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Il mito delle “regole” in un sistema che produce follia

Un mercato finto, pieno di soldi virtuali ma con effetti reali, sul mondo reale. Un articolo perfetto del Sole 24 Ore, organo di Confindustria, ma giornale “serio” quando decide di fare il giornale serio. E viene più facile quando c’è da picchiare sulla finanza. In fondo Confindustria rappresenta gli interessi delle imprese impegnate nella produzione “fisica”. Per le banche c’è l’Abi. E le banche non hanno “un” giornale; li controllano quasi tutti.

Un’annotazione che il Sole non può fare è però necessaria. Le cifre qui manipolate sono tali da rendere solare il fatto che qualsiasi taglio alla spesa pubblica, qualsiasi fiscal compact, qualunque “pareggio di bilancio” messo per obbligo in Costituzione, qualsiasi sacrificio umano è una goccia rispetto all’oceano di merda prodotta e maneggiata da questi bastardi.

Detto in modo più sereno: non serve a nulla. Non “usciremo dalla crisi” con questa roba. Vi finiremo dentro, invece, nei modo peggiori e più sanguinosi che esistono.

 

 

 

La finanza malata scuote i mercati

Morya Longo

LONDRA. Dal nostro corrispondente
«Il volto inaccettabile del capitalismo» aveva i capelli d’argento e la mascella squadrata di Tiny Rowlands, signore di Lonrho, conglomerato che spaziava dalle miniere in Rhodesia fino al grande magazzino Harrods passando per una testata oggi liberal come l’Observer. «Il volto inaccettabile del banking», ha i lineamenti netti e l’eterno sorriso di Bob Diamond, 60 anni, ceo di Barclays, la banca salvata dal credit crunch grazie all’acrobatico intervento di investitori arabi giunti un attimo prima che toccasse allo Stato staccare il solito assegno. L’acida battuta di Lord Mandelson contro Bob Diamond echeggia quella, storica, che l’ex premier Edward Heath rivolse negli anni Settanta al tycoon in bilico fra Africa e Inghilterra.
Altri tempi, simili dinamiche. Londra è ancora, saldamente, alla tesa del resto del mondo, negli eccessi di spavalderia oltre i limiti del lecito. E se ieri erano conglomerati di dubbia origine, oggi sono banche afflitte da garibaldine presenze. «Hey big boy, ti devo una bottiglia di champagne…!». La battuta che un trader di Barclays ha gettato fra le gambe del suo collega chiamato a fissare gli indici Libor (il tasso che regola i prestiti fra le banche, ma detta anche quello sui mutui di milioni di contribuenti) potrebbe essere un simpatico siparietto se non avesse contribuito a manipolare una fetta dei 350mila miliardi di dollari di prodotti finanziari regolati da London interbank offered rate. Parole pronunciate con il duplice obiettivo di salvare la reputazione della banca e il book del trader che evitava il rischio di restare scoperto. E magari su quel margine maturato fittiziamente consolidava anche una fetta del suo bonus personale. Ci penserà l’inchiesta parlamentare e forse anche quella penale a svelare i dettagli.
Le chiacchiere sul Libor massaggiato ad arte s’accavallano dal 2007, ma abbiamo dovuto attendere il 2012 per vedere esplodere uno scandalo che ha travolto il presidente della banca Marcus Agius e minaccia anche Bob Diamond. Da allora, quando la Commodity futures trading commission annusò odore di bruciato, ad oggi, non solo sono passati cinque anni, ma anche uno tsunami sul mondo finanziario che si sperava avesse indotto a mutare i comportamenti. La storia di Barclays ci dice una volta di più che non è così. Anzi la storia del Libor visto che le banche potenzialmente coinvolte sono una ventina, da Londra a New York fino a Zurigo e Tokio.
