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Marchionne in difficoltà anche in Serbia

Cambia il governo, ora per Marchionne la Serbia è una grana

Isotta Galloni
Guai in vista per lo stabilimento Fiat in Serbia. Belgrado partecipa all’investimento complessivo di circa un miliardo di euro, con 200 milioni tra contributi cash e incentivi fiscali. La tranche di pagamento di 60 milioni pattuita per il 2011 «non è stata messa a budget», ha ammesso il governo. Per «mancanza di soldi» non sono stati realizzati nemmeno i due nuovi tratti stradali che avrebbero dovuto servire il nuovo impianto produttivo. Il paese non ha più fondi, il nuovo esecutivo nazionalista non sembra avere intenzione di rispettare gli impegni e ha cacciato il governatore della banca centrale mentre gli investimenti stranieri crollano.

BELGRADO – «Il fatto che abbiamo deciso di operare qui è il chiaro riconoscimento dell’affidabilità della Serbia». Era il 16 aprile 2012 quando l’Ad Fiat-Chrisler, Sergio Marchionne, pronunciò queste parole, dopo aver apposto con pennarellone indelebile la sua sigla su uno dei primi modelli di ‘500L’, sfornato dal nuovo stabilimento del Lingotto nel Paese balcanico. Dal giorno dell’inaugurazione ufficiale della fabbrica Fiat di Kragujevac (centro, circa 150 km a sud di Belgrado) sono passati appena quattro mesi. E in molti, quanto ad affidabilità della Serbia per gli investitori stranieri, non sembrano tanto più disposti a metterci la firma.

Ultima in ordine cronologico a schierarsi con gli scettici è stata l’agenzia di valutazione finanziaria Standard&Poor’s che il sette agosto ha declassato di una posizione il voto al debito sovrano di Belgrado portandolo a BB-, con outlook che passa da ‘stabile’ a ‘negativo’. Un giudizio impietoso, articolato in due pagine di comunicato, arrivato ad una manciata di giorni dall’insediamento del nuovo governo nazionalista-moderato a Belgrado (si è votato il sei maggio: i filo-europeisti hanno perso sia la presidenza, sia il parlamento), guidato dal premier socialista, Ivica Dacic, in tandem con il Partito progressista (Sns) del neo capo di Stato, Tomislav Nikolic.

E se i due hanno immediatamente garantito la continuità delle politiche già in atto di euro integrazione e dialogo con il Kosovo, anche Ue e Fondo monetario internazionale (Fmi) si sono già detti «molto preoccupati» per come la nuova leadership serba sta traducendo in politica economica quel ‘cambiamento radicale’ promesso in campagna elettorale.

Per i primi partner economici finanziari di Belgrado, non è stato rassicurante, ad esempio, registrare come primo atto formale del nuovo parlamento l’intervento legislativo che ha stravolto le regole di nomina dei vertici della Banca nazionale serba (Nbs). Così da poter mettere all’angolo il governatore Dejan Soskic – il suo mandato naturale sarebbe scaduto nel 2016 – e sostituirlo con la deputata progressista, Jorgovanka Tabakovic. Un’economista di riconosciuta esperienza, ma espressione di un’operazione che «indebolisce l’indipendenza istituzionale di Nbs e che può condurre alla politicizzazione della politica monetaria», indica S&P tra le prime ragioni del declassamento.

Così, Reza Moghadam, direttore per l’Europa di Fmi, aveva chiesto un ripensamento sugli emendamenti legislativi che «potrebbero significativamente intaccare la stabilità macroeconomica della Serbia, danneggiarne la credibilità politica e imporre interrogativi sulla correttezza delle politiche macroeconomiche». Il colpo di spugna sull’indipendenza della Banca nazionale non è piaciuto nemmeno a Bruxelles. E sfuma per Belgrado – fresca di candidatura ufficiale alla piena membership – l’obiettivo di fissare entro fine anno una data per l’avvio dei negoziati di adesione.

