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Federal Reserve, cambio nella continuità

L’amministrazione Obama non riesce a risolvere ancora il braccio di ferro sull’innalzamento del “tetto del bilancio federale”, che ha aperto da otto giorni uno “shutdown” pericoloso (hanno momentaneamente chiuso una serie di “servizi non essenziali”, come i parchi nazionali, la Statua della libertà, ecc). Ma ha almeno deciso chi succederà a Beb Bernanke alla guida della Federal Reserve quando – a febbraio – arriverà a scadenza del suo mandato.

La scelta, come ampiamente previsto dopo il ritiro del concorrente, Lawrence Summers, è caduta di Janet Yellen, prima donna nella storia a ricoprire il più delicato degli incarichi istituzionali statunitensi. Ciò che la Federal Reserve fa, infatti, è un punto di riferimento fisso per il mercati finanziari internazionali; e ogni mossa, giusta o sbagliata che sia, determina molto in termini congiunturali.

Yellen ha sempre lavorato all’interno della Fed, anche se per un periodo ha insegnato a Berkeley. Ha fama di essere anche più “espansiva” di Bernanke, sul piano monetario. Ma al tempo stesso le sue previsioni sono considerate tra le più attente e attendibili nel panorama del settore.

Il passaggio di consegne avviene in un momento molto delicato della gestione della crisi da parte degli stati Uniti. Da un anno, infatti, la Fed sta comprando titoli e mutui che non hanno più un prezzo sul mercato, “regalando” perciò 85 miliardi di dollari al mese alle società finanziarie o alle banche che vogliono liberarsene. Un’operazione di “lavanderia” della motagna di titoli tossi presenti nelle casseforti delle banche, che paradossalmente – ma non troppo – ha migliorato gli stessi bilanci della Fed. Solo per i fatto di essere stati “acquistati”, infatti, quegli stessi titoli si sono momentaneamente rivalutati.

Ma ogni “invenzione” finanziaria deve avere un termine, altrimenti si rovescia nel suo contrario. Ben Bernanke, pertanto, aveva già annunciato una “riduzione di ritmo” negli acquisti di titoli tossici. E i mercati non avevano reagito benissimo. Per ora il ritmo non è cambiato, e ci si aspetta che in questi ultimi quattro mesi di presidenza Bernanke comincerà a diminuire questo titpo di “iniezione di liquidità”. Poi sarà la Yellen ad andare avanti. I timori sono ovviamente molti, perché una riduzione troppo veloce o troppo lenta avrebbe conseguenze “sistemiche” comunque rilevanti.

In ogni caso, il ritiro di Summers – considerato “troppo politico” e poco “economista” per essere stato segretario del Tesoro con Bill Clinton, responsabile tra l’altro dell’abolizione del Glass-Steagall Act (che separava le banche di investimento da quelle commerciali) – consegna la Fed alla più rigida continuità di gestione.

Il problema è sela crisi “starà al gioco” oppure prenderà strade al momento imprevedibili. Magari proprio a partire dallo shudown “politico”. Siamo infatti entrati nella seconda settimana di blocco e sono risultate troppo ottimistiche le previsioni che lo davano per “impossibile” o limitato a sole 24 ore. I repubblicani hanno rinunciato alla condizione più “ricattatoria” (abolire la riforma della sanità, che è l’unica innovazione “sociale” realizzata da Obama, entrata in vigore proprio il 1° ottobre); ma puntano ora a concessioni in termini di budget e tagli alla spesa. Una possibile soluzione che eviti la trasformazione dello shutdown in vero e proprio default (con gli Stati Uniti nell'”impensabile” situazione di non poter far fronte ai propri impegni finanziari, a cominciare dalle scadenze dei titoli di stato) esiste ed è già stata usata: un accordo di breve periodo (due o tre mesi), che permetta di far ripartire per intero la macchina mentre i due partiti cercano un accordo più complessivo.

Wall Street, soprattutto, sembra prendere con molta calma il mancato accordo. Contrariamente alle previsioni della vigilia, che davano i mercati in fibrillazione. La ragione è abbastanza trasparente: svendere adesso titoli sarebbe un danno, perché l’accordo può arrivare in qualsiasi momento e stimolare un “rimbalzo” improvviso. Quindi tutti si tengono ancora stretto quel che hanno. Ma è proprio questa calma dei mercati a non aver “drammatizzato” lo scontro tra democratici e repubblicani; i quali, in fondo, non si sentono così “costretti” a cercare un compromesso puchessia nel più breve tempo possibile.

In ogni caso, questo episodio segnala che anche la “classe politica” statunitense è arrivata a un punto di rottura.

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