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Tutti i fantasmi che assediano Davos

Davos scorre senza che qui si presti molta attenzione a ciò che laggiù matura. È un errore grave, naturalmente. Specialmente per chi, come la sinistra antagonista, dovrebbe prestare ai contenuti dei vertici globali almeno alltrettanta attenzione a quanto si muove nelle strade che frequenta.

Vediamo quindi cosa è venuto fuori dai primi giorni di seminari e “chiaccchierate” tra i “decisori” globali.

Intanto la cosa più vicina a noi: l’Europa non ha affatto “svoltato l’angolo”. Eppure era stata questa la certezza alla conclusione dell’appuntamento precedente, nel gennaio 2013. Allora si veniva dalla “grande paura” dell’estate 2012, quando chi partiva per le vacanze non era certo di trovare ancora l’euro – come moneta anche “nazionale” – al proprio ritorno. Tutto sembrava risolto con la frase pronunciata da Draghi in pieno agosto: “la Bce farà tutto ciò che è necessario; e vi assicura che sarà abbastanza”.

“I mercati” avevano capito subito e tradotto: “la Bce è pronta a fare da prestatore di ultima istanza”. Ovvero a coprire con liquidità “illimitata” eventuali voragini aperte da attacchi speculativi. Siccome il proverbio-totem degli speculatori finanziari recita “mai scommettere contro le banche centrali” (quelle potenti, almeno), sulla moneta unica era tornato a splendere il sereno.

Di qui l’ottimismo di Davos 2013. Anche se tutti sapevano, anche lì dentro, che prima o poi l’interrogativo sulla tenuta della costruzione europea sarebbe tornato a far capolino. Solo, non pensavano che sarebbe tornato così in fretta. Nessuna soluzione “strutturale” è stata né escogitata, né – tantomeno – messa in pratica; o almeno avviata. E della “debolezza europea” l’Italia costituisce da anni l’epicentro, con o senza governi “tecnici”. Anzi, proprio il “governo politico” benedetto dalla Trooika – Letta and Alfie – ha compromesso la credibilità conquistata a colpi di massacro sociale da mr. Mario Monti. La continuità nell’aggressione al mondo del lavoro e ai pensionati, l’approfondimento della precarietà e l’incremento della disoccupazione non sono stati accompagnati da un’analoga aggressività nei confronti della “spesa clientelare”, dei mille rivoli parassitari, né dell’”economia sommersa o illegale” che ormai rappresenta il 33,6% del prodotti interno lordo ma non paga un euro di tasse. E quindi i conti pubblici italiani, noostante i tagli vanno male. Anzi, la crisi “tricolore” si è trasformata in recessione perenne, vanificando in un attimo anche i sanguinosi “sacrifici” imposti ad una parte – ampiamente maggioritaria, ma già troppo povera – del paese.

“L’Europa è ancora impantanata”, ha sentenziato Kenneth Rogoff, economista ad Harvard ed ex capo economista del Fondo monetario internazionale. “Ci sono stati dei successi politici non trascurabili”, come la svolta sull’”unione bancaria”. Ma in prospettiva l’Europa è ancora frenata da una popolazione che invecchia, per tutelare la quale sta perdendo le giovani generazioni con una disoccupazione “inaccettabile”. La tesi è vecchia e soprattutto falsa, come sappiamo. Ma viene ripetuta ad libitum per dire che i governi nazionali debbono picchiare duro sul lavoro dipendente ancora attivo, sulle pensioni e sui salari; deovono “mettere per strada” milioni di persone in modo da costringere chiunque ad accettare qualsiasi lavoro per un qualsiasi (bassissimo) stipendio. Questa è la “via della ripresa” disegnata dalla Troika (quindi anche dal Fmi, in cui gli Stati Uniti hanno un grande peso): ripresa dei profitti, non certo dell’economia; sicuramente non dei salari.

Gran parte dei paesi del Vecchio Continente “sono ancora in recessione”. Hanno un problema “sistemico” con le banche che dovrebbe venir presto alla luce con i test Bce (che ha da poco assunto i compiti della “vigilanza bancaria”, in primo luogo sugli istituti di “dimensioni sistemiche”).

Soprattutto prima o poi “l’Europa” dovrà fare i conti con “il sovraccarico di debito” – sia pubblico che privato – che potrebbe richiedere persino “ristrutturazioni” del debito stesso. Ovvero perdite secche per azionisti, obbligazionisti, investitori e creditori. Senza questa volta poter sperare in “aiuti di stato”, visto come sono stati ridotti i conti pubblici grazie ai ripetuti salvataggi della banche.

Il problema è serissimo perché anche un’altra grande economia globale si trova in condizioni simili. Il Giappone, in deflazione da quindici anni e con un’economica stagnante, promette una svolta sulle riforme: aumenti salariali, ‘womenomics’ con un’ingresso massiccio delle donne nel mondo del lavoro (da cui è prevista una spinta del 16% alla crescita), liberalizzazioni. Con la promessa – fatta da Abe di fronte ai leader mondiali – di procedere “come una punta di trapano” contro le resistenze interne alle riforme. Fondamentalmente al costo del lavoro.

Anche Martin Sorrell, amministratore delegato del colosso pubblicitario inglese WPP, ha parlato di un’Italia che “rimbalza sul fondo”, una Spagna in ripresa ma con una disoccupazione enorme, il rischio di un mondo a due, dominato da Cina e Usa. La sua ricetta, rendere flessibile il mercato del lavoro, per superare la “tragedia” di una disoccupazione giovanile che viaggia verso il 50%. Come si vede: tutti fanno la stessa analisi e dannno la stessa “soluzione”. Nessuno si accorge – fanno finta di non sapere – che queste ricette sono state proposte a ttuate in modo selvaggio per almeno sei anni; ma la situazione è peggiorata. Anche perché, se tutti fanno stessa cosa – puntando a un modello di crescita “orientato alle esportazioni” – nessuno può sperare seriemente di migliorare la situazione grazie a “differenziali” significativi. In soldoni: se tutti voglio “esportare” e nessuno vuole “importare”, la tua produzione “in crescita” te la sbatti in faccia…

“La ripresa c’è – dicono i più ottimisti – ma non c’è nessun motivo per essere eccitati”. È infatti una ripresa debole, eterogenea e insufficiente per abbassare la disoccupazione; quindi a far risalire la domanda “interna”.

“Potrebbero riaffacciarsi rischi”, avvertono i tedeschi. Uno sono le elezioni europee, dove gli euroscettici potrebbero diventare una forza ragguardevole (una conseguenza “indesiderata” ma ampiamente attesa proprio delle scelte imposte dai “rigoristi” teutonici).

L’altro è la revisione dei bilanci bancari da parte della Bce, che potrebbero accendere tensioni (oovero portare al fallimento di istituti di credito di grandi dimensioni).

“I rischi di una crisi imprevista nell’Eurozona sono diminuiti, ma i problemi fondamentali restano in larga parte irrisolti”, sintetizza infine Nouriel Roubini. Ma non è l’unico pericolo alle porte. Robert Shiller, recente Nobel per l’economia, lo indica con chiarezza: l’attuale corsa delle borse mondiali “rischia di finire male”. E riportarci al punto di partenza (al 2008-09), ma senza “le riserve” che allora sono state gettate nel fuoco della crisi finanziaria.

Noi che abitiamo le strade, guardando dalla finestra quel che matura, dovremmo saperlo e muoverci di conseguenza.

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