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Protezionismo. La partita è iniziata dal Giappone

La ragione è semplice, in fondo. Nessun paese, o area commerciale, può assistere a lungo senza reagire all’erosione delle proprie prospettive economiche, mentre altre aree o paesi traggono vantaggio da disparità monetarie, di politiche fiscali o di livello dei costi. Per quanto si sia consapevoli che lo strumento della “protezione” nazionalistica sia un’arma a doppio taglio, potenzialmente devastante, una crisi troppo lunga porta con sé l’eventualità certa che prima o poi uno dei soggetti principali dello scacchiere economico globale apra le ostilità cercando di trovare un “vantaggio competitivo” a scapito dei concorrenti.
Dopo il 1929 furono gli Stati Uniti, ricorda anche il Corriere della Sera di oggi. In questa crisi la prima mossa ufficiale è del Giappone, che da oltre 25 anni è immerso in una situazione di stagnazione nonostante “iniezioni di liquidità” continue da parte della Banca centrale. Con il risultato di avere un rapporto debito/Pil pari al 236% e un deficit/Pil del 10%. Roba che in Europa ti fucilerebbero sul posto…
Eppure, la BoJ ha appena deciso altre iniezioni di liquidità ed ha elevato il target dell’inflazione dall’1 al 2%. Tradotto: sta implementando politiche inflazionistiche per deprezzare lo yen e rendere più “competitive” le merci giapponesi (auto ed elettronica di consumo, in primo luogo).
Del resto, i “competitor” internazionali non hano affatto la coscienza più pulita. Gli Stati Uniti “stampano dollari” a volontà dal 1971, ed hanno acelerato il processo a partire dal 2007 (esplosione della bolla dei mutui subprime, da cui è derivato il crack Lehmann Brothers e la “grande siìncope£ del 2008-2009). La Cina, tenendo lo yuan sempre agganciato al dollaro, beneficia anche della bassa quotazione di quest’ultimo. La Germania sconta un euro forte, è vero, ma beneficia della propria superiotà tecnologica all’interno dell’eurozona, che punisce i paesi più deboli (Piigs) obbligandoli a tassi di cambio suicidi. L’Inghilterra fa come gli Stati Uniti, pur no avendo affatto la stessa potenza.
A Davos, dunque, quello che fin qui era un “rischio” da esorcizzare ha preso la fisionomia di un imminente futuro. Verso il quale non esistono “ricette”, perché il protezionismo rompe i tavoli di concertazione globali senza costituirne di nuovi. E’ guerra. Commerciale e monetaria, per ora.


Il nazionalismo del Giappone apre la sfida delle valute

Federico Fubini – Corriere della Sera | 24 Gennaio 2013

Forse era solo questione di tempo. Semmai c’era da stupirsi che non fosse successo finora. Ai tempi dell’altra grande crisi, quella esplosa con il grande
crash del ’29, bastarono due anni perché i grandi blocchi commerciali sprofondassero nel protezionismo: lo Smoot-Hawley Act, la legge americana che fissava dazi astronomici su una lunga lista di prodotti europei fu solo l’innesco della spirale. I Paesi europei puntualmente seguirono.
Stavolta invece la comunità degli amministratori delegati, celebri economisti e leader politici si era riunita a Davos per gli incontri di gennaio del World Economic Forum almeno quattro volte dall’inizio del terremoto finanziario. Fra loro, il protezionismo suonava solo come un vago rischio evocato ogni tanto. Un argomento da conversazione. Stavolta invece ci siamo, o almeno rischiamo di esserci. Quando ieri in una saletta del World Economic Forum sono entrati il governatore della Banca d’Israele Stanley Fischer, l’ex uomo di vertice della Bank of England Adam Posen e l’economista Nouriel Roubini, tutti sapevano di cosa avrebbero parlato. Il tema ufficiale era il cosiddetto «quantitative easing», la stampa di moneta per acquisto di titoli sul mercato che la Federal Reserve americana e la Bank of England praticano massicciamente da anni. Ma in realtà, anche senza nominarlo, tutti parlavano del Giappone.
Tornato al potere, il premier Shinzo Abe ha appena innescato quello che per molti a Davos è il primo grande gesto protezionista di questa crisi. Per ora con dubbio successo, Abe sta spingendo la Banca del Giappone a stampare yen sempre più aggressivamente. Il governatore Masaaki Shirakawa ha già alzato l’obiettivo d’inflazione (dall’uno al due per cento), ma ad aprile sarà sostituito da un successore più addomesticabile dal potere politico. Negli ultimi due mesi lo yen ha già svalutato del 10% sul dollaro e del 14% sull’euro, rendendo più competitive le auto o l’elettronica «made in Japan» e meno permeabile il mercato giapponese da parte degli esportatori europei, cinesi o americani. Xinhua, l’agenzia di stampa cinese, accusa già Tokyo di scelte «pericolose» che possono portare a una «guerra monetaria».
Ieri Fischer, Posen e Roubini ne hanno parlato a Davos. Il patto era che ciò che è stato detto non uscisse da quella stanza nel centro congressi. Ma se c’è una lezione che emerge dalla giornata di ieri, è che il Giappone di Abe non è affatto nel ruolo dell’America di Hoover che innescò il protezionismo di 80 anni fa. Il virus è già in circolazione da tempo. Il neonazionalismo di Abe nella guerra delle monete, visto da Davos, è solo la risposta alla pressione della Cina: lo yuan di Pechino si è svalutato per anni perché di fatto agganciato o quasi al dollaro, mentre quest’ultimo era spinto al ribasso dagli acquisti di titoli per migliaia di miliardi lanciati dalla Federal Reserve nel 2009. Neanche il deprezzamento del dollaro sull’euro, del 10% circa negli ultimi sei mesi, risponde alle realtà della crescita e dell’occupazione nelle due grandi aree.
Le monete, il tema di cui Davos parla di meno, sono sempre più lo strumento del protezionismo e dei colpi sotto la cintura di questi anni. Le valute e le loro banche centrali rischiano di dar vita allo Smoot-Hawley Act del Ventunesimo secolo. Ieri Roubini ha avvertito sulle possibili conseguenze: tutte le grandi economie tra un po’ rischiano di trovarsi dov’erano prima, perché è impossibile che tutti svalutino simultaneamente, ma con un prezzo del petrolio e delle materie prime sempre più alto.
Secondo quanto filtra al World Economic Forum, il Tesoro americano vuole mettere il problema del Giappone sul tavolo del G7. Non sarà facile all’amministrazione Usa accusare Tokyo di imitare ciò che l’America fa da anni. Ma il duello di parole è già iniziato. Pochi giorni fa Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, ha accusato Shinzo Abe di voler ridurre l’indipendenza della sua Banca centrale. Gli ha subito risposto il ministro dell’Economia di Tokyo Akira Amari: «La Germania non può certo criticare nessuno. È il Paese che ha beneficiato di più dei cambi fissi dell’euro». Non sarà l’ultima scaramuccia, forse solo una delle prime.

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