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Previsioni autunnali: mare in tempesta

La schizofrenia regna sovrana quando si deve parlare di economia. Non c’è giorno che il governo di Letta il Giovane non provi a rassicurare il pubblico nazionale: “la recessione sta finendo, la crescita è dietro l’angolo”. Non c’è giorno che i più attenti e ascoltati analisti internazionali non dicano l’esatto contrario, almeno per quanto riguarda l’Italia e l’Unione Europea.

 

Che il nostro governicchio di mal assemblati menta sapendo di mentire non è una novità (immaginare Alfano e la Di Girolamo seduti allo stesso tavolo, “alla pari” con Saccomanni, dovrebbe spaventare soprattutto i benpensanti). Quasi tutti i governi italiani si sono distinti in quest’arte derelitta, a maggior ragione nel ventennio berlusconiano che si sta chiudendo.

 

Ma qual’è la situazione reale?

 

Qui si mescolano problemi economici e situazione politica continentale, perché – nonostante con la scomparsa di Mario Monti sia stato improvvisamente dimenticato – siamo a un passaggio decisivo della “costruzione europea”.

 

Sul piano strettamente economico la recessione continentale ha segnato la prima tregua dopo diciotto mesi filati («Dopo sei trimestri con il segno negativo, nel secondo trimestre del 2013 la crescita del Pil in termini reali nell’area dell’euro ha registrato lo 0,3% sul periodo precedente»; Italia esclusa, come sappiamo). Ma il Bollettino mensile della Bce non ne ha ricavato indicazioni particolarmente ottimistiche, riconoscendo tra le principali cause positive alcuni «effetti transitori connessi alle condizioni meteorologiche nella prima metà di quest’anno», oltre che alla prolungata stagione di “politica monetaria eccezionalmente accomodante” adottata dalla stessa Bce. “Bel tempo si spera” e politica monetaria non sembrano proprio le “condizioni strutturali” tipiche di un’economia sana… E quindi anche la tiepida ripresa delle esportazioni continentali non appare sufficiente a garantire una “crescita duratura” e tantomeno a ridurre la disoccupazione europea (26 milioni di senza lavoro sono una bomba sociale che può esplodere in qualsiasi momento).

 

Di qui i ripetuti inviti a mettere in pratica le raccomandate “riforme strutturali” che dovrebbero – nell’ideologia liberista – rimettere in moto il processo di accumulazione del profitto e quindi “la crescita”. Non avviene, non può avvenire. Sono anni che si stringe la cinghia e si taglia, in Italia come o meno che altrove; ma i risultati promessi non arrivano, né si intravedono all’orizzonte.

 

Da dove arriva allora lo spazio per alcune operazioni “audaci” (per esempio la finta abolizione temporanea dell’Imu) del nostro cagionevole e truffaldino governicchio? Dalla quiete che doveva precedere le elezioni tedesche del 22 settembre. Poi il processo di distruzione del “modello sociale europeo” riprenderà con forza triplicata.

 

Alcune tappe cruciali stanno prendendo forma definitiva, a partire dall’”unità bancaria”; ovvero dalle unificazione delle regole di funzionamento del sistema bancario continentale e dalla centralizzazione alla Bce dei compiti di “sorveglianza” oggi ancora affidato alle banche centrali nazionali.

 

I patti supervincolanti come il Fiscal Compact entreranno a regime dal 2014, costringendo i paesi deboli a sequestrare quote grandiose di ricchezza per il “risanamento del debito” piuttosto che per finanziare lo sviluppo economico. Cifre, per l’Italia, parti a circa 50 miliardi di euro ogni anno per i prossimi venti anni (per riportare il debito dal 126% al 60% rispetto al Pil), senza alcuna certezza di riuscirci e anci con l’assoluta certezza di impoverire in modo irrecuperabile il paese. Già gli obiettivi di deficit sembrano destinati a essere mancati, visto che il fabbisogno di quest’anno – da solo – arriva al 3,3%. Ma in Italia non se ne parla molto. Non lo fa il governo, che spera di poter andare avanti per linee di minor resistenza: non lo fanno, logicamente, i partiti che lo sostengono e che dovrebbero pagare elettoralmente il costo di scelte drasticamente impopolari; non lo fa un’opposizione politica inesistente o (i grillini) incompetente; non lo fanno nemmeno i “difensori della Costituzione”, che dovrebbero a quel punto vedere in questa Unione Europea il vero nemico che sta sbranando la Costituzione nata dalla Resistenza e le condizioni di vita della maggioranza della popolazione.

 

In modo chiaro, come spesso avviene, il problema è posto dal quotidiano di Confindustria, IlSole24Ore. Che ha molti motivi per temere i prossimi mesi.

 

 

 

 

 

La tempesta è dietro l’angolo

 

di Adriana Cerretelli

 

Sta per finire in Europa l’estate della stabilizzazione della paura: niente sorprese o strappi clamorosi, nessun evento drammatico sui mercati. Calma piatta in attesa del 22 settembre, delle elezioni tedesche che hanno fermato ogni alito di vento nell’eurozona. Dove emergono timidi segnali di ripresa economica: fragili, esposti ai sussulti della politica, ha avvertito l’altro ieri il presidente della Commissione Ue José Barroso. Comunque segnali.

