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Salari pochi e fermi, precipita la “fiducia delle famiglie”

Partiamo dalle retribuzioni contrattuali, secondo il rapporto Istat diffuso poco fa.
Alla fine di novembre 2012 i contratti collettivi nazionali di lavoro in vigore per la parte economica corrispondono al 71,5% degli occupati dipendenti e al 68,0% del monte retributivo osservato. Nel mese di novembre l’indice delle retribuzioni contrattuali orarie registra un incremento dello 0,1% rispetto al mese precedente e dell’1,6% rispetto a novembre 2011. Nella media del periodo gennaio-novembre 2012 l’indice è cresciuto, nel confronto con lo stesso periodo dell’anno precedente, dell’1,4%. Se teniamo presente che il tasso di infazione annuo è rimasto costantemente sopra il 3%, abbiamo che i salari hanno perso nell’anno almeno l’1,5%. Ma stiamo parlando soltanto dei salari “ufficiali”, quelli difesi ancora da un contratto nazionale. Nelle aziende, specie in quelle piccole e medie, vigono però consuetudini molto diverse. Peggiorative, naturalmente.

A novembre le retribuzioni orarie contrattuali registrano un incremento tendenziale del 2,2% per i dipendenti del settore privato e una variazione nulla per quelli della pubblica amministrazione. Per il quartyo anno consecutivi, dunque, i lavoratori pubblici hanno visto illoro stipendio restare assolutamente fermo. Non così è andata per l’inflazione, che nel perioso ha fatto segnare una salita dei prezzi superiore al 10%. Tutto “potere d’acquisto” andato perso, e consumi che scendono in proporzione.

Alla fine di novembre la quota dei dipendenti in attesa di rinnovo è del 28,5% nel totale dell’economia e del 6,9% nel settore privato. L’attesa del rinnovo per i lavoratori con il contratto scaduto è, in media, di 35,6 mesi per l’insieme degli occupati e di 38,0 mesi per quelli del settore privato. 36 mesi sono tre anni. Possiamo dunque tranquillamente dire che di contratti non se ne rinnovano più.

xlsSerie_storiche_NOVEMBRE_2012.xls

Dopo 4 o 5 anni di arretramento continuo nelle capacità di consumo, la conseguenza è scontata: la “fiducia” scompare.

A dicembre -scrive l’Istat –  l’indice del clima di fiducia dei consumatori (base 2005=100) passa da 84,9 a 85,7 (oltre 15 punti in meno di sette anni fa, dunque).
Mentre la componente riferita al clima economico generale aumenta in misura significativa (l’indice passa da 69,7 a 72,9, risentendo soprattutto delle informazioni provenienti dai media e dal governo), quella relativa al clima personale diminuisce lievemente (da 90,9 a 90,7). Facendosi i conti in tasca, dunque, si vede meglio lo scarto tra quello che ci viene detto (e a cui tanti credono, per mancanza di fonti alternative credibili e diffuse in tutta la popolazione) e quello che è “empiricamente vero”.

Diminuisce l’indicatore del clima corrente (da 92,3 a 91,4) mentre quello riferito alla situazione futura è in aumento (da 75,3 a 78,0). Anche qui, a un presente plumbeo fa da contraltare un futuro roseo. L’unica “luce in fondo al tunnel” è quella delle chiacchiere.
Le attese sulla disoccupazione sono in diminuzione (da 113 a 104 il saldo). Della serie: nessuno si aspetta che aumentino i posti di lavoro, a medio termine.
I giudizi sulle opportunità attuali di risparmio sono in diminuzione, mentre le possibilità future registrano un miglioramento (da 143 a 136 e da -94 a -92 i rispettivi saldi).

Il saldo dei giudizi sull’evoluzione recente dei prezzi al consumo è in miglioramento (da 69 a 54), perché ognuno vede che i commercianti sono ora obbligati a tenere i prezzi bassi o a praticare molte “offerte”, se vogliono mantenere le vendite.. Le valutazioni sull’evoluzione nei prossimi dodici mesi indicano un netto miglioramento della dinamica inflazionistica (da 28 a 13 il saldo).

pdfFiducia_dei_consumatori_-_21_dic_2012_-_Testo_integrale.pdf226.06 KB

xlsFIDUCIA_CONS_Tab__12_2012.xls

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