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L’Unione Europea a rischio banche

 Le banche sono il cuore nero della costruzione dell’Unione Europea. Tutto ciò che le riguarda, per quanto ci sia odioso, ci riguarda direttamente. Il che richiede studio, attenzione alle informazioni quotidiane, soprattutto a quelle che istintivamente lasceremmo passare sotto il nostro occhio indifferente. E dunque ignaro di come cambia il contesto in cui camminiamo. Fino al primo fossato.

Vediamo cos’è accaduto in questi giorni e perché i giornali mainstream più importanti dedicano pensosi e pensati editoriali a un accordo per molti versi esoterico come quello sul “secondo pilastro della vigilanza bancaria”.

Il “primo pilastro” era stato costruito un paio di anni fa, con grandi conflitti tra Ue, Bce e Germania, e prevedeva il passaggio della “vigilanza bancaria” – appunto – dalle banche centrali nazionali a quella comunitaria, ora presieduta da Mario Draghi. La “vigilanza” è un controllo stretto sulla stabilità degli assetti patrimoniali di una banca, tra “attivi” e “passivi” e “sofferenze”, con un occhio critico anche sulla qualità degli asset detenuti (titoli di stato o societari), il rapporto tra riserve accumulate e attività (prestiti erogati alla clientela, imprese o famiglie).

Questa vigilanza, dal primo gennaio, verrà per ora esercitata dalla Bce soltanto sulle banche di “interesse sistemico”, ovvero quelle il cui eventuale fallimento costituirebbe un pericolo per l’intero equilibrio finanziario continentale (e quindi globale). Sono rimaste fuori per il momento le piccole banche, soprattutto quelle “territoriali” (landesbanken) su cui la Germania ha alzato le barricate a difesa. Si mormora perché queste costituirebbero spesso la “cassaforte” dei politici locali tedeschi (che siedono però nel Bundesrat, il secondo braccio “federale” del Parlamento teutonico); si ritiene, più fondatamente che invece proprio queste “banchette” siano quelle più esposte sul fronte dei “titoli tossici” (come i titoli di stato greci, per esempio, o i “derivati” impazziti che nessuno vuole). Come che sia, la Bce ha assunto in queste ultime settimane circa 1.000 teste d’uovo prelevate dalle migliori università economiche europee soltanto per affrontare questo nuovo compito.

Il “secondo pilastro” invece concerne il “che fare” quando qualche banca fallisce. Fin qui, e lo sappiamo bene, ogni banca è stata salvata dagli stati nazionali in cui hanno la base operativa e la maggior parte delle proprie attività. Ce ne siamo accorti, perché dall’inizio della crisi (2008) i cittadini europei hanno sborsato 500 miliardi a questo scopo: quasi 1.000 euro a testa, bambini e ultraottuagenari compresi.

I princìpi individuati per agire sono sostanzialmente due: a) la prima misura sarà in ogni caso un bail in, invece che un bail out; tradotto, significa che pagheranno in prima istanza gli azionisti della banca e quanti ne avranno acquistato le obbligazioni, ma in definitiva anche i correntisti – quelli che hanno depositato i propri risparmi – al di sopra del 100.000 euro; b) viene formato un “fondo di risoluzione comune”, alimentato dalle banche stesse, per far fronte alle situazioni irrisolte dal bail in.

Tutto giusto? Nemmeno in via teorica, figuriamoci sul piano pratico. Di fatto, questo accordo implica che “l’Europa” non c’è, non interviene in caso di fallimento. Ovvero: che non esiste un “impegno comune” tra tutti i paesi per far fronte alle emergenze. Perché?

Il problema, spiegano in molti, è che c’è ancora “troppo debito in giro”. Debito sia pubblico che privato, degli Stati (non solo Piigs) e dei privati (non solo delle banche). E finché non viene ridotto nessuno dei soggetti “forti”, come la Germania, accetta di farsi garante per perdite altrui. Anzi, le politiche suggerite dai “forti” per ridurre il debito difatto strangolano i più deboli, peggiorando la situazione e rendendo impossibile una soluzione.

Di più. Le stesse banche, e “i mercati” (di cui sono uno degli attori principali), stanno prendendo atto che “l’Europa non c’è”, tornando a privilegiare attività e territorio nazionale, in base alla facile previsione che un eventuale fallimento sarebbe certamente “coperto” dallo Stato-nazione, più che dalle istituzioni comunitarie “col braccio corto”.

Ma gli Stati – avendo perso con la moneta unica la possibilità di “aumentare la liquidità” stampando moneta supplementare – possono “salvare” (bail out) qualcuno solo ricorrendo al mercato finanziario, cioè emettendo titoli di Stato e aggravando così il debito pubblico che va a svuotare le tasche dei cittadini.

E nemmeno la Bce – che per statuto stupido non può fare praticamente nulla, tranne che “agire sui tassi interesse”, ormai a zero – può intervenire se non ricorrendo a “strumenti non convenzionali” (come l’acquisto di titoli di stato, teoricamente vietati dallo Statuto), per brevi periodi e in quantitativi limitati. L’unico strumento ancora a disposizione di Draghi sembra a questo punto il portare in “territorio negativo” il tasso di interesse corrisposto alle banche private che lasciano depositi rilevanti presso la Bce; se finora hanno accettato di non guadagnare nulla su quei depositi pur di avere la “sicurezza” di riaverli indietro, soltanto facendo pagare loro un prezzo per tener fermo così tanto “circolante” potrebbe convincerle a investirlo invece in “attività di rischio”. La stessa misura che, guarda caso, la Federal reserve statunitense si appresterebbe ad attuare se la liquidità immessa nel circuito – ben 85 miliardi di dollari al mese – non dovesse fluire dalle banche private all’economia reale. Bel casino quando anche le banche centrali cominciano a ragionare come un pensionato “cassettista”, vero?

Ma se persino le banche – il capitale finanziario è il soggetto più “internazionalista” che esista, al momento – è davvero difficile che possa restare “comunitario” tutto il resto. E i sintomi si stanno facendo sentire… La “rottura dell’Unione Europea” è nelle cose; e si tratta di un processo internazionale, non di una “fuoriuscita solitaria” a dispetto di tutti e tutti. Nessun populismo e nessun ritorno al “nazionalismo”, dunque; ma la ricerca di una soluzione a un crisi altrimenti mortale…

Come vedete, si tratta di informazioni decisive per ognuno di noi, perché ci cadono sulla testa e le intuiamo solo quando ne avvertiamo gli effetti. Ovvero troppo tardi. A maggior ragione sono decisive se si fa attività politica antagonista. Ma, purtroppo, non si tratta di informazioni reperibili girando per le strade…

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