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Crisi: la Germania non ride più. E pensa a un super-Marco


E così in Germania qualcuno comincia a contestare il rigorismo suicida della Merkel e pensa ad uscire dall’Euro per dotarsi di una moneta ancora più forte, che permetta a Berlino di comprarsi a due soldi le infrastrutture e le aziende svendute dai vari governi alla ricerca di liquidità per ripianare il debito.

 

La crisi pesa sull’economia tedesca

Alessandro Merli – Il Sole 24 ore 26 luglio 2012

Si accumulano i segnali di un forte rallentamento della crescita in Germania. «La crisi dell’eurozona sta avendo un impatto negativo crescente sull’economia tedesca”, ha spiegati ieri Hans-Werner Sinn, presidente dell’Ifo di Monaco di Baviera, alla pubblicazione del sondaggio mensile dell’istituto fra oltre 7mila imprese.
L’indice Ifo ha segnato un calo nel mese di luglio, il terzo consecutivo, da 105,2 a 103,3, molto più brusco del previsto. Il dato, il peggiore degli ultimi 28 mesi, si somma all’indice Pmi, pubblicato lunedì e che pure ha previsto un indebolimento della crescita e una possibile flessione del Pil nel terzo trimestre.
«Non ci aspettiamo una recessione», ha detto l’economista dell’Ifo, Gernot Nerb, osservando che la situazione non è come nel 2009, quando in seguito alla crisi dei mercati post-Lehman, l’economia tedesca accusò una contrazione del 5%. Il ministero dell’Economia ha insistito che, nonostante i segnali negativi degli ultimi due giorni, la previsione del Governo, avanzata a primavera, di una crescita dello 0,7% quest’anno, è confermata.
Le stime appena diffuse dal Fondo monetario parlano dell’1%, in linea con quelle della Bundesbank, la quale però nel suo ultimo bollettino mensile ha sottolineato la «grande incertezza».
Il calo nell’indice Ifo, che riguarda la valutazione degli imprenditori sulle condizioni attuali e le aspettative per il futuro, ha toccato soprattutto il settore manifatturiero, colpito dalla recessione nel resto dell’eurozona. Le aspettative sull’export sono tuttavia meno negative di quelle generali. L’indebolimento dell’euro, secondo Alexander Koch, di Unicredit, dovrebbe aiutare le imprese esportatrici tedesche sui mercati terzi. I dati di questi giorni mostrano però, secondo Stefan Schilbe, di Hsbc, che la Germania «non può sganciarsi dal resto dell’eurozona».
Degli altri settori, l’unico che evidenzia una crescita mensile è la distrbuzione, grazie alla tenuta dei consumi, favorita dal buon andamento dell’occupazione. Le costruzioni, che nei mesi scorsi avevano contribuito a sostenere l’economia, stanno accusando invece un calo degli ordini, secondo informazioni diffuse ieri dall’Ufficio federale di statistica.
Anche se il Governo ha tenuto a drammatizzarlo, ha colpito inoltre il cambiamento delle prospettive, da stabili a negative, annunciato dall’agenzia di rating Moody’s che, in serata, ha operato la stessa modifica per 17 banche tedesche. Il mantenimento della tripla A è considerato, anche psicologicamente, importante in Germania, anche nel contesto dei negoziati europei.
I rendimenti dei titoli di Stato tedeschi, che sono vicini ai minimi storici, nonostante il rialzo degli ultimi giorni, sono però considerati da molti operatori di mercato in piena zona “bolla” e potrebbero subire un ulteriore contraccolpo, secondo Jonathan Loynes, di Capital Economics, se l’economia dovesse dare ulteriori segnali di rallentamento.
Se infatti i bond si avvantaggiano normalmente della frenata della crescita, in questo caso i rendimenti ai minimi sono dettati soprattutto dalla distanza finora emersa fra la Germania e il resto dell’eurozona.
Un’ulteriore indicazione che la crisi ha raggiunto ormai il “cuore” dell’area euro viene dai dati, diffusi anch’essi ieri, sulle prospettive dell’economila olandese, giudicate anch’esse in peggioramento dalle imprese nazionali.

