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Scoppia la bolla, tutti giù per terra…

Il che si porta dietro tutte le altre “bollette” fin qui tenute gonfie soltanto dalle “iniezioni di liquidità” della Federal Reserve statunitense e da quelle – rilevanti per gli emittenti, ma comunque minori – delle altre principali banche centrali.

Il “botto” di ieri su tutte le principali borse del pianeta è stato di quelli che segnano un cambio di stagione. -2,34% a Wall Street (fronte Dow Jones), -3 a Londra e Milano, -3,66 a Parigi, -3,28 anche a Francoforte; una fuga di massa dei capitali dal “rischio”, ovvero dalle borse.

Non ci era voluto molto a capirlo, dopo che Ben Bernanke – presidente della Fed ormai prossimo all’uscita di scena – aveva spiegato con inconsuetata chiarezza l’intenzione di cessare con i regali in moneta sonante già all’inizio del prossimo anno se – e si tratta di un “se” molto controverso – l’occupazione statunitense scenderà al 6,5%.

È inutile discutere, come fanno molti analisti sui giornali di oggi, se il linguaggio usato sia stato criptico come al solito o un po’ meno. “I mercati” sanno ormai leggere dietro le sfumature e le virgole di discorsi ritualizzati, come pure sono quelli dei banchieri centrali. Sanno leggere perché, soprattutto, i dati reali sono sotto gli occhi di tutti: l’economia globale è “ferma” (concetto da interpretare in modo differente da un’area monetaria all’altra, ma globalmente così è) e la finanza globale ha continuato, anzi ripreso, la sua folle corsa alla speculazione solo grazie ai soldi concessi dalle banche centrali.

Il fenomeno è comunemente descritto così: la nuova “liquidità” emessa non defluisce verso l’economia reale, ma resta nelle banche private.

E perché dovrebbe “defluire” via? Le banche sistemiche stanno ancora affrontando il “deleveraging” imposto dall’esplosione 2007-2008. Che vuole dire? Fin lì avevano usato una “leva” finanziaria decisamente eccessiva; ovvero avevano concesso una quantità di prestiti quasi senza più rapporto con il loro patrimonio netto (soldi realmente in cassa, proprietà immobiliari, partecipazioni azionarie, ecc). Si erano “protette” dai rischi connessi a questa “esposizione” generando quantità altrettanto inconcepibili di “prodotti finanziari derivati”, con un prezzo slegato da qualsiasi riferimento concreto o almeno da un riferimento rintracciabile. Debito su debito, titoli “garantiti” da altri titoli, montagne di carta straccia che sono andate crescendo fuori di ogni controllo, su mercati “over the counter”, fuori da ogni regola borsistica (che già sono fin troppo lasche).

Il programma di quantitative easing che Bernanke sta gestendo da ottobre prevede acquisti di questa carta straccia per 85 miliardi di dollari al mese. Carta straccia pagata con dollari americani nuovi di zecca (in realtà moneta elettronica, righe di codice), buoni da spendere subito per qualsiasi attività. Questo è il “deleveraging” che rimette in sesto i bilanci.

Ma le stesse banche hanno usato questo “miglioramento” patrimoniale per “garantire” nuovi titoli derivati, per aprire nuove “attività rischiose” ma potenzialmente molto redditizie (se poi ti garantiscono le banche centrali, puoi giocare come i bambini in una piscina di marmellata). Facendo insomma ricrescere la montagna della carta straccia.

Del resto, trasferire anche solo una parte dela nuova liquidità all’”economia reale” non avrebbe per loro senso. La produzione fisica (compresa quella presuntamente “immateriale” di alcuni servizi informatici o informatizzati) ha margini di redditività assai bassi, tempi di rotazione del capitale (dal momento dell’investimento a quello del ricavo) assai lunghi e comunque non paragonabili a quelli istantanei degli scambi elettronici sulle piazze globali. Anche le merci fisiche più indipensabili (dall’abbigliamento al cibo, dall’energia all’auto, ecc) soffrono ormai da anni di eccesso di produzione di fronte a una domanda invece addirittura in calo nei paesi più avanzati e storicamente approdati al “consumismo” di massa. Negli altri la “domanda solvibile” (gente con redditi sufficienti a fare acquisti) non è tale da garantire l’assorbimento del prodotto (Cina a parte, ma con problemi ormai evidenti anche lì). Gli investimenti industriali calano, non c’è necessità d “finanziarli”.

Si chiama “sovraproduzione di capitale” (ricordiamo sempre che significa “soldi, mezzi di produzione, merci, persone, ecc). Il capitalismo “reale” è incagliato in queste sabbie mobili, e non da ora. Aveva supplito con l’espansione del credito (del debito, dunque) e la finanziarizzazione globale. La crisi del 2007-8 aveva annullato in parte anche questa “dinamicità sostitutiva” e solo il soccorso delle finanze pubbliche globali aveva garantito la “stabilità” del sistema finanziario (con qualche dolorosa pedita, come Lehmann Brothers). Subito dopo sono entrate in crisi le finanze pubbliche, dando origine a quel “risanamento” che stiamo pagando con la distruzione del “modello sociale europeo” e il più massiccio trasferimento mai visto dai redditi da lavoro alle banche. Nemmeno questo però bastava, e allora ecco le “iniezioni di liquidità”… che ora volgono alla fine.

E dopo?

