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Tre milioni di lavoratori obbligati al “nero”

Quasi tre milioni di lavoratori in nero che producono più di 102 miliardi di Pil irregolare all’anno, equivalente al 6,5% di quello nazionale, occultando al Fisco 43,7 miliardi di euro di gettito.

Tanto peserebbe in termini economici il lavoro sommerso in Italia secondo una ricerca condotta dalla Cgia di Mestre su dati al 2011, per la quale in generale è tutto il Sud a soffrire la presenza dell’economia irregolare.
Il fenomeno, evidenzia lo studio, coinvolge tutti: lavoratori dipendenti che fanno un secondo lavoro, cassaintegrati o pensionati che arrotondano i loro esigui assegni mensili, disoccupati che in attesa di rientrare ufficialmente nel mercato del lavoro racimolano delle entrate attraverso un’attività irregolare, e con la crisi economica, ha spiegato il segretario dell’associazione Giuseppe Bortolussi, l’economia sommersa ha fatto segnare una ”forte impennata: in questi ultimi anni chi ha perso il lavoro non ha avuto alternative e per mandare avanti la famiglia ha dovuto ricorrere a piccoli lavoretti per portare a casa qualcosa”.

Un ammortizzatore sociale. Quasi metà delle tasse occultate al Fisco dal lavoro irregolare, 19,2 miliardi su 43, è concentrato nel Sud del Paese.
Nello specifico, la regione con la maggior “incidenza del valore aggiunto da lavoro irregolare sul Pil” è la Calabria (18,6%), dove per ogni singolo residente si registrano 1.375 euro di imposte evase, seguita dalla Basilicata (14,7%, con “appena” 45.600 lavoratori in nero), dove per ciascun residente le tasse che mediamente vengono a mancare sono pari a 1.174 euro all’anno e, al terzo posto, dal Molise (14,6%, con 27.000 lavoratori irregolari), regione in cui le imposte non versate per residente ammontano a 1.282 euro all’anno.
“Con la presenza del sommerso la profonda crisi che sta colpendo il Paese ha effetti economici e sociali meno pesanti di quanto non dicano le statistiche ufficiali”, ha aggiunto Bortolussi, e “nel Mezzogiorno possiamo affermare che il sommerso costituisce un vero e proprio ammortizzatore sociale”.

Le analisi quantitative della Cgi di Mestre sono sempre frutto di un buon lavoro, mentre le “spiegazioni” riflettono sempre il punto di vista delle “imprese artigiane regolari”, quelle che pagano le tasse.

Parlare del lavoro nero “come “ammortizzatore sociale”, per esempio, può avvenire soltanto dentro una prospettiva “borghese perbene”, dimenticando che è il livello bassissimo di salri, pensioni, cassa integrazione a fovorire la “disponibilità” di forza lavoro in nero. Là dove invece il reddito sociale (pensioni e assegni di disoccupazione) è migliore, questo fenomeno è assai minore.

Il secondo rilievo necessario riguarda il silenzio sul fatto che comunque sono le imprese a richiedere prestazioni in nero. NOn soltanto per non pagare le tasse, ma soprattutto per pagare salari da fame per i “lavoretti”, senza peraltro dover assumere i ben pochi impegni “imprenditoriali” previste dalle 43 forme di lavoro precario “legalizzate in Italia” (grazie al “pacchetto Treu” del centrosinistra e alla “legge 30” del centrodestra).

Insomma, descrivere il lavoro sommerso come una “responsabilità” di quei lavoratori troppo poveri per astenersi dal farlo, è davvero insopportabile.

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