 

Potrebbe allora diventare travolgente la tentazione di tirare i remi in barca, di dimenticare la crisi e con essa i sacrifici per uscirne risanati risanando l’euro.
Il dietro-front sarebbe un errore fatale, una mossa suicida per tutti. Ma soprattutto per l’Italia, la terza economia dell’eurozona che presto potrebbe ritrovarsi al centro di una tempesta quasi perfetta.
Perché resta la grande maglia debole della catena (insieme alla Francia che però continua, per ragioni politiche, a godere della speciale protezione tedesca) ma al tempo stesso è il paese la cui fattiva cooperazione è indispensabile per riportare fiducia e stabilità durature nell’unione monetaria.
Perché, nonostante le nostre dimensioni e il nostro mega-debito, siamo l’unico paese dell’arco mediterraneo che finora è riuscito a sfuggire alla gabbia dell’amministrazione controllata europea. All’irruzione della famigerata “troika”.
Finita la tregua elettorale tedesca, formato il nuovo Governo a Berlino, potrebbe arrivare il momento della resa dei conti europei, del brutale richiamo all’ordine dell’Italia. Per la quale la strada del rigore nei conti e delle riforme strutturali non è un “optional” ma un obbligo ineludibile, che peraltro coincide con l’interesse nazionale prima che europeo.

 

Da giorni se ne avvertono i sintomi nell’aria. Lo confermano due nuovi avvertimenti arrivati ieri. Dalla Bce che, nell’ultimo bollettino mensile, esprime forti e chiari i timori di uno sfondamento a fine anno dell’obiettivo di contenimento del nostro deficit (2,9%), visto che il fabbisogno cumulato a fine luglio ha toccato i 51 miliardi (3,3%) contro i 28 del 2012. E dai mercati di nuovo nervosi, con lo spread che torna a crescere insieme ai rendimenti dei BTp.
Si prepara la riedizione del copione novembre 2011? La cronica instabilità politica rema contro decisioni che si impongono non solo per rispettare tabella di marcia e impegni europei ma per avviare davvero le riforme strutturali indispensabili per recuperare competitività e potenziale di crescita, i due pilastri in grado di assicurare la sostenibilità del nostro debito.
Finora si è fatto qualcosa sui conti ma non abbastanza, come denuncia la Bce, e non abbastanza sui tagli alla spesa pubblica. Poco o nulla invece sulle riforme. Che però sono diventate anche in Europa lo spartiacque per il rilancio economico, ora che anche a Nord va affermandosi l’autocritica sui danni prodotti dall’eccesso di austerità.
Con queste premesse, una caduta del Governo avrebbe conseguenze catastrofiche. Sia perchè, come ha messo in guardia il presidente del Consiglio Enrico Letta, avrebbe costi pesantissimi per imprese e famiglie italiane sia e soprattutto perché sarebbe quasi certamente l’anticamera del nostro ingresso nel club dei paesi a sovranità ufficialmente limitata.

 

«La Troika entra in un paese quando la sua classe politica ha fallito» sottolinea a Bruxelles qualcuno in contatto quasi quotidiano con le troike che di questi tempi si aggirano infaticabili tra Atene, Lisbona, Dublino e Nicosia.
È un modo indiretto per dire che nell’unione monetaria o i conti e i debiti, “fiscal compact” insegna, si mettono a posto decidendo da soli ma decidendo davvero, o le riforme si fanno ma sul serio oppure ci sarà qualcun altro, la Troika appunto, a farlo per noi. A quel punto, senza guardare in faccia a nessuno. Non è uno spauracchio teorico, è la realtà quotidiana dei paesi sotto programma.
L’Italia è «too big to fail». Per questo, da quando si è deciso che l’integrità dell’euro va difesa a tutti i costi, la questione italiana è diventata l’incubo inconfessato dei nostri partner. Le elezioni tedesche ci hanno concesso alcuni mesi di respiro in più: non ne abbiamo fatto il miglior uso, sprofondati come sempre nella cieca e sterile litigiosità della nostra classe politica. Il tempo è scaduto.
Potremmo presto pagare carissima l’insipienza collettiva. Salvo un soprassalto di intelligenza e volontà concreta , di cui per ora non si vede traccia. Oggi a Vilnius, alla riunione dei ministri finanziari dell’Eurogruppo, Fabrizio Saccomanni quasi certamente finirà sotto il torchio. Dovrà essere molto convincente nelle rassicurazioni. E poi nelle azioni del programma di stabilità di metà ottobre. Perché nel nord Europa e in particolare in Germania si respira la voglia matta di dormire sonni più tranquilli costringendo l’Italia sulla retta via. Una volta per tutte, con le buone o con le cattive. Paese avvisato…

 

*****

 

Non voltate le spalle all’Europa

 

di José Manuel Durão Barroso

 

 

Tra otto mesi, in occasione delle elezioni del Parlamento europeo, gli elettori dell’Unione europea saranno chiamati a giudicare quanto abbiamo realizzato negli ultimi cinque anni. Sono stati anni segnati dalla crisi economica: cinque anni fa il governo Usa nazionalizzava Fannie Mae e Freddie Mac e Lehman Brothers falliva. Ma l’Europa ha saputo battersi. Stiamo riformando il settore finanziario in modo da mettere al sicuro i risparmi dei cittadini; abbiamo reso più fluida la concertazione tra i governi.

