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L’ora del pentimento sulla gestione della crisi

Il pentimento, nella vita, è un sentimento colloso, oscillante tra la sana autocritica e la piagnucolosa richiesta di assoluzione. Sul piano giudiziario identifica l’infame; e non c’è altro da aggiungere. In economia diventa una presa per i fondelli di chi, intanto, è stato rovinato.
Il pentimento su come è stata gestita la crisi finanziaria si va facendo strada in alcuni organismi internazionali (come il Fondo monetario internazionale) e quindi anche nei media mainstream, che dimostrano così di essere veramente i “cani da guardia” del potere, non certo della sua critica.
Il primo articolo, dal confindustriale Sole24Ore, dà conto di un rapporto interno del Fmi che dovrebbe essere diffuso oggi. Al di là del modo cauteloso di esporne il contenuto, il succo è chiarissimo: i “grandi esperti” del Fmi e di molti altri istituti dello stesso genere non ci hanno capito nulla e hanno distrutto la Grecia (e, a salire, Portogallo, Spagna, Italia) con “prescrizioni” pescate direttamente in manuali di macroeconomia scritti da imbecilli per allevare generazioni di economisti ottusi, ma terribilmente obbedienti nel diffondere il dogma – o il senso comune – che “il privato funziona meglio del pubblico, quindi meno Stato c’è più si crea ricchezza”. Slogan privi di riscontro pratico, che rigorosamente non c’entrano nulla con l’economia, né quella reale, né quella finanziaria. Solo una copertura per l’arraffa-arraffa di manager e padroni, grandi e piccoli (più i grandiche i piccoli, ovvio).
Sbagliati i “moltiplicatori” usati per prevedere gli effetti di queste misure (sottostimati di due terzi; in pratica si aspettavano una febbricciola, mentre il paziente stirava le zampe); sbagliate le attese sui tempi di rientro di Atene sui “mercati internazionali” (ovvero per tornare a indebitarsi presso la finanza speculativa privata); sbagliti dunque anche gli effetti attesi in campo economico (un po’ di fabbriche greche hanno ripreso a lavorare, ma solo perché il salario reale è ormai precipitato sotto i 5-600 euro al mese).
L’unico effetto reale – ma tacendo dei guadagni realizzati da avvoltoi di ogni risma, nonché della fuga dei capitali da quel paese – è stato “guadagnare tempo”, rallentare l’effetto-contagio ad altri paesi. Il prezzo pagato, però, è stato anche per l’Unione Europea immensamente più alto di quanto non sarebbe stato intervenendo subito, con mezzi classicamente “redistributivi” tra aree che si erano avvantaggiate con la moneta unica e altre che ci avevano perso in competitività.

Più pesante la riflessione avviata da Salvatore Bragantini sul Corriere della sera, fin qui tra i fogli più talebani del fronte “rigorista”. Il quadro è così semplicemente descritto che è inutile riassumerlo. Naturamente non è vero che la crisi sia stata “causata” dagli sbilanci commerciali e dall’eccesso di credito (quindi di debito), ma la concatenazione degli eventi e l’identificazione di chi ci ha guadagnato è giusta.
Decisivo, in ogni caso, il “pentimento” sul ruolo dello Stato in economia. Abrogare la politica industriale, la programmazione, o addirittura “l’intervento keynesiano” appare ora un errore tragico. Perché i capitalisti – ohibò, quale sorpresa… – sono egoisti, evadono le tasse, ricattano e corrompono i parlamentari di tutti i paesi, non solo quegli scafessi che popolano Montecitorio e Palazzo Madama. Servirebbe uno Stato che fa progetti e detta i tempi alle imprese, non uno che si fa suggerire le “riforme strutturali” più utili per le iene che andrebbero invece ricondotte a più modeste pretese.
Come fanno i cinesi, azzarda il documento del Centro Studi di Confindustria. Ma questo è un altro capitolo, che affronteremo a parte.

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Fmi ammette: errori gravi e colpevoli ritardi nel salvataggio della Grecia

di Vittorio Da Rold

«Strettamente confidenziale». Con questa dicitura sulla copertina del rapporto il Fondo monetario internazionale ammette di aver sbagliato nel salvataggio di Atene: l’Fmi ha pesantemente sottovalutato i danni delle misure di austerità prescritte nel piano di salvataggio concesso alla Grecia.

