è solo un problema. L’emergenza economica è incompatibile con la democrazia che va sospesa a tempo determinato, fino all’uscita dal tunnel. Serve un leader, un grande timoniere che decida per tutti. Un «Mao europeo»…
Mao?
Si, voglio dire che dovrebbe essere fatto qui quel che Mao fece in Cina modernizzandola per poi aprire la strada alle grandi riforme e allo sviluppo attuale.
Forse il maoismo è stato un po’ più complesso. Ma torniamo alla sospensione della democrazia. Berlusconi e la Lega, con il loro populismo, qualche passo in quella direzione lo avevano fatto…
Roba passata. Servirebbe un Berlusconi nuovo – non quello vecchio – per rilanciare l’economia. Quanto alla Lega, gli scandali le hanno dato solo l’ultimo colpo, ma da queste parti è chiaro da tempo che ha fatto pochissimo per il Veneto: qui il futuro politico appartiene a movimenti come «Veneto Stato», gli indipendentisti crescono.

 
 

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