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La reindustrializzazione dell’America

Diciamo che ci sono più ragioni. Quelle economiche sono abbastanza chiare e semplici. Il costo del lavoro negli States è crollato da quando – oltre venti anni fa – è iniziata la delocalizzazione, soprattutto nei paesi asiatici. Basti ricordare che due anni fa Msrchionne ha ottenuto in Chrysler un “accordo sindacale”, per riaprire gli impianti regatigli da Obama, in cui i salari erano fissati al 50% rispetto a quelli esistenti prima. E senza molti benefit sanitari o pensionistici caratteristici del “welfare aziendale” statunitense.
Al contrario, il costo del lavoro asiatico – per esempio cinese – è andato rapidamente aumentando, crescendo anche del 15% annuo. Ora siamo al punto che i livelli salariali sulle due sponde del Pacifico non sono più così distanti da costituire una ragione decisiva per portare la produzione industriale all’estero.
Un altro fattore economico chiave sono infatti i costi di trasporto, cresciuti insieme al prezzo del petrolio, e a quello dei noli delle navi (c’è stato un crollo durante la crisi del 2008-2009, ma poi hanno ripreso a salire). Sommando i due livelli di costo, si finisce per vedere che produrre altrove non è più così conveniente.
La terza ragione è più “politica”. I cinesi, ad esempio, hanno sempre preteso di firmare accordi di joint venture in cui la tecnologia diventava patrimonio condiviso. Insomma: vi concediamo forza lavoro a basso costo e zero sindacalizzazione, la le tecnologie che portate qui vogliamo conoscerle, usarle, copiarle, ecc.
La quarta è che anche il conflitto operaio, in Asia, è cresciuto con lo sfruttamento intensivo. Sciopero e rivolte non sono più così rari, anche se solo la Foxconn è tristemente conosciuta anche in occidente.
Infine, c’è il problema della desertificazione industriale staunitense, che crea problemi di modello sociale, di tenuta della coesione e dell'”orgoglio” yankee. E che si riflette in alcune misure di politica economica dell’amministrazione Obama, volte a incentivare la produzione interna a svantaggio di quella “delocalizzata”.

Apple torna a fabbricare i Mac negli Stati Uniti. Investimenti per oltre 100 milioni di dollari


NEW YORK – Apple reclama una poltrona di prima fila nella campagna per la reindustrializzazione degli Stati Uniti. Dall’anno prossimo il colosso tecnologico ricomincerà a produrre computer letteralmente “made in Usa” per la prima volta dagli anni Novanta, quando aveva trasferito del tutto la produzione in Asia, a caccia di bassi costi.

Ad annunciarlo è stato il suo chief executive Tim Cook, in interviste gemelle alla rivista Business Week di Bloomberg e al canale televisivo Nbc: nel 2013 una delle esistenti linee di Mac, non sis a ancoa quale, uscirà esclusivamente da impianti a stelle e strisce. Cook ha descritto la decisione come il coronamento di sforzi che da anni la Apple compie «per produrre sempre di più in America». Nel paese, ha calcolato, Apple «ha contribuito ad oggi alla creazione di 600 mila posti di lavoro», dalla ricerca al retailing fino alle società che sviluppano programmi.

L’annuncio di Cook, raro per un’azienda considerata tra le più gelose della sua segretezza, ha fatto notizia, tanto da relegare in secondo piano anche i travagli in Borsa del titolo. Apple è reduce dal peggior calo in una sola seduta in quasi quattro anni, il 6% perso mercoledì.

Con la decisione, infatti, Apple diventa il capofila di un crescente esercito di aziende americane impegnate a orchestrare ritorni almeno parziali in patria. Il recupero manifatturiero è stata una delle storie più incoraggianti della fragile espansione statunitense dopo la crisi del 2008. E il novero delle firme della Corporate America interessate va dalla General Electric, che sforna nuovamente caldaie alle case automobilistiche, che aumentano le linee di montaggio; da produttori di televisori alla Wham-o nei frisbee, che dalla Cina ha trasferito le operazioni in California e Michigan.

Persino attività nei servizi quali i call center hanno ripreso ad aprire i battenti in territorio americano, a comnciare dal Texas. Il fondatore dell’associazione Reshore Now, Harry Moser, ha stimato che oggi il tasso di offshoring abbia frenato a una crescita tra il 2% e il 5% l’anno, mentre quello di reshoring, cioè di rientro, stia accelerando del 20 per cento.
Il rimpatrio trova radici in tendenze oggettive che vanno al di là dell’impegno delle singole aziende.

Il Boston Consulting Group ha dato alle stampe in aprile un rapporto dal titolo significativo “Made in America, again”, che ha rilevato come il 37% delle grandi imprese manifatturiere stia pianificando forme di rimpatrio, sottolineando fenomeni quali gli aumenti dei salari in Cina, i miglioramenti della produttività negli Stati Uniti, l’indebolimento del dollaro e gli incentivi pubblici.

I cali nei costi locali, ad esempio nell’energia americana, mentre rincarano i trasporti globali e lievitano le tensioni geopolitiche che minacciano le catene di fornitori, giocano a loro volta un ruolo. Lo stesso Bcg in settembre ha citato nuovi vantaggi nell’energia e nel costo del lavoro quale motivazione per potenziali spostamenti di attività anche da Europa e Giappone verso le coste americane.

E la necessità di meglio e più da vicino servire i consumatori è particolarmente sentita nel settore hi-tech. Un sondaggio appena realizzato dl Council of Supply Chain Management Professional ha trovato che il 40% delle imprese crede che questo trend al crescente traserimento di produzione verso gli Stati Uniti continuerà.

Non manca tuttavia chi invita alla cautela, se non allo scetticismo, sulla vera portata di qualunque reidustrializzazione americana: i posti di lavoro manifatturiero svaniti negli ultimi anni sono stati almeno otto milioni e appare difficile ipotizzare recuperi di simili dimensioni.

Apple, alla fine, investirà cento milioni nelle nuove attività, cifre da esperimento davanti ai miliardi di dollari che investe nella produzione globale. Lo stesso Cook, inoltre, ha lanciato un avvertimento per il futuro: il sistema dell’istruzione americano non prepara abbastanza i giovani alle specializzazioni necessarie per i moderni processi manifatturieri.

da IlSole24Ore

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