Si tratta del secondo capitolo di quell’errore di valutazione sul peso delle misure di austerità che già aveva adombrato il capo economista Olivier Blanchard quando aveva ammesso che il Fondo aveva usato un moltiplicatore sugli effetti delle politiche recessive sulla crescita dello 0,5, mentre quello vero era dell’1,5. Il risultato? I salvataggi futuri non saranno legati a condizioni tanto distruttive quanto quelle che Atene ha dovuto affrontare.

L’ammissione di colpa è stata scoperta dal Wall Street Journal, che ha avuto accesso a un documento interno timbrato come «strettamente confidenziale» e che dovrebbe essere diffuso domani. Un documento che contrasta pesantemente con le dichiarazioni dal direttore generale del Fondo monetario, Christine Lagarde, che, nel corso di un’intervista rilasciata ieri sera, ha detto che Atene potrebbe tornare sul mercato dei capitali l’anno prossimo.

Ma torniamo al documento del Fondo dove gli autori sostengono comunque che il salvagente lanciato nel 2010 ad Atene «ha dato più tempo all’area euro per costruire una cortina di protezione a beneficio di altri Paesi membri vulnerabili evitando effetti potenziali gravi per l’economia globale». Un aiuto che è costato 47 miliardi di dollari al Fondo, il maggiore aiuto rispetto alla grandezza del paese.

In più occasioni, vari membri del Fondo, così come il numero uno Christine Lagarde, hanno detto apertamente che quel debito era «sostenibile». Ma dal documento confidenziale emerge una realtà molto diversa: che le incertezze legate al salvataggio greco erano «così significative che lo staff era incapace di garantire che il debito pubblico fosse sostenibile con una elevata probabilità».

Il Fondo ammette di essere stato troppo ottimista sulla capacità del governo greco di tornare ad accedere al mercato dei capitali. L’istituto guidato dall’ex ministro dell’Economia francese, critica a posteriori soprattutto i ritardi della ristrutturazione del debito greco, arrivato solo nel maggio del 2012, due anni dopo il via libera al primo salvataggio da 110 miliardi di euro: una ristrutturazione immediata sarebbe costata meno ai contribuenti d’Europa e avrebbe risolto prima i problemi di trasmissione del contagio. Ma la Germania era come paralizzata e timorosa di rompere un tabù: quello di aiutare un paese membro in crisi non di liquidità ma di solvibilità e quindi a rischio bancarotta.

Ma comunque l’operazione di salvataggio ha permesso di guadagnare tempo e di costruire una cortina di salvataggio per proteggere i paesi vulnerabili ed evitare gli effetti severi a tutta l’economia globale. Magra consolazione. La Grecia ha pagato duramente per i ritardi e gli errori di valutazione del Fondo: una ammissione tardiva e inquietante.

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Come far sopravvivere alla crisi un capitalismo moderno e moderato

