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Il vicolo cieco del Fondo Monetario

L’intervista è importante anche per chiarire il ruolo delle istituzioni finanziarie sovranazionali, come il Fmi. Si pensa spesso – semplificando decisamente troppo – che in questi luoghi sia condensato il “governo del mondo”. Non è così, non c’è alcun “governo mondiale”, nemmeno occulto. Queste istituzioni sono piuttosto “camere di compensazione” tra interessi strutturati, di paesi o aree monetarie, con l’obiettivo di corrispondere alle necessità di regolare funzionamento dei “mercati”, reali e finanziari.
Istituzioni pesantemente sbilanciate secondo rapporti di forza – economica e militare – ormai superati dai fatti, e quindi duramente contestate dalle potenze emergenti. Istituzioni che hanno un potere devastante quando le loro ricette vengono imposte ad un singolo paese, ma che si paralizzano o quasi quando il problema da affrontare ha dimensioni sistemiche. Perché sono istituzioni più “politiche” che economiche in senso stretto.
Interessante anche la sconfessione – “autorevole”, provenendo dal Fmi – della vulgata montiana e non solo per cui “l’austerità” drastica, a dosi massicce, ricostruisce la “credibilità” di un paese e quindi porrebbe migliori condizioni per la “crescita”. La nonchalance con cui viene trattato Giavazzi è pura musica per orecchie laiche…

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Blanchard (Fmi): «In Italia produttività ferma da troppo tempo»

Dal nostro inviato Alessandro Merli


LONDRA – Il capo economista del Fondo monetario, Olivier Blanchard, lancia l’allarme sulla stagnazione della produttività in Italia e vede nel ritorno della crescita e nell’adozione di politiche di riforma strutturale che la promuovono l’unica via che consentirà all’Italia, e all’Europa, di uscire dalla crisi degli ultimi tre anni. E sostiene che l’applicazione troppo rapida dell’austerità rischia di provocare, quando la crescita è già bassissima (in Italia, negativa), ulteriore contrazione, esplosione delle sofferenze bancarie e pesanti restrizioni al credito.

L’economista sollecita anche la Germania ad accettare un’inflazione sopra il 2% per riequilibrare la competitività nell’eurozona. Blanchard, 64 anni, compagno di studi al Mit del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, cui resta molto legato, è uno degli esponenti più rispettati di una professione che con la crisi si è ritrovata bersaglio di tutte le critiche. Per primo si è fatto promotore di un ripensamento a fondo della macroeconomia, convocando due anni all’Fmi il Gotha degli economisti di ogni convinzione. Il mese prossimo farà da padrone di casa a un altro incontro. Nel frattempo ha esaminato le lezioni della crisi, portando l’Fmi, considerato il bastione del rigore fiscale più inflessibile, in una direzione alcuni fa impensabile. Nell’autunno scorso ha scritto un articolo che ha sollevato non poche controversie, per sottolineare che gli effetti negativi dell’austerità fiscale sulla crescita sono più pesanti di quanto si pensasse finora.

In quest’intervista, concessa prima di un “conclave” di banchieri centrali ed economisti alla Bank of Emgland, cui ha partecipato anche Draghi, guarda al futuro della macroeconomia attraverso il prisma della crisi europea.

La crisi ci ha costretto a ripensare le nostre certezze sulla macroeconomia. Ma le autorità, avendo abbandonato la vecchia strada, ne stanno percorrendo una nuova dando però l’impressione di procedere per tentativi, aggravando l’incertezza per i mercati e gli agenti economici.
L’incertezza è un fattore importante dell’attuale situazione economica. Ma ci sono tipi diversi di incertezza, con effetti diversi. In politica monetaria, c’è incertezza sugli strumenti, in quanto le banche centrali sperimentano vari interventi, ma c’è pochissima incertezza sugli obiettivi. Come ha detto il presidente della Bce l’estate scorsa, la Bce «farà tutto quello che è necessario». Lo stesso è vero della Federal Reserve. Così, se i mercati non sanno esattamente cosa faranno le banche centrali, c’è poca incertezza sul loro impegno. Sulla regolamentazione finanziaria è diverso, a causa dell’interazione fra regolatori e regolati, in cui c’è un aspetto di gioco del gatto e del topo. Come si mettono in atto nuove regole, le istituzioni finanziarie evolvono, spesso forzando un cambiamento delle regole e così via. Il risultato è un’incertezza regolatoria, che complica il lavoro delle istituzioni finanziarie. Ma, data la difficoltà nel definire la regolemantazione finanziaria, c’è poco da fare per evitarlo e probabilmente vivremo con quest’incertezza ancora a lungo.

