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La “competitività” dei miserabili

L’uomo che aveva tentato di fare le scarpe a Gianni Agnelli (colto sul fatto e buttato fuori), che ha distrutto l’Olivetti pensando di poter risparmiare su ricerca e sviluppo nel settore dell’informatica (un vero genio! sopravvisse un paio di anni vendendo computer obsoleti alla pubblica amministrazione, poi ciao), che ha fatto di editoria e finanza il cuore del proprio business… riesce oggi persino a stravolgere il grido disperato lanciato da Ignazion Visco una settimana fa. Quel “deficit di cultura riformista” che il Governatore di Bankitalia identifica nella piccolezza delle imprese, nel loro dipendere esclusivamente dai prestiti bancari anziché dal collocamento sul mercato, e quindi dall’arretratezza dei prodotti e dei processi produttivi; nel rifuggire dall’investimento di “risorse proprie” per usare invece l’azienda per finanziare il proprio livello di vita, ecc.
Bene. Tutto questo si riduce per De Benedetti… alla riduzione del “cuneo fiscale”. Ovvero alla richiesta di una misura legislativa che diminuisca la quota fiscale del salario a acarico delle imprese. Tradotto: fateci pagare meno tasse e vedrete come faremo meglio gli imprenditori!
L’articolo pubblicato oggi sul foglio di Confindustria è un manuale di come l’impresa italiana non concepisca davvero neppure “il profitto”, ma semplicemente “l’intascato”, comunque ottenuto. Quindi, meno tasse più soldi per me. Punto.
Vediamo la ricetta espressa in “aziendalese”: “azzeramento del prelievo fiscale e contributivo sulle assunzioni dei giovani, abbattimento in via strutturale del prelievo sulla quota di salario legata agli incrementi di produttività contrattati in sede aziendale”.
Niente tasse e contributi previdenziali per chi assume giovani. Comodissimo, per la singola azienda. Un disastro per i giovani, che si ritrovano la carriera contributiva azzerata già in partenza (non vedranno mai una pensione, neppur minima, con questo sistema, perché non ci saranno contributi da calcolare alla fine dell’età lavorativa). Un disastro per i conti Inps, che vedrebbero ridursi al minimo le entrate e quindi non potrebbe, entro breve tempo, neppure pagare le pensioni in essere (figuriamoci quelle future). Un disastro per la fiscalità generale dello Stato, e quindi una mazzata paurosa sul debito pubblico. Con buona pace dei “sacrifici” già imposti alla popolazione.
Il “salario legato agli incrementi di produttività contrattati in sede aziendale” è una spaventosa presa per i fondelli. La “produttività”, come dovrebbero sapere ormai anche gli asini, si aumenta in due modi: aumentando l’orario e/o l’intensità del lavoro (i “ritmi”), oppure innovando i macchinari (investimenti che producno per via tecnologica “più pezzi” nella stessa unità di tempo, magari persino con meno persone al lavoro).
L’impresa italiana attuale – ha spiegato pazientemente ma inutilmente Visco – preferisce la prima strada, per non investire. Ma è una strada senza futuro, perché a quel livello di “competitività” quasi tutti i paesi emergenti possono fare meglio, con salari ancora – ma non più tanto – più bassi di quelli italiani.
In termini marxiani, l’impresa italiana cerca i “plusvalore assoluto” là dove ormai anche la Cina viaggia privilegiando “l’estrazione di plusvalore relativo” (più macchine, più tecnologia, meno manualità bruta).
Il programma del Pd sul lavoro, dunque, è quello delle imprese arretrate. Un suicidio per il paese, ma a medio ternìmine anche per le stesse imprese. Che infatti vanno chiudendo, divorate dalla concorrenza e dalla stupidità dell’imprenditore medio italiano. Arretrato.

