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Deflazione europea, un “successo” della Troika

Ci sono fantasmi e fantasmi. Quello del comunismo, evocato da Marx nel celebre incipit dei Il Manifesto, racchiudeva in una sola immagine tutta l’ansia e la speranza di riscossa degli sfruttati; ed era anche, ovviamente, un’immagine “minacciosa” per i potenti.

 

L’articolo che qui sotto vi proponiamo, ripreso da IlSole24Ore, organo di Confindustria, parla di uno spettro triste e macilento, chiamato deflazione, che sta colpendo l’Europa – i suoi paesi più deboli, per primi – ma viene considerato un “successo” dalla Troika. Speranze zero, solo garanzie di sofferenza più elevata.

 

L’articolo però è disperatamente chiaro e chiarificatore. La Troika, l’Unione Europea, il monetarismo idiota che domina nelle scelte di politica fiscale e finanziaria, nonché sulle “riforme strutturali” raccomandate o prescritte dai maggiorenti della Ue-Bce, stanno affrontando la crisi globale con una sola intenzione: usare la deflazione per “sgonfiare” prezzi e salari. Impoverire tutti per avere “migliori condizioni di competitività internazionale”. Una volta – con le “monete nazionali” battute da stati sovrani – si sarebbe potuta usare la “svalutazione competitiva” della moneta. Si sarebbero pagate un po’ di più le merci importate, alimentando un po’ di inflazione e richieste di aumenti salariali (sempre in ritardo rispetto all’aumento dei prezzi), ma in compenso si conquistava così più spazio per le proprie esportazioni.

 

Con l’euro questa possibilità p venuta meno. O meglio: non è più possibile che una svalutazione monetaria sia perseguita da un singolo Stato dell’eurozona. Potrebbe farlo solo la Bce, come del resto fanno Federal Reserve statunitense e Banca del Giappone (Boj), alla guida delle due aree monetarie direttamente concorrenti dell’euro (in realtà sta diventando molto più potente lo yuan cinese, ma lì c’è una politica economica complessiva molto “pensata”, senza badare alle teorie neoliberiste). Ma la Bce non ha nel suo Statuto costitutivo il compito di “sviluppare l’occupazione” (come è per la Fed); né dipende dalle scete del governo (come avviene per la Boj). Quindi la Bce segue i manuali di teoria monetarista e semplicemente si adatta alle circostanze, cercando di far fronte alle situazioni impreviste con “mezzi non convenzionali”, che tra l’altro fanno sollevare il sopracciglio critico di Bundesbank.

 

Dato questo blocco operativo, l’unica “svalutazione competitiva” possibile resta quella di prezzi e salri interni. Ridurre gradualmente le popolazioni alla fame diventa “virtuoso” sul piano della competizione globale. I lavoratori accettano qualsiasi salario pur di avere un lavoro, i disoccupati premono ai cancelli delle fabbriche (o alle porte degli uffici), la precarietà contrattuale si estende a tutti i settori e diventa l’unica via per accedere – eventualmente – al “mondo del lavoro”, le famiglie contraggono i consumi fino all’osso e oltre, la conflittualità ordinaria scompare e per quella “eccedente” si chiama la polizia…

 

E tutto questo viene considerato “positivo” nei cieli di Bruxelles, Francoforte, New York.

 

Ma c’è sempre un “ma”. In economia non si controllano mai tutte le variabili dall’inizio alla fine; specie in un sistema globale complesso, con una molteplicità di attori – tra cui alcuni molto potenti e con interessi uguali ma opposti – e strategie “multipolari” assai differenti. Dunque c’è un rischio: che la deflazione “desiderata” diventi “eccessiva”, ripercuotendosi sulle imprese e la stessa profittabilità degli investimenti produttivi.

 

Il Giappone, come ricorda giustamente Sorrentino, ha perseguito l’identica politica oltre venti anni fa. E ha sofferto per altrettanto tempo di una deflazione che ne ha distrutto la capacità di “crescita”. E nemmeno adeso, dopo quasi un anno di “iniezioni di liquidità” da 70 miliardi al mese, riesce ad uscire dalla deflazione. Paradossalmente, ha avuto un effetto più positivo il terremoto e lo tsunami di Fukushima – distruzione/ricostruzione – che non l’allentamento parossistico dell’espansione monetaria.