Salvatore Bragantini

«Il capitalismo ha i secoli contati», s’intitla un libro di Giorgio Ruffolo, ma se esso non smette certi tratti inaccettabili la profezia si avvererà più in fretta. Le cause reali della crisi che viviamo dall’agosto ’07 sono gli sbilanci commerciali (per l’ingresso di grandi Paesi prima inesistenti per i commerci) e l’eccesso del risparmio sugli investimenti reali.
Grandi fette di valore aggiunto si sono infatti spostate dal lavoro (che consuma e sostiene la domanda) al capitale (che risparmia ma non trovando investimenti produttivi crea bolle). Negli Usa il reddito reale dei dipendenti calava ma essi rimediavano indebitandosi con le banche. Queste li finanziavano grazie ai denari di chi si stava appropriando dei guadagni di produttivita, fin lì divisi con il lavoro.
La finanza, invece di servire l’economia l’ha resa ancella, registrando grazie alla garanzia statale utili futuri (spesso virtuali), dai quali estrae bonus (reali e immediati).
Dalla finanza la crisi é passata all’economia reale, gonfiando i debiti pubblici. Insieme alla perdita di competitivita del Sud dell’eurozona, ciò alimenta le tensioni sull’euro.
La disoccupazione, alta ovunque, nel Sud Europa tocca metà dei giovani. Il welfare, che ci ha dato sicurezza e pace sociale, regredisce. Imperante il mito del pareggio di bilancio in mezzo alla bufera della recessione, la risposta é solo nella politica monetaria, ma questa é come una corda: può tirare, non spingere. Intere generazioni nei Paesi sviluppati, non potendo svolgere il lavoro per cui si son preparate, non possono pianificare la propria vita.
Se vuol sopravvivere senza gravi choc, il capitalismo moderno deve scrutare ansioso questo corrusco quadro di casse pubbliche esauste, crisi economica e giovani generazioni perse. Eppure stenta a capire la posta in gioco. Le cause reali della crisi non sono state attaccate; da parte sua il genio della finanza rifiuta di tornare nella bottiglia a fare un noioso mestiere, sogna i «tempi d’oro».
Le imprese fanno spregiudicati arbitraggi fiscali fra gli Stati, anche membri della Ue, per «ottimizzare» (vulgo non pagare) le tasse, zigzagando fra royalty, prestiti e management fee; non basta che il commissario Ue Michel Bamier chieda flebilmente dettagli su quante tasse esse pagano e dove. Ce n’é di strada da fare!
Nessuno tocca gli «approdi fiscali» che non stanno solo nei mari del Sud. Alla famiglia Riva sono stati sequestrati 1.200 milioni usciti, pare, dalla gestione Ilva: a Jersey, nel Regno Unito.
E’ rivelatrice l’audizione di Tim Cook, capo di Apple, al Congresso Usa sulle manovre del gruppo per eludere le tasse: nel 2011 Cook ha ricevuto (in soldi e azioni), 378 milioni di dollari, cifra che un «colletto bianco» Usa guadagnerebbe in seimila anni. Abilmente manovrando i costi, per allargare oltre la decenza le maglie fiscali dei vari Paesi, Apple (50 mila dipendenti) ha sifonato fuori dagli Usa circa 100 miliardi di dollari (2 milioni a dipendente); pressata dagli azionisti, ha acceso un maxi—debito per restituire loro 17 di quei miliardi, e dedurrrà pure gli interessi dalle tasse!
Apple, Google (che é ovunque per i clienti ma si nasconde alla privacy e al Fisco) e altri colossi detengono, fuori dagli Usa, 500 miliardi di dollari. Per tutti Cook ha avuto la faccia di chiedere un condono per rimpatriare il malloppo a poco prezzo, aprendo perfino una trattativa: dateci norme più lasche e smisteremo negli Usa redditi imponibili!
Lungi dal reagire con durezza, i congressmen — ipnotizzati dalla fama di Apple e dalla ricchezza di Cook, o ammansiti dai «contributi» ufficialmente provenienti dalle grandi imprese — sono parsi sensibili a tali argomentazioni. Ciò dà la misura della loro soggezione ideologica al big business, che del mercato vero é sempre nemico.
Le imprese si sono solo avvalse delle leggi, molti dicono, la colpa é dei politici che le fanno. E vero, ma ciò ci ricorda che le sirene del big business non vanno ascoltate: ce lo dicono loro stesse. Tocca alla politica curare l’interesse generale, spesso negletto a favore di chi si mostra tangibilmente grato.
Crisi é crinale del mutamento, ma serve forza lungimirante per invertire il moto, restituendo risorse al lavoro; chi vuol rilanciare la domanda passa per talebano. Anche la critica di Sergio Romano a1 libro di Franco Gallo «L’uguaglianza tributaria» (Corriere, 5 giugno) scorda che l’eccesso di accumulazione prosciuga la domanda e crea bolle. Per uscirne servirebbe tornare alle idee di Keynes, imponendo ai Paesi in surplus di spenderlo entro date scadenze, agire sulle imposte, abolire gli «approdi fiscali», regolare seriamente la finanza, ma bisogna volerlo; qui sta il problema.
La situazione attuale mina alla base lo Stato modemo, alle cui spese ognuno deve contribuire secondo le sue possibilità. Chi viola tale principio semina vento; con tanti giovani inquieti senza futuro, non si sorprenda se ci sarà tempesta. Avere il coltello dalla parte del manico non rende consigliabile usarlo. Lo sviluppo della seconda meta del Novecento é stato costruito sulla moderazione; approfittare della debolezza della controparte può costare caro, a tutti.

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