Ma basta guardare i titoli dei giornali per leggere in rapida successione storie che si ripetono. Da quelle di Fred il dissipatore, ovvero sir Alfred Goodwin, il ceo che portò Royal Bank of Scotland al Tesoro di Sua Maestà oggi legittimo possessore di quel che resta di una banca, a quelle di oggi. Chasing Alpha, la caccia al massimo profitto magistralmente narrata da Philip Augar, banker pentito, resta sempre l’obiettivo ultimo, anche a costo di inaccettabili manipolazioni dei mercati. Prima di Lehman e dopo Lehman. Nei comportamenti delle grandi banche che spesso sono dettati da piccoli banchieri. O almeno così si vuol far credere. Chi è nella storia del credito the London Whale, al secolo Bruno Iksil, trader francese soprannominato la Balena di Londra per l’enorme esposizione sui derivati? Nessuno, eppure s’è giocato circa 9 miliardi di dollari di JP Morgan, se le indiscrezioni saranno confermate dai fatti. E chi è Kweku Adoboli trentunenne, ambiziosetto oltre il lecito, trader di Ubs? Conta molto meno di Iksil, ma s’è giocato 2 miliardi, ancora una volta su contratti derivati, facendo saltare il banco di un istituto che oggi ha cambiato tutta la squadra di vertice. E prima di loro? Non possiamo dimenticare SocGen e le magie di Jerome Kerviel che hanno volatilizzato 5 miliardi circa di euro. Fattucchiere del terzo millennio, con soldi (spesso) nostri. Abili talvolta anche nell’incantare gli inquirenti. Kweku Adoboli e Jerome Kerviel hanno conosciuto la galera, ma nel caso Libor fino ad ora è stato detto che «non è possibile individuare responsabili diretti». Li cercano e forse li troveranno, a guidare la caccia è lo stesso Bob Diamond che così si sfila dal ruolo di responsabile ultimo. Inchieste interne a Barclays, Lloyds, Rbs dovranno svelare se ci siano responsabilità in altri due scandali, considerati minori: polizze assicurative piazzate a clienti privati e a Pmi. In entrambi i casi prodotti di fatto inesigibili, affibbiati per incompetenza o, più probabilmente, per eccessi di avidità.
Le storie di malafinanza, figlie di regole lasse nell’approccio dei regolatori, sono molto british. Non solo british. London Whale non avrebbe potuto fare quello che ha fatto se il desk americano non avesse chiuso un occhio. Insider trading, si narra nella City, era il bonus che i banchieri si davano quando il bonus – e la legge – non esisteva, ma Raj Rajaratnam fondatore dell’hedge fund Galleon ha pensato bene di continuare a darselo. Fino a quando, dopo aver accumulato 53,8 milioni di dollari illecitamente sfruttando informazioni riservate per investire in Borsa, Rajaratnam è stato condannato a 11 anni di reclusione. L’accusa, messa nero su bianco l’ottobre scorso, è appunto di insider trading.
Ma di scandali sempre uguali, che ogni volta producono nuove regole e nuovi modi per aggirarle, se ne trovano a centinaia negli anni. La madre di tutte le inchieste fu, tra la fine degli anni ’90 e i primi del nuovo millennio, quella condotta a New York dalla Procura e dalla Sec di Arthur Levitt. Erano i tempi del boom della Borsa, quando qualunque società si quotasse a Wall Street veniva accolta con rialzi eclatanti. L’inchiesta scoprì che molte banche d’affari assegnavano le azioni “d’oro”, prima del loro sbarco in Borsa, ai clienti che pagavano extra-commissioni. Insomma: chi pagava una sorta di “pizzo”, sapeva di avere una priorità quando le banche d’affari decidevano a chi assegnare le azioni pronte a sbarcare a Wall Street. L’inchiesta coinvolse tutte le maggiori banche, molte delle quali chiusero le vertenze con transazioni milionarie.
Ma l’inchiesta scoprì anche altro: che molte grandi società, tra cui la Worldcom di Bernie Ebbers, “barattavano” con le stesse banche d’affari generosi contratti in cambio di rating compiacenti sui loro titoli. Se una banca consigliava ai clienti di comprare le azioni di una società, questa era insomma disposta poi ad assicurare alla stessa banca d’affari contratti d’oro di consulenza. Un “baratto” che in fondo ricorda, pur con altre dinamiche, quello più recente che ha assicurato a molte banche d’affari dei rating compiacenti quando emettevano le obbligazioni sui mutui Usa. Cambiano i tempi, cambiano le bolle speculative, ma non le manipolazioni. E neppure i soggetti. «Il volto inaccettabile del banking» resta sempre lì: in Borsa.

