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Tasse pubbliche, incassi privati

Il «privato» non regge la prova delle tentazioni «pubbliche»Arresti e salvataggi. La scalata inarrestabile, dalla Sicilia a Bergamo, di un agente pubblicitario tarantino

Vatti a fidare dei privati… Se dovessimo rendere la vicenda di Tributi Italia come paradigma non potremmo avere dubbi: meglio sempre affidare certi compiti delicati – come la riscossione delle tasse, ancorché soltanto locali – a «pubblici ufficiali». Possono essere buoni o cattivi, geniali o stupidi, disumani o lassisti, ma almeno non si possono «inguattare» le tasse in un conto privato. Quelle private sì. Sta poi a loro se riversare o meno gli importi – alleggeriti della percentuale loro spettante – in conti pubblici. Se uno decide di «scappare con la cassa», ed ha le competenze per riuscirci, ci può anche provare. Giuseppe Saggese è riuscito a menare il can per l’aia per molti anni.
L’imbarazzo con cui certi media confindustriali affrontano questa notizia è peraltro indicativo. In teoria, prima di abilitare una società ci sono una serie di verifiche da passare. L’iscrizione a un albo ministeriale, per esempio, è subordinata a «adeguati requisiti finanziari e tecnico-operativi». Ogni società dovrebbe aver aperto uno o più conti «di garanzia» in cui versare le cifre riscosse dai cittadini. Gli enti locali possono contestare da subito i mancati pagamenti, applicando le penalità, fino alla risoluzione del contratto (che in quel caso passa per almeno tre anni ad Equitalia).
Però di Tributi Italia si parla – giudiziariamente – da anni. Lo stesso Saggese arrestato ieri era già finito in carcere per peculato nel 2009. E appena uscito rilasciava interviste grondanti le stesse parole che ascoltiamo tutti in giorni come verità inconfutabili: «Oggi le società private investono uomini e mezzi nella lotta all’evasione», «il privato a interesse a perseguire questi obiettivi, perché su essi si fonda la sua fonte di guadagno». E, quando qualcuno insisteva nel considerare «strano» che una società di riscossione con relativamente pochi dipendenti (un migliaio, al massimo delle potenza: tutti poi messi in cassa integrazione e poi licenziati) non riuscisse a versare il raccolto e anzi fosse piena di debiti, sparava il classico: «Gli investimenti gravano sul socio privato, che deve anche fronteggiare la concorrenza di un gigante pubblico come Equitalia».
Una fonte quantificata nel 30% delle cifre riscosse. Un’enormità di «aggio» per quella che, oltretutto, era la più grande tra le società in questo business a ridosso della pubblica amministrazione; con grandi clienti come i comuni di Pescara, Bari, Bergamo, Brindisi, Bologna, Palermo e centinaia di altri minori.
Nel 2010 arriva il provvidenziale salvataggio da parte del governo Berlusconi. Fu inserito un articolo ad aziendam nel «decreto incentivi», che consentiva a Saggese di accedere alle procedure previste dalla legge Marzano (limitata alle imprese industriali), garantendo «la persistenza delle convenzioni vigenti immediatamente prima della data di cancellazione dall’albo» delle società autorizzate alla riscossione. In pratica: con un’oculata «ristrutturazione finanziaria» la società poteva continuare ad operare. Solo pochi ricordavano la prima denuncia per frode, subita nel 1999, quando la ditta era stata difesa da Nicolò Ghedini.
Ma come è possibile che centinaia di Comuni ti facciano causa per non aver loro versato un euro di quanto riscosso per loro conto, senza che ti venga mai revocata la «licenza da gabelliere»? È il mistero glorioso dell’imprenditoria all’italiana, del «privato» che vive alle spalle del «pubblico». Lo schema è vecchio quanto il mondo, è lo stesso che faceva dei «cugini Salvo», in Sicilia, i riscossori delle tasse per conto dello Stato e con l’ombrello della mafia.
Sarà un caso, ma questa società parte da Taranto come piccola concessionaria di pubblicità – la Publiconsult – per acquisire man mano una quota rilevante del business tributario. Specie dopo aver rilevato società storiche come la Gestor Bari e l’Ausonia Palermo, che gli portava in dote decine di Comuni siciliani, tra cui diversi sotto screening per infiltrazioni mafiose.
Dall’Agenzia delle Entrate, alcuni sindacalisti Usb considerano l’inchiesta anche un messaggio «governativo» a chi (la Lega, Alemanno con EquaRoma, ecc) puntano a creare riscossori «in house». Soprattutto, però, fanno notare che è proprio il concetto di «privato» a fare a cazzotti con la funzione «pubblica» della riscossione. «Anche Equitalia agisce con una logica privatistica, anche se la proprietà è pubblica: 51% dell’Agenzia e 49% Inps». Qui la privatizzazione opera con «assunzioni dirette» (senza concorso né «giuramento»), «paghe stratosferiche dei manager» e «moltiplicazione delle poltrone». Dov’è il problema? Sta nel fatto che «il privato insegue la liquidità là dove è facile trovarla, anche se sa che il piccolo contribuente rischia il tracollo; e non punta invece su quei contribuenti ‘forti’ ma abili nel nasconderla». Sarà per questo, anche, che l’82% delle tasse pagate sono a carico del lavoro dipendente.

da “il manifesto”

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