Poi c’è l’incertezza politica, soprattutto in Europa.
Certamente gioca anch’essa un ruolo. Saremo ancora per diverso tempo in una situazione di aggiustamenti difficili e alta disoccupazione. Non possiamo essere sicuri che i Governi saranno in grado di fare quello che devono o, in alcuni casi, siano al loro posto per farlo. Nell’eurozona c’è un problema addizionale, 17 Paesi con visioni e situazioni economiche diverse. E, mentre ci sono stati molti progressi istituzionali nell’ultimo anno, questo rende difficili i negoziati, ai passi avanti seguono parziali retromarce, e questo peggiora l’incertezza.

Lei ha parlato della Bce e della Fed. In Europa, molti vorrebbero che la Bce fosse un po’ più come la Fed.
Ci sono differenze. La Fed ha un doppio mandato esplicito di occuparsi dell’inflazione e della crescita. La Bce, in parte perché è un’istituzione nuova che doveva crearsi una credibilità, in parte per le tradizioni diverse, si concentra sull’inflazione. Ma non credo che abbiano agito in modo molto diverso nella crisi. Entrambe hanno affrontato i problemi in modo aggressivo, con strumenti diversi, rispondendo a situazioni diverse. Il QE della Fed e l’OMT della Bce sono entrambe risposte molto aggressive. Un problema che la Bce dovrà probabilmente affrontare presto è come gestire e come reagire a un’inflazione sotto l’obiettivo. Sull’inflazione, farò un’osservazione ovvia: se la Germania vuole che il Sud dell’eurozona migliori la propria competitività, questo implica che abbia un’inflazione inferiore a quella tedesca. Ma se la Bce deve tenere l’inflazione media dell’area attorno al 2%, questo comporta, come fatto aritmetico, che la Germania deve avere un’inflazione sopra il 2. Questo non è ben compreso.

Si parla di guerra delle valute in cui tutti vogliono svalutare. Se la Bce non vi partecipa, il rischio è un euro forte che danneggi ancor di più la crescita.
Non c’è una guerra delle valute. Ma è importante che i Paesi abbiano un “codice stradale” chiaro, di quello che possono e non possono fare. All’ultimo G-20, i Paesi si sono accordati su queste regole generali, cioè che ogni Paese deve concentrarsi sull’obiettivo di un equilibrio interno, cioè una crescita vicina al potenziale, ed esterno, una posizione dei conti correnti con l’estero ragionevole. I cambi dovrebbero quindi essere determinati dai mercati, E se i flussi di capitale si rivelano troppo volatili, i Psesi possono usare diversi mezzi per ridurre questa volatilità. Mi sembrano regole ragionevoli, per un mondo molto complesso.

L’Europa ha anche il problema che, nonostante una politica monetaria che Draghi definisce molto espansiva, il credito all’economia reale è insufficiente in alcuni Paesi.
I tassi ai quali le famiglie e le imprese possono prendere denaro a prestito in alcuni Paesi della periferia dell’eurozona è tuttora alto. Quello fissato dalla Bce è molto più basso. Gli alti tassi applicati dalle banche riflettono la mediocre salute del sistema bancario. Cosa si può fare? I tassi bancari dipendono da quelli del debito pubblico. Qui, l’offerta dell’Omt da parte della Bce, anche se non è stata raccolta, ha avuto buoni efetti e i tassi sul debito pubblico sono scesi dai picchi dell’anno scorso. Ma la soluzione risiede principalmente in un sistema bancario più forte. Molte banche hanno ancora bisogno di essere meglio capitalizzate.