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Quel cuneo da abbattere

di Carlo De Benedetti
Non passa giorno senza dati che rilancino l’emergenza lavoro che oggi colpisce l’Europa. L’ultimo allarme è quello di Confindustria sui posti persi nel manifatturiero (539mila). Per l’Ilo all’Italia mancano 1,7 milioni di lavori. Sono tantissimi.
Ma per capire il senso di quei numeri è sempre bene ricordare un’altra cifra, quella frutto della ricerca condotta da Gallup su scala mondiale l’anno scorso, per cui nel mondo è aperta una guerra per conquistare quasi due miliardi di posti di lavoro mancanti.

L’Italia ha contribuito a mettere il lavoro al centro del prossimo Consiglio europeo. Ma deve essere chiaro a tutti che non è con iniziative come lo “Youth guarantee programme” che vinceremo questa guerra. Quel piano della Commissione prevede 6 miliardi in sei anni. All’Italia toccherebbero 400 milioni. Briciole. Certamente utili, ma ci vuol ben altro.
Da dove cominciare allora? Si può ripartire proprio dalle raccomandazioni Ue. Lì dove si dice che tra le priorità che l’Italia deve sviluppare c’è il recupero di produttività, anche attraverso lo sviluppo della contrattazione aziendale. La produttività è tante cose insieme: è migliore organizzazione del lavoro, è salari legati all’output del proprio lavoro, è innovazione nell’hardware e nei processi aziendali, è investimenti. In una parola è, come ci insegna la Germania, capacità di cavalcare quell’onda dei grandi cambiamenti degli ultimi 25 anni da cui, come ha osservato nelle sue Considerazioni fiscali Ignazio Visco, l’Italia è rimasta esclusa per un deficit di capacità riformista.

Nei dieci anni che hanno preceduto la crisi, il costo del lavoro per unità di prodotto nel manifatturiero italiano è cresciuto del 19%, mentre in Germania è calato di quasi il 10%. Il cuneo fiscale che oggi grava sulle imprese italiane è a livelli record. Nel 2011, considerando anche l’Irap e il Tfr, abbiamo toccato il 53,5%, risultando, nell’area Ocse, secondi solo al Belgio. Quando cerchiamo le ragioni del nostro arretramento impariamo a guardare a queste semplici cifre.
Per queste ragioni io credo che una seria politica di rilancio dell’economia debba passare da un abbattimento forte delle tasse sul lavoro, legato proprio agli incrementi di produttività. Quel cuneo fiscale va abbattuto. Cominciando dalla parte di salario che più si collega all’innovazione, al cambiamento, alla produttività. Due linee di intervento soprattutto: azzeramento del prelievo fiscale e contributivo sulle assunzioni dei giovani, abbattimento in via strutturale del prelievo sulla quota di salario legata agli incrementi di produttività contrattati in sede aziendale.

Su questo secondo punto, in particolare, il segnale deve essere significativo. Non bastano le mance stanziate nelle ultime leggi di bilancio. Piccole cifre – alleggerite peraltro progressivamente per altre coperture – scarsamente valorizzate, proprio a causa della loro occasionalità, in sede di confronto tra le parti sociali. Serve un segnale forte. Che abbatta in modo radicale il prelievo sulla parte di salario contrattata in sede aziendale. E lo faccia in modo stabile per i prossimi anni.
Questo darà fiducia alle imprese per investire e obbligherà i sindacati, anche la parte più restìa, a confrontarsi davvero su incrementi di produttività, potendo il lavoratore percepire in modo chiaro l’aumento del salario effettivamente percepito. Non ci saranno più alibi per nessuno. Ci sarà un’iniezione di fiducia, una spinta ai consumi, una possibilità in più per le imprese di innovare nell’organizzazione del lavoro e competere con minori zavorre.

