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La Cina vola verso il “primo posto” globale

Partiamo dalla notizia di stamattina. Dice l’Ansa: “Le esportazioni della Cina sono cresciute in ottobre del 5,6% su base annua, superando le previsioni degli economisti. Le importazioni sono cresciute ad un ritmo superiore, il 7,6%, provocando una riduzione dell’ avanzo commerciale di Pechino del 3,3%. In cifre assolute il surplus della Cina sul resto del mondo e’ pari a 31,1 miliardi di dollari. Nel loro complesso, i dati indicano che la salute della seconda economia del mondo è migliore di quanto si pensasse”.

Poi chiediamoci cosa accade e perché. Intanto notiamo che i due numeri relativi a import ed export segnalano un processo opposto a quello propagandato dagli “isolazionisti” nostrani (come il Tremonti di qualche anno fa): le importazioni cinesi crescono molto più delle esportazioni, segno che l’attuale fase di crescita dell’economia di quel paese è trainata dal “mercato interno” (investimenti, consumi, ecc) e non dalle esportazioni (il “modello mercatilista” che caratterizza in questo momento la Germania, distruggendo di fatto sia il mercato interno che la competitività europea).

Di conseguenza, il surplus cinese si va riducendo, in direzione di un “equilibrio” della bilancia commerciale che dovrebbe far invidia sia a chi soffre dello squilibrio opposto, sia a chi (Bundesbank e Merkel, in primo luogo) vede proprio nell’aumento perenne del surplus il segno della “salute economica” invece che, come si dovrebbe, della malattia.

La seconda cosa da notare è che questa corsa è trainata dagli investimenti, non dalla riduzione del costo del lavoro. Vero è che il salario medio cinese era una frazione infinitesima di quelli europei o statunitensi, trent’anni fa; ma da allora è cresciuto a un ritmo del 15% annuo, tirando fuori dalla povertà la maggioranza assoluta della popolazione e avvicinandosi molto agli standard dei paesi più avanzati.

Non ci credete? Colpa dell’informazione di cui vi nutrite, ormai ideologia allo stato puto. Vediamo cosa diceva IlSole24Ore due giorni fa a proposito di “prospettive di inserimento” di lavoratori che emigrano in un altro paese, stilando una classifica insospettabile:

Sul gradino più alto del podio, Pechino. Può sorprendere che il gigante asiatico, con i suoi deficit democratici e tassi da allarme su inquinamento dell’aria e sicurezza del cibo, scavalchi le più prevedibili Germania e Svizzera nella graduatoria dei paesi “expat friendly”, a misura di espatriato. Il dominio della Cina sta tutto nella chance professionali, amplificate rispetto a qualsiasi concorrente europeo o nordamericano. Il 41% degli emigrati si ritiene “più soddisfatto” dell’ambiente lavorativo. Quasi tre intervistati su cinque (il 59%), segnalano un rialzo di scatti di carriera, retribuzione ed eventuali benefit. Lo confermano i numeri: il 10% di emigranti qualificati guadagnano dai 250mila dollari in su all’anno. Non è un caso che “career” sia al centro di qualsiasi indagine sul prima e il dopo dei curricula inviati nella nazione più popolosa del mondo. La Cina investe soprattutto sull’immigrazione ad alto tasso di competenze, intercettando talenti in fase di formazione e professionisti intralciati dallo stallo del ricambio generazionale. I principali bacini di immigrazione high skills sono Regno Unito (20%), Stati Uniti (46%), Hong Kong (8%) e Russia (3%). Tra le branche di occupazione più richieste svettano educazione e insegnamento (25%), costruzioni, manifatture e servizi (17%), management, consulenza, marketing, pubbliche relazioni (11%). Un “expat” su due non ha ancora compiuto 34 anni (53%), due su cinque viaggiano tra 35 e i 54 (41%). Tra i generi, il primato è rosa: 61% di emigrate donne contro il 39% dei colleghi di sesso maschile.

Sul piano strutturale, invece, nelle stesse ore il Corriere della sera spiegava (ai pochi che arrivano a leggere le sue pagine economiche, scavalcando a pie’ pari quelle dedicate a Berlusconi-Letta-Renzi e compagnia di giro): “La Cina verso il sorpasso sull’America”. Ma come? Avevano scavalcato l’Italia solo qualche anni fa…

Il calcolo da fare non è sul Pil conteggiato in dollari, ma “a parità di potere di acquisto”, come spiega l’ottimo Danilo Taino:

Secondo calcoli condotti sulla base di una nuova elaborazione statistica effettuata da un organismo che lavora sotto l’egida della Banca mondiale, alla fine del 2013 il Prodotto interno lordo (Pil) cinese dovrebbe essere attorno ai 16.400 miliardi di dollari: quello degli Stati Uniti a poco meno di 16.200.

L’organismo in questione – l’International Comparison Program (Ipc) – è una partnership statistica internazionale che periodicamente effettua uno studio ponderoso sulle parità di potere d’acquisto: in sostanza conteggia beni e servizi prodotti in ogni Paese usando lo stesso prezzo, immaginando che un telefono cellulare o una manicure abbiano lo stesso valore in Cina, in Italia, in Brasile. Usare questo metodo «invece dei tassi di cambio di mercato – spiega l’Ipc – rende possibile paragonare la produzione delle economie e il welfare dei loro abitanti in termini reali (cioè controllando le differenze nei livelli di prezzo)».