Lei ha sollevato la questione dell’impatto negativo del risanamento fiscale sulla crescita.
Il risanamento dei conti pubblici è necessario in quasi tutti i Paesi avanzati. Ci sono troppi rischi per lasciare aumentare ancora il debito. Ad alti livelli di debito, la situazione può finire fuori controllo rapidamente. Prendiamo un’economia con il debito al 120% del pil (come l’Italia, ndr), Non ci vuole un gran aumento dei tassi per rendere altissimo l’onere degli interessi e il debito totalmente insostenibile. Finchè gli investitori credono che il Paese può risanare e accettano un rendimento basso, va bene. Ma se una mattina si svegliano e decidono che il Paese è rischioso, chiederanno un tasso alto, il Paese non potrà più pagare e gli investitori faranno scattare proprio il risultato che temono. Quindi i Paesi alla fine devono avere livelli di debito molto più bassi di quelli attuali. Il problema è a quale velocità ridurre il deficit. Non bisogna illudersi: nel breve periodo, il risanamento fiscale contrae la domanda e il reddito. Se la crescita è già molto bassa, le sofferenze aumenteranno molto rapidamente, le banche saranno in difficoltà, il credito diventerà più scarso e il rischio è di una crescita ancora più bassa. Questo suggerisce di procedere lentamente, specialmente se la crescita è già molto bassa. Allo stesso tempo se uno dice: comincerò l’anno prossimo, non è credibile. Se i mercati concedono un po’ di spazio, la risposta è procedere a un passo costante e misurato. Non più lento, nè più rapido.

Le autorità europee insistono che la stretta di bilancio produrrà un espansione grazie al rilancio della fiducia.
All’inizio della crisi, alcuni sostenevano che l’aggiustamento fiscale poteva aumentare la fiducia tanto da condurre a un “consolidamento fiscale espansivo”. Questo è accaduto in passato, come documentato in un importante paper di Francesco Giavazzi e Mario Pagano sull’esperienza di Irlanda e Danimarca negli anni 80. Ma, dopo 4 anni di crisi, i dati mostrano che questo effetto fiducia non ha avuto un ruolo importante. Il consolidamento fiscale non è stato espansivo.

In Italia gli aumenti di tasse hanno prevalso sui tagli di spesa pubblica. Quanto conta la composizione dell’aggiustamento fiscale?
La composizione può essere altrettanto importante della velocità. Una questione di base è quanto si vuole che sia grande il settore pubblico. La risposta può essere diversa negli Usa e in Europa e determina la scelta fra tagli e tasse. Se si ritiene che il settore pubblico sia troppo grande, si deve puntare sui tagli; altrimenti, sulle tasse. Ci sono altri aspetti rilevanti. Politicamente, i programmi che cominciano con i tagli sono più credibili, in quanto gli aumenti di tasse sono più facili da eliminare. Empiricamente, ci sono prove che l’effetto negativo dei tagli sulla crescita è minore di quello delle tasse più alte, come hanno dimostrato Alberto Alesina e Silvia Ardagna. Non sono espansivi, ma hanno un impatto negativo minore sulle crescita degli aumenti di tasse.

Il problema dei conti pubblici non verrà mai risolto senza crescita, in quanto il risanamento viene vanificato.
In linea di principio, si può avere sostenibilità fiscale anche senza crescita. L’Italia c’è riuscita per molto tempo prima della crisi. Ma la crescita rende molto più facile risolvere il problema delle finanze pubbliche. E, per ottenere una crescita più alta, non solo ora, ma nel medio periodo, quasi certamente c’è bisogno di riforme strutturali. Nel caso dell’Italia, sappiamo quali sono le opzioni: riforme dei mercati dei prodotti, riforme del mercato del lavoro. È veramente preoccupante che l’Italia abbia avuto una crescita della produttività così scarsa per un periodo così lungo.

La crisi di Cipro ha riattizzato i timori di contagio e la paura che la stessa ricetta di colpire i depositi bancari, anche quelli garantiti, venga applicata altrove.
Cipro è un caso a sé, con due grandi banche in una piccola isola. Dovevano essere riorganizzate e, a causa della struttura della loro raccolta, non c’era modo di farlo senza toccare i depositanti non garantiti. La nuova struttura dovrebbe portare a una banca ben capitalizzata.


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