Ovviamente nessuno può ignorare il problema delle risorse. Ma è proprio questo il punto. Invece di inseguire settimana per settimana, in modo occasionale, le spinte di questa strana maggioranza, il Governo dovrebbe concentrare ogni risorsa disponibile su questo grande piano per il lavoro e per la produzione. L’Imu, la Cig, adesso l’Iva, sono temi importanti, ma disperdere fondi in interventi privi di una strategia unica di rilancio significa sprecare tempo e risorse.
I fondi per una cura forte sulle tasse sul lavoro ci sono. Facciamo qualche numero: 10 miliardi in due anni come dividendo dei minori tassi sul debito pubblico, 4 miliardi che il Governo sta cercando per evitare l’aumento dell’Iva, altri 4 miliardi sono il costo del possibile intervento sull’Imu, una cifra tra i cinque e i dieci miliardi può essere il frutto della revisione di agevolazioni e incentivi fiscali (la Confindustria ha già dato la propria disponibilità sui fondi che vanno a vario titolo alle imprese e al Governo c’è pronto il piano sulle tax expenditure elaborato nella scorsa legislatura da Vieri Ceriani). C’è poi il grande capitolo della spending review. La fine del Governo Monti non deve essere la fine dei tagli alla spesa pubblica. Su 800 miliardi di spesa, cresciuti negli ultimi dieci anni del 30%, si può e si deve ancora intervenire.

Infine Bruxelles. Il consolidamento dei conti pubblici è un obbligo inderogabile e quando sento proposte improvvisate sullo sconfinamento del 3% mi viene da sorridere. Ma l’uscita dalla procedura d’infrazione ci dà margini e credibilità per trattare una maggiore flessibilità nella valutazione ai fini del deficit di misure specifiche strettamente legate all’occupazione e alla crescita. Soprattutto se queste misure vanno incontro a specifiche raccomandazioni europee, come appunto quella sull’occupazione, sulla produttività, sui contratti aziendali. Con la Commissione, dunque, si può ragionare, senza improvvisazioni, ma anche senza timidezze, su una strategia concordata su questi punti.
Il Governo è in carica ormai da un mese e mezzo. Prendere tempo con le riforme istituzionali non può bastare. È venuto il momento di dare un senso alla sua strategia economica. E il lavoro ha bisogno di piani ambiziosi.

da IlSole24Ore

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La critica involontaria, ma non per questo meno feroce, gli arriva proprio da dentro il “suo” giornale, Repubblica, attraverso la penna del moderatissimo Massimo Riva.
Si tratta, in primo luogo, di uscire dall’ottusa visione secondo cui con qualche aggiustamento legislativo si possono dischiudere chissà quali orizzonti alla creazione di posti di lavoro, per giovani e no. Se non si rimettono in moto i meccanismi della crescita economica, non si riuscirà mai a creare nuova e stabile occupazione. Occorre, dunque, prendere di petto i due punti più critici della situazione: il crollo della domanda interna e la caduta degli investimenti.

Il dovere di pensare ai più poveri

Massimo Riva
CIÒ che lascia più amaro in bocca dei fatti di Terni è la loro esemplarità plastica non tanto di un conflitto fra diritto di manifestazione e presidio dell’ordine pubblico, ma di un altro scontro, magari più sotterraneo e però non meno aspro, che è in atto ormai da tempo nel paese.