 

Cosa accadrà all’Europa, dunque? Se le popolazioni resteranno sostanzialmente calme, la situazione peggiorerà anche molto velocemente. Solo una durissima e potente richiesta di drastici aumenti salariali, investimenti pubblici (quelli privati non esistono praticamente più, almeno in Italia), welfare, potrà far invertire una tendenza al “declino” che rappresenta un “affare” soltanto per il capitale finanziario in eccesso.

 

 

 

 

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Uno spettro si aggira per l’Europa

 

Riccardo Sorrentino

 

La regola è sempre la stessa. Quando si parla di prezzi, in rialzo o in calo, occorre guardare lontano. Perché quando le tendenze si manifestano, è troppo tardi.
L’inflazione di Eurolandia di ottobre, allo 0,7%, può allora essere messa un po’ tra parentesi. Se c’è un rischio deflazione – ed esiste, anche se non è alto – non è quello “il” segnale d’allarme. Il dato ha sorpreso tutti, ma molti fattori statistici disturbano in questa fase l’andamento dell’indice. Quel che occorre valutare sono invece le aspettative. Conta più quanto i lavoratori e le imprese pensano possa essere l’inflazione tra uno-due anni che il caro vita attuale: sono le attese del futuro che guidano le decisioni di oggi su salari e prezzi.
Per la Bce le aspettative sono «ben ancorate», ma è difficile che una banca centrale possa dire altrimenti: significherebbe riconoscere un fallimento. Qualcosa in realtà si sta già muovendo, nelle attese. «Le misure sulle aspettative di inflazione hanno iniziato a puntare verso il basso», spiega il team di Laurence Boone alla Bank of America Merrill Lynch. È la stessa opinione di Thomas Hayes di Barclays che guarda al lungo periodo e sottolinea però come il fenomeno non sia così drammatico come il dato di ottobre lascerebbe pensare.
La Bce, quindi, non sarebbe in ritardo rispetto agli eventi. Fa bene però a restare vigile. Se si guarda infatti ai singoli paesi, sorprenderà un po’ vedere non solo l’inflazione italiana allo 0,7%, registrata in un mese in cui è aumentata l’Iva, ma anche lo 0,1% della Spagna, e a settembre il -1% della Grecia, lo 0,3% del Portogallo e lo zero dell’Irlanda, dopo 22 mesi di prezzi in calo.
Non si tratta semplicemente della crisi che morde con intensità differente i diversi paesi. È l’equivalente della svalutazione (non a caso definita svalutazione interna). Un tempo la peseta, la dracma, la lira avrebbero perso terreno. Oggi, con la moneta comune, e quindi i cambi fissi, si raffreddano, relativamente a quelli dei partner, i prezzi e i salari.
Per gli economisti, e presumibilmente per la Bce, è un fenomeno persino positivo: è una forma di riequilibrio tra le economie di Eurolandia, considerata necessaria anche se molto dolorosa per tutti: anche per le imprese, che spesso vedono ridursi i margini.
Il problema è che le cose possono sfuggire di mano. «Pensiamo – spiega Boone – che la Bce possa iniziare a preoccuparsi se le flessioni di prezzi e salari cominciassero a estendersi dalla periferia ai paesi core di Eurolandia». Non è detto infatti che i paesi più solidi, e soprattutto la Germania così orientata alle esportazioni, possano davvero reggere a questa pressione competitiva. Anche perché l’euro non aiuta, fuori Eurolandia: è a un livello più elevato della media di lungo periodo.
Non è, questo, uno scenario estremo: François Cabau di Barclays considera probabili ulteriori flessioni di un’inflazione altrimenti destinata a stabilizzarsi proprio per l’incapacità dei paesi core di assorbire tutte le pressioni provenienti dai partner.
È invece difficile che scatti davvero una spirale deflazionistica, una rincorsa dei prezzi verso il basso sia all’interno delle singole economie (se prevedo un costo della vita inferiore in futuro, aspetto a fare investimenti e acquisti importanti, come già accade in Grecia) sia tra i diversi paesi (se prevedo prezzi più competitivi dei concorrenti esteri, abbasso anche i miei).
Non è comunque un fenomeno impossibile. Partendo anzi da un’impostazione monetarista (rivista e aggiornata) e guardando alla quantità di denaro in circolazione, troppo lenta, Lars Christensen di Den Danske Bank non ha dubbi: «Eurolandia – dice – va verso la deflazione». Proprio come accadde, per anni, al Giappone.

 

 

 

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