 

Mercati manipolati: i casi del passato

LA BOLLA (E LA TRUFFA) DEL 2000

Lo scandalo delle Ipo gonfiate
Alla fine degli anni ’90 la Sec (nella foto l’allora presidente Arthur Levitt) scopre i meccanismi poco ortodossi con cui molte banche d’affari assegnano le azioni in fase di collocamento in Borsa. Quelli sono gli anni del boom della Borsa, in cui gli investitori si strappano di mano le azioni che, molto spesso, volano già nel primo giorno di quotazione. Le autorità scoprono che le banche d’affari spesso assegnano più azioni in fase di Ipo (Initial public offering) agli investitori che pagano delle sovra-commissioni. Insomma: molte banche d’affari avrebbero privilegiato alcuni clienti in cambio di commissioni gonfiate. Molte banche hanno poi chiuso transazioni milionarie per chiudere il caso.

100 milioni

DERIVATI AMARI

La «Balena» di JP Morgan
È un trader di JP Morgan con ufficio a Londra e si chiama Bruno Iksil. È lui la «balena di Londra», cioè l’operatore che ha preso posizioni così consistenti sui credit-default swap da causare perdite stimate a 9 miliardi di dollari a JP Morgan. Le ultime rivelazioni fanno sospettare che a Iksil fosse stata data carta bianca dalla banca: la sua divisione, incaricata di operazioni di protezione dai rischi, si era trasformata in un centro di profitto. Cioè di aggressive operazioni di trading capaci di rapidi profitti come di improvvise perdite. La divisione aveva generato in tre anni più del 10% dei profitti della banca, oltre 5 miliardi su 48. Ora, però, le perdite potrebbero arrivare a 9 miliardi.

9 miliardi

RISCHI COPERTI, MA PER FINTA

Il trader ghanese
Ha aperto nei conti della banca svizzera Ubs una falla da 2,3 miliardi di dollari. Il trentunenne trader ghanese Kweku Adoboli (nella foto), giovane responsabile del desk Delta One, l’anno scorso è stato al centro di uno scandalo finanziario. Il trader operava sugli Etf, facendo finta di “coprire” il rischio delle proprie posizioni con operazioni di hedging che in realtà non venivano realizzate. In questo modo, quando nel management dell’istituto si era già piantato un forte dubbio, il trader aveva accumulato posizioni enormi. Sollecitato dai supervisor a dare spiegazioni, Adoboli è poi crollato aprendo la via all’inchiesta e all’arresto.

2,3 miliardi

INFORMAZIONI RISERVATE, GUADAGNI SICURI

L’insider trading di Galleon
«I suoi reati e la loro portata sono lo specchio di un virus nella nostra cultura di business che deve essere sradicato». Il giudice federale Richard Holwell ha commentato così, lo scorso ottobre, la sentenza che ha inflitto 11 anni di carcere all’ex supermanager dell’hedge fund Galleon, Raj Rajaratnam.
Rajaratnam – fondatore nel 1997 di un fondo cresciuto fino a 7 miliardi di dollari che aveva sempre dato soddisfazioni ai suoi investitori – era stato riconosciuto colpevole a maggio di insider trading: il suo fondo investiva grazie alle “soffiate” di molti top manager di società quotate a Wall Street. E sfruttava informazioni riservate.

53 milioni

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