 

Abbiamo migliorato le procedure per risanare le finanze pubbliche e modernizzato le economie nazionali; abbiamo mobilitato oltre 700 miliardi per salvare i Paesi più colpiti dalla crisi. Per l’Europa la ripresa è all’orizzonte. Stando ai dati e all’andamento, abbiamo buoni motivi per essere fiduciosi. Ciò che conta è capire cosa fare di queste realizzazioni: vogliamo andarne fieri e proseguire l’opera o sottovalutare i risultati dei nostri sforzi? La mia risposta è chiara: quanto realizzato dovrebbe spingerci a proseguire lo sforzo.
Continuiamo a lavorare insieme per riformare le economie e rilanciare crescita e lavoro. Dobbiamo dare forma all’Unione bancaria. Solo così garantiremo che, quando falliscono le banche, non siano i contribuenti a farne le spese e contribuiremo a ripristinare la concessione di prestiti all’economia, soprattutto alle piccole imprese, visto che il credito non circola ancora come dovrebbe. La cosa più importante in questo momento è favorire la crescita in modo da scongiurare il rischio di una ripresa senza occupazione. È per questo che dobbiamo rimuovere gli ostacoli che frenano il dinamismo dei cittadini e delle imprese, in modo da sfruttare appieno le potenzialità del mercato unico. Per questo stiamo spingendo per realizzare un mercato unico delle telecomunicazioni, che riduca i costi di roaming per i consumatori. Investiremo di più nell’innovazione e nella scienza e punteremo sulle competenze, l’istruzione e la formazione per sostenere i talenti. Presenteremo ulteriori proposte per una politica industriale adatta al XXI secolo, apriremo nuove opportunità commerciali, promuoveremo le nostre priorità in materia di cambiamento climatico e esamineremo le ricadute dei prezzi dell’energia sulla competitività e sulla coesione sociale. Lo dobbiamo a tutti coloro che ancora non intravedono la ripresa, ai nostri 26 milioni di disoccupati: il livello attuale di disoccupazione è economicamente insostenibile, politicamente inammissibile e socialmente intollerabile.

 

In un momento come questo di esile ripresa, il rischio peggiore è ai miei occhi una ricaduta politica: spetta ai governi assicurare la certezza e la prevedibilità che mancano ancora ai mercati. La costanza è il fattore più importante.
C’è chi sostiene che un’Europa più debole renderebbe più forte il proprio Paese, che l’Europa è un peso di cui sarebbe meglio liberarsi. La mia risposta è chiara: abbiamo bisogno di un’Europa unita, forte e aperta. Naturalmente, come ogni impresa umana, l’Unione europea non è perfetta. La questione di fondo di fondo dunque è: vogliamo migliorare l’Europa o vogliamo rinunciare? La mia risposta è chiara: se non vi piace questa Europa, rendetela migliore! Trovate il modo per rafforzarla, al suo interno come sulla scena internazionale. Ma non voltatele le spalle. L’Europa deve intervenire solo quando può apportare valore aggiunto. Esistono però settori particolarmente importanti in cui l’Europa deve essere più integrata e più unita, settori in cui solo un’Europa forte può ottenere risultati. Per questo motivo ritengo che l’unione politica debba essere il nostro orizzonte politico.

 

Il prossimo anno ricorrerà il centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale. Il premio Nobel per la pace che abbiamo ricevuto nel 2012 ci ricorda che l’Europa è un progetto di pace. A coloro che esultano per le difficoltà dell’Europa e vorrebbero annullare l’integrazione e tornare all’isolamento, voglio dire oggi: l’Europa delle divisioni, della guerra, delle trincee non è ciò che i cittadini si aspettano né si meritano. Il continente europeo non ha mai goduto di una pace così duratura come da quando è nata la Comunità europea. In questo periodo che precede le elezioni del Parlamento europeo possiamo raccogliere le sfide solo se rafforziamo il consenso sui nostri obiettivi fondamentali. Sul piano politico l’Unione deve rimanere un progetto per tutti i suoi membri, una comunità di pari. Sul piano economico e sociale dobbiamo integrare gli sforzi nazionali con la responsabilità e la solidarietà europee. E dobbiamo salvaguardare i nostri valori, come lo Stato di diritto.
La polarizzazione generata dalla crisi mette a rischio il progetto che ci unisce. Il problema che vi pongo è: quale l’immagine dell’Europa sarà presentata agli elettori? La versione autentica o la caricatura? Il mito o la realtà? La versione sincera e ragionevole o quella estremista e populista? La differenza non è da poco. Tra otto mesi gli elettori decideranno. Ora spetta a noi difendere l’Europa.
José Manuel Durão Barroso è presidente della Commissione europea

 

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