Il problema è che a livello internazionale c’è una certa insoddisfazione per lo studio Ipc realizzato nel 2005, sul quale si basano le principali classifiche dei Pil: parecchi esperti sostengono che ha sopravvalutato il livello dei prezzi in Cina, con ciò abbassando il Pil del Paese di circa il 20% (nel caso di altre economie emergenti come India e Bangladesh anche del 40%). Ora, l’Ipc sta conducendo un nuovo studio che tiene conto di quelle critiche.

I risultati saranno presentati in dicembre. Branko Milanovic, un lead economist della Banca mondiale, sostiene che, sulla base dei risultati preliminari, «si ritiene che il nuovo round dell’Ipc rovescerà in una certa misura, per quel che riguarda la Cina, i risultati del 2005. Questo implica che il Pil della Cina può all’improvviso fare un balzo di qualcosa come il 20%». Significa che, con i nuovi numeri, il Pil cinese in termini di parità di potere d’acquisto del 2012 (dato Fondo monetario internazionale, Fmi) passerebbe dagli attuali 12.471 miliardi di dollari a 14.965. Che si confronta con quello americano di 15.685 miliardi di dollari. Se si suppone che quest’anno l’economia cinese cresca, sempre a parità di potere d’acquisto, del dieci per cento e quella americana del tre, risulta che Pechino potrà segnare sulla lavagna circa 16.460 miliardi di dollari di Pil, Washington qualcosa tra i 16.150 e i 16.200.

Le statistiche sul valore comparato dei Prodotti lordi internazionali variano parecchio proprio perché trovare dati paragonabili in tutti i Paesi è complicato. Classifiche usando il Pil di ogni Paese in valuta locale non si possono fare, essendo le unità di misura diverse. Quando invece i Pil vengono espressi in una sola valuta – di solito il dollaro – tutto viene distorto dai tassi di cambio, che possono anche avere variazioni consistenti di anno in anno. In più, non si tiene mai conto che un taglio di capelli o il famoso Big Mac hanno valori diversi in ciascun Paese. Con questo metodo, il Pil americano del 2012, per dire, sarebbe stato quasi doppio rispetto a quello cinese: 16.244 miliardi contro 8.221 (ancora dati Fmi). Confrontare i Pil sulla base della parità di potere d’acquisto sembra dunque più corretto, se si vuole avere un raffronto realistico della dimensione delle economie: in questo modo, le differenze sono differenze di volumi di beni e servizi.

Anche se la revisione che sta conducendo l’Ipc non avvenisse, il sorpasso della Cina all’America non sarebbe comunque lontano. Se ci si basa sulle tabelle dell’Fmi e sui ritmi di crescita previsti dal Fondo stesso, avverrebbe nel giro di un paio d’anni anche considerando i valori delle parità di potere d’acquisto calcolati nel 2005. Sulla base dei dati Penn World Tables della Pennsylvania University, invece, Milanovic ha calcolato che il sorpasso avverrebbe tra circa un anno. Secondo il Maddison Project, che cerca di ricostruire a ritroso i Pil mondiali (e non usa i valori Ipc del 2005) sarebbe addirittura già avvenuto nel 2009.

Messi in politica, i dati pongono una sfida non da poco a Washington. E una forse più grande, in termini di responsabilità globale, ai leader comunisti riuniti a discutere di economia nello smog da crescita di Pechino.

Ci siamo, insomma. Il declino degli Usa come unica potenza egemocica globale è roba di oggi, al massimo di domattina, non di un lontanissimo futuro. Se poi aggiungiamo ai calcoli gli effetti di una crescita di produttività media nell’ordine di un 15% annuo, vediamo che il sorpasso che sta avvenendo riguarda una macchina di F1 alle prese con un trattore…

Perché qui da noi – Usa ed Europa – il capitale investe sempre meno (leggetevi questo rapporto Kairòs, per molti versi illuminante:

Quando si parla dunque di “calo della produttività” bisogna guardare a quello che fanno le imprese, non a quanto lavorano i dipendenti. E’ infatti probabile – sicuro – che questi stiano “al chiodo” anche 12 ore al giorno, ma con una “produttività” bassissima perché impegnati su macchinari obsoleti o addirittura su nessun macchinario. Sono dunque gli investimenti a trainare la “produttività” (l’aumento nell’estrazione di “plusvalore relativo”), che batte sempre la semplice estensione dell’orario di lavoro a parità di salario.

Insomma: il capitale “occidentale” ha avuto tutto quel che sognava e si è seduto sugli allori, cercando rendimenti alti, su tempi brevi e senza grande sforzo (si è concentrato sulla finanza invece che sull’economia reale); quello “orientale” – la Cina è solo il paese dove il modello funziona meglio – ha fatto il contrario ed ora galoppa alla grande.

Non è una dichiarazione di “schieramento”. Il capitalismo è uno, i capitali molti; quando il sistema va in crisi, come oggi, alcuni sopravvivono meglio o più a lungo di altri. Per un po’ di tempo, però…

 

 

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