A noi il gioco sembra finito, ma sappiamo di avere meno “fantasia” dei prestigiatori… Paradossalmente, ma non troppo, proprio la gigantesca “correzione” (crollo dei valori e fuga dei capitali) partita ieri sui mercati potrebbe provocare nuovi disastri nell’economia reale già a pezzi; e quindi far allontanare quell’obiettivo – disoccupazione interna Usa al 6,5% – che la Fed considera “dead line” per le attuali iniezioni di liquidità. Costringendola insomma a prolungare la manna qualche mese in più…

Può essere, naturalmente. Ma proprio questo fa emergere come ultimo “baluardo” di stabilità… il dollaro. Ovvero la sua “stampabilità” ad libitum. Ma vi sembra credibile una moneta – una “divisa” – usata come l’eroina?

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Illuminante, come cronaca, uno degli articoli del Sole24Ore di oggi; costretto a dire forse più di quel che vorrebbe…

Effetto Fed su Wall Street, caduta sotto 15mila. Mercati sull’orlo dell’inversione di tendenza

di Marco Valsania

New York – “Il mio consiglio è di tirare i remi in barca e togliere capitali dai mercati. E di farlo presto”. Mark Grant, managing director di Southwest Securities, esprime con una battuta lapidaria tutto il nervosismo esploso senza remore nelle ultime ore sulle piazze finanziarie. Una sindrome di astinenza precoce dal Quantitative easing, che la Fed potrebbe iniziare a ritirare entro fine anno. E il terrore che, finito il bagno di liquidità che ha sostenuto la crescita e quasi ogni genere di asset, la ripresa americana e globale non sia in grado di reggere e preservare un’adeguata misura di ottimismo. Sì, perché a offuscare gli orizzonti e a evidenziare agli occhi degli investitori la vulnerabilità del sistema economico si aggiungono oggi le preoccupazioni per la solidità dell’espansione e del settore bancario in Cina.

Wall Street è reduce dalla peggior seduta dell’anno, con perdite degli indici vicine al 2,5 per cento. Il Vix, l’indicatore della paura, ha raggiunto quota 20 per la prima volta nel 2013 impennandosi del 23 per cento. Sono cadute anche commodities come il petrolio e l’oro, sceso sotto la soglia psicologica dei 1.300 dollari l’oncia. E le obbligazioni, in tandem, sono franate spingendo i rendimenti ai massimi da quasi due anni a questa parte. Con i treasuries federali sono caduti i titoli municipali, vittime delle peggiori perdite dal 2008. Solo il dollaro si è salvato dalla débacle, guadagnando sulla prospettiva di aumenti dei tassi di interesse. E la generale discesa dei mercati si è accentuata in chiusura di seduta, spingendo gli operatori ad avvertire che è probabile le vendite non siano finite e riprendano oggi.

Le scuole di pensiero tra gli operatori, a questo punto, però divergono. I pessimisti danno ragione a Grant, quando continua col tono sferzante e profetico che gli è valso in Borsa il soprannome di Mago: “I fondamentali economici non sostengono i livelli elevati raggiunti dai mercati, che reggevano solo grazie alla straordinaria liquidità garantita dalla banche centrali. Per quattro anni abbiamo vissuto con i soldi della “droga” forniti dalla Fed. Ora siamo giunti al momento di un’inversione di tendenza, fatta scattare da uno dei più chiari vertici che la Fed abbia mai condotto. Tolti i se e i ma, il messaggio è stato chiaro: intendiamo disfare quanto abiamo finora fatto. Giornate come ieri si ripeteranno. Non so quanto saranno brutte, ma saranno butte”.

Meno drammatica è invece la reazione – e il pronostico – di John Praveen di Prudential. “Le azioni in particolare continuerano a mostrare difficoltà e elevata volatilità per i timori sul taparing, il ritiro graduale del Qe da parte della Fed, e per le altre tensioni globali, dall’Asia alla Turchia – spiega -. Quindi, come decisione tattica, sto riducendo al momento la mia raccomandazione di sovraesposizione alla Borsa”. Altri analisti hanno parlato apertamente di una temporanea ed eccessiva reazione di panico da parte degli investitori, già ribattezzata con un gioco di parole “Taper Tantrum”, il capriccio per l’addio al Qe. Ad oggi la Borsa americana resta tuttora in rialzo dell’11% da inizio d’anno e il Vix, l’indice della paura, piu’ basso del 18% rispetto alla media degli ultimi cinque anni.

Quel che appare certo è che non poche incognite devono ancora trovare risposta prima che i mercati ritrovino un convincente equilibrio. Gli investitori si interrogano su quando scatterà davvero il ritiro degli stimoli economici: il 44% in un sondaggio Bloomberg lo prevede già al vertice Fed del 17-18 settembre. E sulle modalità: se comincerà a eliminare solo una ventina di miliardi di dollari in treasuries dagli acquisti di bond per 85 miliardi al mese del Qe – l’opzione considerata più probabile da Pierre Ellis di Decision Economics – oppure anche obbligazioni garantite da mutui. Nel mutato clima è necessario un vasto riesame delle strategie d’investimento, che potrebbe richiedere tempo. “Stiamo cominciando ad assistere a un ‘repricing’ degli asset sulla base del cambiamento nella politica monetaria”, ha commentanto Stephen Wood di Russell Invesments parlando a Bloomberg. La volatilità, così, potrebbe rimanere l’unica vera costante sulle piazze finanzarie.

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