La guerra fra poveri, con al centro della contesa il lavoro. Quel bene che in una società davvero democratica ed evoluta fa tutt’uno con la dignità di cittadino. Può anche darsi che ieri nella città umbra qualche funzionario di polizia, troppo solerte o disinvolto, abbia dato ordini sbagliati ai suoi uomini quanto a cariche e manganelli. Le inchieste, si spera, chiariranno. E già la polizia spiega di non aver colpito il sindaco. Ma chi voglia andare aldilà della vicenda occasionale non può evitare di scorgervi anche il segnale della china pericolosa su cui si sta incamminando il tema disoccupazione.
Giorno dopo giorno, si sta sgretolando quella pace sociale stupefacente che ha caratterizzato gli ultimi quattro anni di recessione con perdite massicce di posti di lavoro. Com’era naturale che accadesse a fronte di una persistente incapacità della politica a individuare risposte valide per una crisi che sta massacrando insieme le imprese e i lavoratori. La logica miope che ha guidato i più recenti governi è stata dapprima quella di negare l’esistenza stessa dei problemi: Berlusconi e le sue scempiaggini sui ristoranti stracolmi. Poi quella di decantare sedicenti riforme epocali: Monti e la più dannosa che utile legge Fornero.
Da ultimo quella dell’attuale governo Letta che dice di aver posto in cima alla sua agenda il nodo crudele della disoccupazione giovanile, ma intanto non è andato oltre a decisioni di pura emergenza come il rifinanziamento della cassa integrazione in deroga. E, peggio ancora quando si avventura sul terreno di nuove iniziative, prospetta una variante della guerra fra poveri in termini di conflitto generazionale fra giovani e vecchi.
Ed è proprio su questo sfondo che va colto il significato ultimo degli incidenti di Terni. Nulla facendo sul terreno della strategia economica per rimettere in moto la crescita, lo Stato si immiserisce nel suo ruolo guida e finisce per trovarsi ad affrontare il diffuso malessere sociale sul terreno improprio e scivoloso dell’ordine pubblico. Ci vorrebbe un salto di qualità nell’azione di governo, forse più culturale che politico. Si tratta, in primo luogo, di uscire dall’ottusa visione secondo cui con qualche aggiustamento legislativo si possono dischiudere chissà quali orizzonti alla creazione di posti di lavoro, per giovani e no. Se non si rimettono in moto i meccanismi della crescita economica, non si riuscirà mai a creare nuova e stabile occupazione. Occorre, dunque, prendere di petto i due punti più critici della situazione: il crollo della domanda interna e la caduta degli investimenti. Temi che chiamano in causa responsabilità intrecciate fra banche, imprese e governo.
Le cifre sul salasso imposto dagli istituti di credito al finanziamento del mondo produttivo sono impressionanti: oltre 40 miliardi secondo Standard & Poor’s. Ma è un po’ troppo semplice indicare nei banchieri i soli untori della crisi. È un fatto che lo Stato ha contribuito a questo spiazzamento nel mercato dei capitali perché ha operato in modo da favorire soprattutto impieghi in titoli del debito pubblico.
Quanto alle imprese saranno anche fondate le loro accuse contro l’esosità delle banche, ma tanti sono i casi in cui le aziende chiedono crediti non per sviluppare nuove e più fruttuose iniziative ma soltanto per sopravvivere continuando a produrre magari ciò che i mercati vogliono sempre meno: esemplare al riguardo il caso Fiat. È necessario perciò che entrambe le parti — banche e imprese — escano dalle loro trincee difensive tornando a raccogliere la sfida dei mercati con più valide iniziative. È grave che molte aziende muoiano, ma è ben più grave che non ne nascano di nuove.
Prima di lamentarsi degli altri, forse il presidente di Confindustria dovrebbe guardare meglio a quel che succede — o meglio non succede — in casa sua.
Chi può e deve scuotere i protagonisti dell’economia dalla loro sostanziale indolenza è comunque il governo. Non è vero che la coperta corta dei conti pubblici impedisce di fare ogni mossa. Qualche miliardo in meno di tasse sui salari, per esempio, darebbe certo più fiato alla domanda per consumi della stessa cifra impegnata per cancellare l’Imu sulla prima casa di ricchi e poveri. Una mossa del genere darebbe anche più autorevolezza all’attuale premier nel reclamare una svolta economica in Europa.
Sì certo, fra pochi giorni ci sarà un vertice quadrangolare (con Francia, Germania e Spagna) per individuare interventi sulla disoccupazione giovanile. Sia pure il benvenuto, ma alto è il rischio che tutto si risolva in annunci di interventi a valenza più mediatica che pratica dato che l’ultimo bilancio comunitario presentato a Bruxelles predica sacrifici e taglia parecchi soldi.
La vera novità che si ha il dovere, prima ancora che il diritto, di chiedere all’Europa è quella di una campagna di rilancio degli investimenti collettivi tale da spingere anche il volano di quelli privati. Ma troverà l’attuale governo il tempo di impegnarvisi emancipandosi per qualche giorno dall’ossessione dei problemi giudiziari di Berlusconi e dalle ambigue fughe in avanti sul presidenzialismo? La campana suonata a Terni non ammette diversivi.

Da La Repubblica del 06/06/2013.

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