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La competizione intraeuropea si fa sul salario

Te la dò io l’Unione Europea… La costruzione “comunitaria” fa acqua da tutte le parti, nonostante – o forse a causa di – politiche di bilancio centralizzate, oltre che di “direttive” e “raccomandazioni” decisamente puntigliose.

In teoria, avrebbero dovuto creare un mercato paritario, in cui le imprese venivano “stimolate” a competere migliorando le proprie capacità di innovazione (di prodotto e di processo). Nella realtà la guerra “competitiva” è stata trasferita integralmente sui salari.

Un esempio plastico arriva dall’indagine Accessor (Atypical contracts and cross-border european social security obligations and rights) promossa dall’Inca-Cgil. «L’asimmetria tra lavoratori standard e lavoratori atipici fa sì che questi lavoratori siano discriminati tre volte. Hanno redditi bassi e precari quando lavorano, sono scarsamente coperti dai sistemi di sicurezza sociale quando restano disoccupati, perdono una parte dei loro diritti quando si spostano in un altro stato Ue».

La notizia vera è un’altra, però: è l’aumento inverecondo dei contratti “atipici” in tutti i paesi europei, non soltanto in quelli “piigs”. La Germania aveva iniziato un po’ dopo l’Italia del “pacchetto Treu” (1997), con lo Schroeder dell'”Agenda 2010″ (varata nel 2000), che introduceva i mini-job a salario stracciato (400-500 euro), ma integrati con ammortizzatori sociali pubblici.

Le forme di “contratto non standard” sono aumentate dappertutto: Regno Unito, Germania, Svezia, Spagna, Italia, Belgio, Slovenia e Francia. E questo ha innescqato un esodo silenzioso ma di dimensioni bibliche, con grandi quantità di giovani in cerca di “occasioni migliori” fuori dal proprio paese, ma dentro l’Unione Europea.

Qui scatta la seconda tagliola, basata sulla “cittadinanza nazionale”, che fa ricadere queste orde di ragazzi lavoratori sotto regimi di welfare molto diversi tra loro, ma dappertutto in via di smobilitazione.

L’Europa ha infatti programmaticamente rinunciato a qualsiasi forma di armonizzazione sociale fra le diverse legislazioni. Le regole che dovrebbero garantire la protezione sociale e la libera circolazione «sono di fatto inapplicabili a una schiera crescente di lavoratori atipici e precari».

Nel 2005 soltanto un lavoratore su quattro era impiegato con un contratto di lavoro atipico o senza contratto. La crisi fatto esplodere soprattutto questa condizione. Eurostat calcola in 9 milioni i lavoratori con contratto inferiore a 6 mesi, quasi tutti sotto i 40 anni.

L’Italia guida questa classifica della svalutazione del lavoro. Oltre il 60% dei contratti stipulati negli ultimi anni sono stati a tempo determinato. In Svezia, soltanto uno su sei. La Francia ha visto sestuplicare i contratti a tempo determinato in meno di trent’anni, oltre al “lavoro in affitto” e i “tirocinii”. In Germania impazza il tirocinio gratuito (per oltre metà dei giovani) o insufficiente a sopravvivere. Nel paese leader economico dell’Unione, circa 9 milioni di lavoratori sono “atipici”; ancora un po’ e saranno maggioranza, così gli “atipici” diventeranno quelli con contratto a tempo indeterminato.

Si tratta di una condizione sfavorevole che colpisce, come sempre, soprattutto le donne, in qualsisi paese preso in esame.

«Pur nella loro varietà, i contratti atipici hanno molte cose in comune: minore sicurezza del posto di lavoro, stipendi più bassi e discontinui, meno opportunità di formazione e di carriera, condizioni di salute peggiori, minori diritti sindacali». Non basta. La copertura per le indennità di disoccupazione non vale, in genere, per gli “atipici”. E in prospettiva una “pensione decente” resta per tutti costoro poco più di un sogno.

Questa è la “competitività” che piace all’Unione Europea: una gara a chi diventa più povero, disponibile, silenzioso.

 

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