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I cassintegrati e gli sporchi affari delle banche italiane

Il motivo tecnico è semplice: un’azienda dichiara lo stato di crisi e chiede l’intervento della cassa integrazione per un certo numero di dipendenti. Parte una trattativa con i sindacati e i ministeri del welfare e dello sviluppo economico (Fornero e Passera, dunque) al termine della quale si firma un accordo: tot cassintegrati, per tot mesi. Il pagamento degli assegni mensili passa nelle competenze dell’Inps, a quel punto, e non più dell’azienda, che smette di pagare i corrispettivi stipendi (bisogna sempre ricordare che la cassa integrazione è un ammortizzatore sociale in favore delle imprese, non dei lavoratori).
Ma l’Inps non può pagare finché non gli viene ordinato dal ministero del welfare. Il quale deve stendere e firmare un “decreto”, dando così l’autorizzazione all’istituto di previdenza ad erogare assegni mensili a quei lavoratori indicati nominativamente.
Tra il dire e il fare passano alcuni mesi – in media da 4 a 6, in qualche caso anche di più – durante i quali i lavoratori messi in cig non prendono un euro. Inevitabile, dunque, che chi non ha risparmi da parte sia costretto a ricorrere al prestito da parte di una banca. In fondo si tratta di soldi sicuri, che verranno certamente versati sul conto entro un certo tempo (nemmeno troppo lungo, dal punto di vista delle banche).
E qui scatta la tagliola: se vuoi un anticipo devi lasciare alla banca una fetta dei solid che l’Inps ti darà. Come viene dettagliatamente spiegato in questo articolo dal Fatto Quotidiano di oggi:

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I cassintegrati e gli sporchi affari delle banche italiane

Costanza Iotti

Più cassintegrati ci sono, più le banche guadagnano. Quanto? Difficile dirlo con precisione perché ogni istituto di credito fissa il proprio sugli anticipi concessi ai cassintegrati e garantiti dal denaro degli ammortizzatori sociali che lo Stato tarda a versare ai lavoratori.

Nel caso di banca Intesa, ad esempio, la cosiddetta “anticipazione sociale” costa 35 euro su un importo prestato di 1.500 euro per una durata di sette mesi ad un tasso annuale effettivo globale del 4,03 per cento.

Per Mps, invece, il riferimento sul tasso è l’Euribor a tre mesi, che naviga attorno allo 0,30%, ma nella realtà poi il saggio applicato si decide al momento dell’istruttoria della pratica.

In Unicredit, invece, in filiale, non si riesce a spuntare nemmeno un foglietto illustrativo del prodotto “anticipazione sociale“. In ogni caso una cosa è certa: se si è in assenza di fido, allora scattano interessi che possono variare fra il 14 e il 22 per cento a seconda dell’istituto di credito.

Per fortuna che l’anticipazione, come spiega il dettaglio informativo alla clientela di Intesa, prevede l’apertura di “conto corrente e un’apertura di credito” per sostenere il lavoratore “in Cassa integrazione guadagni straordinaria o in Cassa integrazione Straordinaria Guadagni in Deroga quale anticipo delle somme che l’Inps verserà a titolo di integrazione salariale straordinaria”.

Soldi, insomma, che certamente arriveranno e sui quali la banca, che a sua volta ha all’attivo i finanziamenti ottenuti lo scorso anno dalla Banca centrale europea al tasso dello 0,75 per cento, fa magri, ma facili guadagni. E per i quali i lavoratori e anche i cittadini pagano il conto, dal momento che spesso l’istituto di credito raggiunge un accordo con le Regioni e gli enti locali per gli interessi connessi all’anticipazione.

Senza contare poi che, trascorsi i sette mesi della durata del prestito, il conto, originariamente gratuito, si trasforma in un normale conto corrente con tutti i costi connessi, oltre naturalmente all’imposta di bollo di 34,2 euro obbligatoria per legge.

Un prodotto bancario, insomma, studiato nei dettagli cogliendo l’opportunità dei ritardi di pagamento dello Stato. Del resto la vicenda dell’anticipazione sociale è storia vecchia.

Dell’accordo fra l’Associazione bancaria Italiana, Confindustria e i sindacati sulla questione c’è già traccia nel 2009 quando le parti, “alla luce della situazione economica in atto nel Paese” ritengono “opportuna la convergenza delle azioni ed il rafforzamento della collaborazione tra gli attori sociali” per dare una mano ai lavoratori “in attesa del pagamento diretto da parte dell’Inps”.

Da allora l’intesa è stata periodicamente rinnovata. E “le banche coinvolte anticipano, per un massimo di sette mesi, un’indennità non superiore ai 900 euro mensili”, come spiega una nota dell’Abi che ha rinnovato fino al 2013 l’intesa siglata con Confindustria e i sindacati.

Del resto i lavoratori spesso non possono permettersi lunghi tempi di pagamento come i quattro mesi di coda provocati dal ministro del Welfare uscente, Elsa Fornero, con i ritardi nel via libera, appena arrivato, alla copertura di 200 milioni per i versamenti 2012 e 2013 della Cassa in deroga (cifra, tra l’altro, secondo i sindacati, inferiore ai 380 milioni necessari).

Senza contare che le attese possono anche essere più lunghe: “Per la cassa straordinaria i tempi di erogazione possono arrivare anche a sei mesi perché tutto è centralizzato – spiegano dall’Osservatorio della Cisl su cassa integrazione e politiche del lavoro – Per quella in deroga, invece, le tempistiche possono variare da regione a regione a seconda della procedura burocratica decisa dall’ente”. Accade così che Regioni come la Calabria lascino a secco i cassintegrati anche per sei mesi, con le tensioni sociali che ne derivano.

E così, l’anticipazione sociale, nata a supporto dei lavoratori, si sta trasformando in un piccolo business bancario che, per di più, ha anche prospettive in crescita almeno per due ragioni. Innanzitutto rischia di essere coinvolta anche la cassa integrazione ordinaria, che finora non ha subito ritardi nei pagamenti: i pagamenti dovuti ai lavoratori sono stati anticipati dall’Inps in assenza del decreto ministeriale grazie ad una legge dello Stato. La norma in questione, però, non è stata prorogata per il 2013. In secondo luogo, il numero crescente di aziende in difficoltà lascia presagire un ulteriore aumento del numero di cassintegrati, come testimonia la tendenza indicata dai dati di gennaio.

Che, assieme all’atteso peggioramento della congiuntura economica, non lasciano ben sperare per il futuro. Tanto più che le stesse Regioni, strette tra i paletti del patto di stabilità e i tagli dei trasferimenti statali, si trovano in difficoltà. Finora hanno contribuito alla cassa in deroga mediamente con un 30% dell’importo complessivo grazie all’uso del Fondo sociale europeo su cui, però, da quest’anno non si potrà più contare. Così tutto l’onere della cassa in deroga ricadrà nuovamente sul ministero del Welfare. Con il rischio di coinvolgere anche i cittadini-lavoratori, naturalmente.

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