Il problema è che le casse pubbliche serbe piangono. Il ministro di Economia e Finanze, Maldjan Dinkic, ha detto di aver ereditato una situazione finanziaria “catastrofica”, arrivando a mettere in dubbio la capacità di pagare salari e pensioni del mese di settembre. Ma il premier Ivica Dacic non sembra intenzionato a dare seguito agli obiettivi di rigore di spesa pubblica, contenimento del deficit (stimato al 6,6% del Pil, contro il 4,5% stabilito) e del debito pubblico (dal 42% del Pil nel 2011, si attende toccherà quota 55% entro fine anno) che il Fmi pretende, in cambio del vitale sostegno finanziario a Belgrado. A causa del mancato rispetto degli impegni di rigore – venuti meno in campagna elettorale – Washington ha congelato, lo scorso febbraio, l’accordo con Belgrado per un credito in stand-by (Sba) da oltre un miliardo di euro.

Intesa che, tra i principali obiettivi dichiarati, aveva quello di “rassicurare” gli investitori internazionali, sulla stabilità dei fondamentali macroeconomici serbi. E che il ministro Dinkic ha dichiarato «morta», da rinegoziare ex novo. S&P snocciola dati allarmanti in chiave di una ripresa delle trattative tra Belgrado e Fmi: «salari e pensioni sono aumentati del 15% sull’anno, i sussidi del 90% e gli interessi sui pagamenti del 36%», scrive l’agenzia di rating. «Siamo preoccupati – aggiunge – che senza l’Sba come ancora delle politiche, il governo fallirà nella rapida adozione delle riforme».

Ma il premier socialista Dacic, ha dichiarato guerra aperta all’austerità: il governatore della Banca centrale «perderà il lavoro se non allenterà la cinta del rigore», dichiarò non appena preso funzione. Detto, fatto. Così «salari e pensioni non si toccano», è un altro assioma del neo-premier, che si dichiara un paladino dell’equità, in un paese stremato dalla crisi, dove il tasso di disoccupazione è tra più alti d’Europa, intorno al 25%.

Fino ad ora, problematiche come quella occupazionale e del rilancio della produzione industriale, erano state affrontate con la famosa politica del “tappeto rosso per gli investitori stranieri”, basata sui generosi incentivi fiscali e all’occupazione da parte del governo. La stessa che molte imprese italiane hanno imparato a conoscere nell’ultimo biennio, cavalcando la scia dello sbarco di Fiat – ed di altri nomi di ‘peso’ dell’industria italiana: da Benetton a Seci-Maccaferri – in Serbia.

Ma venendo meno ‘l’ancora Fmi’, come sostenere il peso finanziario del ‘tappeto rosso’? Se lo chiede la stessa Fiat da dove, seppur mai a livello ufficiale, inizia a trapelare “irritazione” nei confronti dell’esecutivo serbo, con il quale possiede in joint venture (rispettivamente 67% e 33%) lo stabilimento di Kragujevac. In base ai patti, Belgrado partecipa all’investimento complessivo di circa un miliardo di euro, con 200 milioni tra contributi cash e incentivi fiscali, all’occupazione e infrastrutturali. La tranche di pagamento di 60 milioni pattuita per il 2011 «non è stata messa a budget», ha ammesso il ministro Dinkic. Per «mancanza di soldi» non sono stati realizzati nemmeno i due nuovi tratti stradali che avrebbero dovuto servire il nuovo impianto produttivo: ora che la produzione e l’esportazione della ‘500L’ entrano nel vivo, Kragujevac, un piccola cittadina di provincia, rischia il tilt. «Fiat ha tutte le ragioni di essere irritata con il nostro Paese», ha dichiarato il sindaco.

Dopo il 2011, anno record degli Investimenti stranieri diretti (Ide), nei primi cinque mesi del 2012 «la Serbia ha registrato un calo di 200 mln di dollari di Ide, che ci aspettiamo arriveranno a valere appena l’1% del Pil a fine anno», scrive, ancora, S&P.

E, in nome dell’equità, il ministro Dinkic – un liberista che fu la mente dell’alleanza con Fiat nel 2008, ma oggi, secondo i ben informati, ‘ha le mani legate’ nella nuova coalizione con i nazionalisti – ha annunciato come, già in ottobre, l’Iva potrebbe aumentare dal 18 al 20%, mentre l’imposta sul reddito d’impresa dal 10 al 15%. Le aziende tremano, nell’ex ‘Paese affidabile’.

da L’Inkiesta

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