 

 

Ma la Germania fa i conti sui costi e i vantaggi dell’uscita

Tonia Mastrobuoni – La Stampa 26 luglio 2012

Tra qualche anno l’Europa potrebbe essere un posto molto diverso dalla bella alleanza di paesi democratici che conosciamo e amiamo». L’ultimo post del Nobel per l’economia, Paul Krugman, si conclude così. Con una frase da brivido che dà conto di un dibattito talmente avvilente da autorizzare anche gli americani a esercitarsi su cupi scenari di fine dell’euro – e dell’Europa.

Ieri, ad esempio, l’autorevole Ifo, l’istituto che rende noto ogni mese il clima di fiducia degli imprenditori tedeschi, ha fatto un calcolo cinico. Ma se si pensa che è diretto da Hans-Werner Sinn, l’economista che passa le sue giornate a vergare lettere contro l’Europa (l’ultima, nell’ordine, contro il vertice Ue di giugno, additato come prodromo di una «socializzazione delle perdite delle banche»), tutto torna. L’Ifo calcola che il default della Grecia costerebbe alla Germania 82 miliardi, se avvenisse fuori dall’euro. Ma se il crac si verificasse sotto l’ombrello dell’unione monetaria, ben 89 miliardi. Il messaggio è chiaro: prima si butta fuori Atene, meglio è.

Ma a nord delle Alpi ormai nulla è un tabù. Neanche le disquisizioni sullo scenario opposto. Che sia la Berlino, cioè ad abbandonare i partner europei e a lanciarsi nell’avventura di un nuovo marco. E, magari qualcuno già vagheggia l’assalto a mezza Europa. Con il rivalutatissimo neo-marco, Berlino potrebbe arraffarsi i i gioielli di Piazza Affari e delle altre Borse europee, ma anche le miriadi di aziende non quotate che sono già adesso in affanno ma che in un eurozona “residuale” varrebbero ancora meno.

Per fortuna un rapporto Ubs ha fatto un’interessante analisi sugli elevatissimi costi, per i tedeschi, di una «secessione» dall’euro. E di recente molti importanti economisti se ne occupano con lo stesso obiettivo: fornire un monito a chi ne parla con leggerezza.

Per un paese forte come la Germania, scrive Ubs, con l’uscita dalla moneta unica si verificherebbe un apprezzamento del neo-marco del 40%. Le aziende tedesche che commerciano con il resto dell’eurozona e che fossero indebitate con le banche tedesche, rischierebbero fallimenti a catena; gli stessi istituti di credito subirebbero perdite gigantesche. Tutti gli asset ancora in euro si svaluterebbero, costringendole a ricapitalizzare, probabilmente anche a carico dello Stato. E la forza del neo-marco farebbe crollare l’export del 20% (quasi il 40% delle esportazioni tedesche sono verso il resto dell’eurozona). Provocando anche reazioni scontate come dazi alla frontiera e protezionismi, negli altri paesi. Morale: il primo shock dell’uscita dalla moneta unica costerebbe 6-8.000 euro all’anno a ogni tedesco. In seguito, 3.500-4.500 euro.

Certo, i calcoli più probabili dei “secessionisti” tedeschi sono altri, probabilmente. Meglio uno shock ora che l’infinita agonia dei salvataggi europei. E l’economista Charles Wyplosz ci ha ricordato di recente che gli eventuali aiuti a Spagna e a Italia potrebbero richiedere uno sforzo da 1.300 miliardi. Che si sommano a quelli già sottoscritti a Irlanda, Grecia e Portogallo. Ma per fortuna i”cinque saggi” della Merkel ci hanno ricordato pochi giorni fa che la rottura incontrollata dell’euro farebbe tremare la Germania anche per altri motivi. La sua esposizione verso i 16 partner europei è di 3.330 miliardi di euro – il Pil tedesco ammonta a 2.400 miliardi circa, per dire. E ben 1.500 di questi crediti sono detenuti da imprese e famiglie. Che evaporerebbero, nel caso della fine dell’euro. E con essi, l’economia tedesca con il suo super-neo-marco.

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